Saggi critici/«La Divina Commedia». Versione di F. Lamennais, con una introduzione sulla vita, le dottrine e le opere di Dante

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«La Divina Commedia». Versione di F. Lamennais, con una introduzione sulla vita, le dottrine e le opere di Dante

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«La Divina Commedia». Versione di F. Lamennais, con una introduzione sulla vita, le dottrine e le opere di Dante
Pier delle Vigne Giulio Janin
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LA «DIVINA COMMEDIA»

Versione di F. Lamennais, con una introduzione sulla vita,

le dottrine e le opere di Dante.


Ecco un nuovo lavoro intorno a Dante. È il testamento del Lamennais, interrotto dalla morte.

Credevo impresa piuttosto disperata che difficile una traduzione di Dante in francese; il Lamennais ha fatto un miracolo di lavoro: ha costretto la lingua francese a ubbidire a Dante. È una versione letterale; e, in questa maniera di tradurre, la lettera per lo piú uccide lo spirito; oltreché la ti dá il significato, di rado la poesia. Ma la nuda lettera sotto la penna del Lamennais diventa pensier ed immagine, colore e musica. Quel sostituire parola a parola è fatto con tanta intelligenza del testo, e con si scrupolosa esattezza, che il pensiero si trasmette limpidamente dall’una nell’altra lingua1. Questo è giá molto, chi pensi quanto Dante sia di difficile intendimento anche ad un italiano. Ma questo è merito volgare allato al rimanente. Innanzi al Lamennais non istá giá la parola italiana, a cui cerchi l’altra che le risponda, ma il pensiero tutto intero e vivo, che [p. 121 modifica]trapassa in francese co’ suoi accessorii, col suo colorito, con la sua armonia; e questo ei fa senza sforzo, senza frasi, con tanta evidenza e con un fare sí naturale, che quel pensiero ti par nato in francese; cosa mirabile! è una traduzione potentissima ed insieme strettamente letterale. Con la sapiente collocazione delle parole, con l’audacia delle inversioni egli ti crea una specie di prosa ritmica, che simula l’armonia dantesca; con ardite ellissi, con tragetti e scorciatoie ed uso maestrevole di particelle serba tutto il nervo e la brevitá della maniera dantesca. Dante dice cose profonde in immagini vive e spesso con semplicitá: la metafisica stessa di sotto alla sua penna esce statua; alla qual perfezione plastica si alza non di rado il Lamennais, fatto despota della sua lingua, ma despota intelligente. E si è con molto accorgimento aiutato dei primi classici francesi, tal che nel colore e nel giro senti un sapore di antico, che ti ricorda Amyot e Montaigne. Ma per non rimanere sui generali, io voglio raffrontare questa versione con quella pur letterale del Brizeux, e scelgo alcuni esempli, nel canto di Ugolino:


Ce pécheur détourna sa bouche du féroce repas.


Eccetto il «détourner», che è ben diverso dal «soulever» qui il senso vi è esattissimo: ma niente altro. La poesia è fatta prosa e prosa familiare: è Dante in veste da camera: una vista di tant’orrore è espressa con quel tono di conversazione, onde altri direbbe: — Andiamo a passeggiare o a desinare. — Bene altrimenti il Lamennais:


De l’horrible pâture ce pécheur souleva la bouche.


Quanta proprietá in quel «pâture», che ti risveglia nella mente la natura di quel pasto, atto bestiale, come dice piú sopra il poeta! E nell’ordine delle parole e nell’armonia che ne nasce, non sentite qualche cosa d’insolito? La fantasia del Lamennais è percossa dall’orrore; non è solo il significato, ma [p. 122 modifica]l’impressione di Dante, che rivive nella sua traduzione. Seguitiamo il paragone:

