Inni di Callimaco (1827)/Apollo

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Apollo

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Callimaco - Inni (III secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Dionigi Strocchi (1816)
Apollo
Giove Diana
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APOLLO


Οh! quanto il lauro e il penetral si scote!
     Via di qua, via di qua ciascun maligno,
     Febo la porta col bel piè percote.
Già la palma Deliaca benigno1
     Significò subitamente indizio,
     E dolce risentir fa l’aria il cigno.
Apriti, soglia del beato ospizio,
     Le vestigia del Dio propinque sono,
     Voi date al canto, o giovinetti, inizio.
Non fa d’ogni mortale agli occhi dono
     Apollo di svelar sua propria faccia,
     Vederlo invan desia che non è buono.
Di chiara stampa segnerà sua traccia
     In fama salirà chi Febo mira,
     Chi non lo mira converrà che giaccia.
Veder si lassi il Dio che l’arco tira,
     Nè sarò vile; all’appressar del Nume
     Mova la gioventude e piedi e lira,
Se il tetto antico sul paterno fiume
     Affidar vole e ai maritali nodi
     Venire e ai dì delle canute piume.
Splenda famoso per canori modi
     Chi la tenera man pone alla cetra,
     Taccia chi ascolta le Apollinee lodi.
Dal mar pur esso ogni fragor si arretra
     Mentre che sono in celebrar poeti
     Di Febo Licoreo lira e faretra.
Lascia di lagrimar sua prole Teti2
     Se Peana Peana intorno suona,
     Ed interrompe i suoi antichi fleti

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Colei, che in Frigia trasmutò persona,
     E dagli aperti labbri umido scoglio
     Dolenti non so quai note ragiona.
Osa invan contro il cielo umano orgoglio;
     Spiaccia al mio re chi al ciel contrasto move:
     Spiaccia a Febo chi spiace a questo soglio.
Se a grato piglia le canore prove
     Febo meriterà vostre parole,
     E il può chi siede a man destra di Giove.
Verrà più volte in oriente il Sole
     Anzi che fine al canto imponga il coro,
     Larga materia e piana a chi dir vuole.
Oro la veste, la faretra è oro,
     Oro i coturni, e di quant’oro è pieno
     Dimandatene il Delfico tesoro.
Lui nè beltà, nè gioventù vien meno,
     Nè velo di calugine gli asconde
     Delle tenere gote il bel sereno.
Balsami piove dalle trecce bionde,
     Nè di balsami pur schietta rugiada,
     Ma veramente panacea diffonde.
Ove a cittadi alcuna stilla accada
     Dell’odorato umor, tutte ha virtude
     Le cose rintegrar della contrada.
Apollo fra sue man d’ogni arte chiude,
     D’ogni scienza l’onorata insegna,
     Ventura e vaticini Apollo schiude;
D’arco instrutto e di lira Apollo regna
     Fra poeti ed arcieri, e al seme umano
     Prendere indugio dalla morte insegna.
Ebbe titolo poi di guardiano
     Che in signoria d’Amor l’equestre greggia
     Guardò d’Admeto nell’Anfrisio piano;
Agevolmente fia che là si veggia
     Calcato di lanuti il verde suolo
     Ove d’un guardo pur Febo lampeggia.

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Non saran di pastori inopia e duolo
     Aride poppe, e ciascheduna agnella
     Con doppia prole adempierà lo stuolo.
I cittadini di città novella3
     Non insolcano mai cerchio di mura
     Se Delfo primamente non favella.
Lui sono gli archi e le colonne a cura
     Di cittade, che al ciel poggia superba,
     Son fondamenta di sue man fattura.
Fanciullo ancora e nella età più acerba
     Tessea di corna di caprette un ara
     Là dove le bell’acque Ortigia serba;4
Dalle selve di Cinto assai la cara
     Sorella venatrice a lui ne porta,
     E così fondamenta a porre impara.
Apollo a Batto fu consiglo e scorta
     Di reggersi colà nel pingue lido,
     Ove la patria mia Cirene è sorta.
Sotto penne di corvo in Libia nido
     Alle schiere promise, e torri ai regi,
     Apollo è sempre in sue promesse fido.
Tu Boedromio e Clario e cento egregi
     Nomi son tuoi; fra l’are di Cirene
     Del grido solo di Carneo ti fregi.
Te dalle antiche tue stanze Lacene
     Della prole di Lajo il sesto rede
     Trasse di Tera ad abitar le arene.
Da Tera a trasmutar Batto sè diede
     Nell’Asbistico suol tuoi simulacri,
     E nel grembo locò di orrevol sede,
Trovò ludi annuali e riti sacri
     In cui greggia di tauri intera tinge
     Gli altari tuoi di rubri ampi lavacri.
Di tanti fiori primavera cinge
     Adorato Carneo tuo santo loco
     Quanti April rugiadoso educa e pinge,

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A te lo stel dell’odorato croco
     Produce il verno, e sempre a te novelle
     Splendon vigilie di perpetuo foco.
Biondo drappel di Libiche donzelle
     Se dei ludi Carnei reddiva l’ora
     Scorrea coi pro’ guerrieri in tresche snelle.
Doriche genti a quella etade ancora
     La stanza non ponean di Cire al fonte,
     E nel selvoso Azili avean dimora.
Febo addittolli dal Mirtusio monte
     Alla mogliera, che al lion nemico
     Del gregge Euripileo ruppe la fronte.
Più bel coro non vide, e non fu amico
     Come a Cirene mai Febo a cittade
     Memore ancor del rapimento antico,
E altrove non mirò tanta pietade:
     Odo gridar Pean: grido che sorse
     Dapprima nelle Delfiche contrade,
Quando il serpente che a’ tuoi passi occorse
     Mentre scendevi dalla Pizia rocca
     Sotto cento quadrella il terren morse.
Io Pean risuonava, Io Pean scocca
     Liberatore! e il suon che in Delfo uscìo
     La prima volta, in sommo è d’ogni bocca.
Dicea Livor celatamente al Dio: 5
     Musa che il suon delle marittim’onde
     In suo stil non adegua, i’ non laud’io.
Lo rimove col piè Febo, e risponde:
     Grande è l’Assirio rio, ma sozza rena,
     E molto limo a sue piene confonde.
Non portan acque da ciascuna vena
     A Cerere Melisse, ma da sacro
     Limpido rio, che fior di linfe mena.
Re salve, e Momo sia sempre più macro.

Note

  1. [p. 19 modifica]Nacque in Delo sotto la pianta di una palma, quindi la palma gli era sacra non meno dell’alloro.
  2. [p. 19 modifica]Si accenna la strage fatta da Apollo dei figli di Niobe, la quale in Frigia fu per dolore trasformata nel monte Sipilo, da cui scorre un fonte. La soavità dei canti era tale, che Teti e Niobe dimentiche dei danni sofferti da quel nume stavano ad ascoltarli.
  3. [p. 19 modifica]Non si ponevano i fondamenti di nuova città senza consultar prima l’oracolo Delfico.
  4. [p. 19 modifica]Quest’ara fabbricata da Apollo con corna di capre era una delle sette meraviglie del mondo.
  5. [p. 19 modifica]Qui si crede adombrato Apollonio Rodio emulo e forse invido di Callimaco.