Puis il commença en ces termes.        Puis il commença.
Mais tu me sembles vraiment flo-
rentin, quand je t’entends
parler.
      Mais, á t’entendre, bien me pa-
rais-tu florentin.
Tu dois savoir.       Sache.
De quoi as-tu coutume de pleu-
rer?
      De quoi pleureras-tu?
Je me sentais devenir de pierre.       Je fus pétrifié.
Je vis sur quatre visages l’aspect
que je devais avoir.
      Sur quatre visages je vis mon
propre aspect.
Quand il eut ainsi parlé.       Cela dit.
Il repris le misérable crâne, oú
ses dents, comme celles d’un
chien furieux, entrèrent jus-
qu’á l’os.
      Et renfonça les dents dans le
crâne misérable, qu’ il broya,
comme le chien broie les os.
Tu es bien cruel.       Bien cruel es tu.
Gaddo se jeta et s’étendit á mes
pieds.
      Gaddo tomba étendu á mes
pieds.
È la traduzione di uno scolare corretta dal maestro. I francesi nell’esprimere la stessa cosa s’incontrano nelle stesse parole e frasi, ciò che rado avviene presso gl’italiani per ragioni che non accade qui dire. I due traduttori si rassomigliano tanto ne’ vocaboli e nelle locuzioni, che il secondo lavoro sembra la stessa prima versione rifatta ed emendata. In apparenza non ci ha che piccoli mutamenti; ma lá è tutto lo stile: parole proprie sostituite alle frasi «devenir de pierre»; forme di dire brevi e dirette in luogo d’inutili giri «tu dois savoir» — «De quoi as-tu coutume de pleurer?» — «l’aspect que je devais avoir» — «quand il eut ainsi parlé», ecc.; collocamento di parole secondo l’immaginazione e l’affetto, come: «bien cruel es tu» — «le crâne misérable», ecc.; squisita arte nell’espressione delle idee accessorie, come: «la douleur déséspérée, qui, seulement d’y penser, m’oppresse le coeur avant que je parie» (il Brizeux
[p. 123 modifica]dice: «m’oppresse le cceur en y pensant et avant que je parie»); come: «á t’entendre, bien me parais-tu florentin» (il Brizeux dice: «tu me sembles vraiment florentin, quand je t’entends parler»); un’armonia poetica che ti fa risonare nell’orecchio l’energia aspra di Dante: «qu’ il broya, comme le chien broie les os»
che furo all’osso, come d’un can, forti.
Aggiungi una certa sanitá e castitá di forma, remota da ogni Ascio e da ogni gonfiezza. Non è bellezza tanto delicata, non gradazione di affetto, che sfugga all’occhio del traduttore. Ugolino, intravvedendo confusamente in sogno nel lupo e ne’ lupicini la sorte sua e de’ suoi figliuoli, chiama quegli animali con vocabolo umano: «lo padre e i figli». «Fatigués me paraissaient le pére et les fils», traduce egregiamente il Lamennais: ed il Brizeux dice prosaicamente: «le loup et ses petits me parurent fatigués». Non ha sentito quanto strazio è li in quel «padre» e «figli», parola a doppia faccia, che ci mostra ciò che vede Ugolino e ciò che la visione gli annunzia. E poco appresso: «pour nous regarder ainsi, mon pére, qu’as-tu?». Dante dice:
Tu guardi si, padre, che hai?
A questo linguaggio dell’affetto, dove tutto è impressione, ed il legame logico è cancellato, il Brizeux sostituisce una forma discorsiva, una specie di post hoc, ergo propter hoc, ma stupendamente il Lamennais: «Pére, comme tu regardes! Qu’as-tu?»

La versione è preceduta da una introduzione sulla Divina Commedia, divisa in otto capitoli. Gli ultimi tre sono una esposizione del poema nel suo significato generale e delle sue parti. E i primi cinque? È giá lungo tempo, che si ripete: — La letteratura è l’espressione dell’individuo e della societá. — E però non c’è critico oggi che non creda suo obbligo di farti a proposito di un lavoro letterario la storia dell’autore e de’ suoi tempi. Il Lamennais si è messo per questa medesima via; e nel primo capitolo ti fa uno schizzo della storia del mondo dalla caduta [p. 124 modifica]dell’impero romano infino ai nostri giorni; in altri due ti parla di Dante e delle sue opere; e ne’ due ultimi delle dottrine filosofiche e politiche del poeta. Insomma questi cinque capitoli sono una risposta alla dimanda: — Qual è il contenuto o la materia del mondo dantesco? — Nella critica antica questa parte o non vi aveva luogo, o vi era a curiositá, collezione di fatti e di notizie. Ella guardava agli artifizi esteriori dello scrivere, a qualitá spesso accidentali, che innalzava a dignitá di regola; la materia, il contenuto era per lei un indifferente: o ne taceva o ne toccava per mera erudizione. Prendete i giudizi famosi sulla Gerusalemme liberata, leggete il giudizio dello stesso Tasso. Unitá d’azione, semplicitá della favola, il decoro, il costume, l’affetto, e piú l’elocuzione che allora chiamavasi «stile» e la lingua, ecco di che si occupava quella critica. Un moderno al contrario, se ti dee giudicare del Tasso, ti fará la storia delle Crociate, ti discorrerá degli elementi che vi entrano, della natura di questi elementi, ecc.; se ti dee giudicare di Dante, ti parlerá della sua vita, e di guelfi e ghibellini, e di papa ed imperatore, e di Aristotele e San Tommaso. La materia che nell’antica critica era un accessorio, qui diviene il principale. L’antica critica era rettorica; la moderna è storia di fatti e di dottrine. Ora la rettorica e la storia, cioè le leggi generali e gli elementi sociali, sono cognizioni preliminari che possono servir di base ad un lavoro critico, ma non sono ancora la critica. La rettorica ti dá la pura forma, e, segregata dal soggetto, degenera in regole astratte, spesso arbitrarie e accidentali, sempre estrinseche: la storia ti dá il puro fatto, il contenuto astratto della poesia, la materia grezza e inorganica, comune a tutti i contemporanei. Le idee e le passioni, per esempio, che sono il fondo della Divina Commedia, noi le troviamo in ser Brunetto Latini, nel Cavalcanti, e in molte leggende di quel tempo. Perché elle solo in Dante sono immortali? Perché quella materia Dante solo ha saputo lavorarla e trasformarla, facendo di un confuso e meccanico aggregato una vivente unitá organica. Adunque la quistione critica fondamentale è questa: posti tali tempi, tali dottrine e tali passioni, in che modo questa materia è stata lavorata dal [p. 125 modifica]poeta, in che modo quella realtá egli l’ha fatta poesia? Il Lamennais non ha neppure sospettato il problema. I suoi cinque capitoli sono gli antecedenti, il semplice «dato» del problema rimaso intatto: la materia astratta del poema è fatta prosa; il mondo dantesco smembrato. La critica è la coscienza o l’occhio della poesia, la stessa opera spontanea del genio riprodotta come opera riflessa dal gusto. Ella non deve dissolvere l’universo poetico; dee mostrarmi la stessa unitá divenuta ragione, coscienza di sé stessa. Quando, per esempio, il Manzoni dopo avermi posto in iscena don Abbondio o Federico Borromeo, interrompendo la narrazione, si ferma a descrivere il loro carattere e l’influsso che ebbe su di essi il tempo in cui vissero, il lavoro cominciato dal poetamè continuato dal critico; quella seconda parte è lo stesso Abbondio o Federico creato prima dal genio e rifatto dopo dalla riflessione, il poeta che, tranquillati gl’impeti della fantasia, si raccoglie in sé stesso, e ripensa con coscienza quello che ha creato: elemento prosaico che distingue il romanzo dalla poesia pura, che il Manzoni ha introdotto quasi sempre con giusta misura, che nel Balzac valica ogni termine e spesso assorbisce in sé la poesia. La critica dunque non è né assoluto pensiero, né assoluta arte, e tiene dell’uno e dell’altra; è la stessa concezione poetica guardata da un altro punto. Dio crea l’universo, il filosofo è il critico di Dio; la vera filosofia è la creazione ripensata o riflessa: la vera critica è la creazione poetica che si ritorna o si ripiega in sé stessa. Ma perché ciò sia possibile, il critico dee cogliere la quistione nella sua essenza, la materia poetica nella sua successiva formazione ora simbolo, ora persona, qui carattere o passione, lf idea o sentimento o immagine. Il Lamennais al contrario fa come certi storici, che credono di darti un concetto filosofico della storia, scrivendo capitoli della religione, delle istituzioni, delle arti, delle scienze, ecc., non comprendendo che questi elementi debbono far parte della narrazione e comparire nel seno stesso de’ fatti in reciprocanza di azione, a volta a volta motori e mossi; questo astrarli dall’azione è un cavarli fuori della vita o della storia, e ridurli a nudi concetti. Cosi il Lamennais, volendo spiegarci [p. 126 modifica]la poesia dantesca, in luogo di riprodurre come critica quella immagine che il poeta ha dato fuori come arte, comincia dall’annullarla, dal dissolvere con un soffio quella magnifica creazione in elementi sparsi: religione, politica, morelle, filosofia, avvenimenti, ecc. Egli non ha preso la penna, dopo letto, e caldo ancora della lettura. Siccome non si può pronunziare il nome di Dante che non ci si risvegli nella mente una moltitudine di comentatori e di comenti, de’ quali ciascuno ha sciolto la Divina Commedia in brani e frammenti; l’illustre scrittore avendo innanzi piú gl’interpreti che il poema, non ha saputo resistere a quell’impulso, ed ha voluto anch’egli dar la sua mano a questa specie di decomposizione chimica dell’universo dantesco: cosí, invece di una esposizione animata e drammatica, ci ha dato dissertazioni dichiarative. Non di meno questa sorta di lavori hanno pure la loro utilitá: essi servono immediatamente all’intelligenza del poema; e per indiretto giovano pure alla critica, raccogliendo e fermando i fatti, sui quali dee esser fondata. Una volta entrato in questo ginepraio, il Lamennais vi ha sparso la luce della sua intelligenza? Ha vedute tutte le questioni importanti? le ha determinate? le ha risolute? Insomma, ha voluto egli fare un lavoro serio? Ecco che cosa è, a mio avviso, un lavoro serio: abbracciare il contenuto della Divina Commedia tutto intero e scioglierlo con precisione in tutti i suoi elementi; scartare le questioni accessorie o frivole o pedantesche, su cui si sono scritti volumi; stabilire le questioni essenziali ed ordinarle in modo che rispondano a’ successivi momenti del mondo dantesco; quelle che sono oramai fuori di ogni contestazione esporre lucidamente come risultati giá ottenuti: le altre chiarire e determinare. Questo lavoro serio non è ancora fatto, e, dopo letto il Lamennais, debbo a malincuore ripetere: — Non è fatto ancora. — Quando lo Schelling diceva che ci sarebbe a fare una scienza dell’universo dantesco, egli intravedeva un tale lavoro: questa scienza è ancora un desiderio. Un lavoro analitico di questo genere suppone che nella mente preesista giá la sintesi dantesca; ora il Lamennais vi si è messo senza aver chiara innanzi una concezione qualsiasi dell’unitá [p. 127 modifica]dantesca. Quindi egli procede a tentoni; alcune parti tratta inutilmente, trattate giá, e bene, da altri; alcune quistioni importantissime risolve con un si e no, con leggerezza; e quando talora mostra di voler dire alcuna cosa di nuovo, mentre noi guardiamo quel pezzo di cielo, giá ci si oscura dinanzi. Allorché io veggo un argomento trattato da uno scrittore, soglio farmi questa domanda:— In quale stato era prima questo argomento? che cosa è divenuto? — Ebbene le quistioni intorno a Dante rimangono ancora le stesse: il Lamennais vi è passato, e non vi ha lasciato alcuna orma. A che scrivermi una vita di Dante? Poteva rimettere il lettore a Cesare Balbo, o anche al Villemain, che lo ha guardato da un lato solo, ma bene. La vita di Dante, come storia de’ suoi casi, è una parte giá esausta della materia, e se pure vi è qualche quistione di fatto ancora mal ferma, come il tempo in cui cominciò la Divina Commedia, il Lamennais non so n’è dato briga: egli ha raccolto fatti notissimi. La vera vita di Dante, che rimane a fare, è la storia della sua anima, è il determinare il suo ingegno, il suo carattere, le sue passioni: è il fare di prospetto un ritratto che gli scrittori finora ci presentano di lato. Questa è la parte nuova della materia: il Lamennais non l’ha veduta. A che farci un indice ragionato delle sue opere? Parlarci del Convito significa esporci la poetica di Dante. Parlarci della sua lirica significa mostrarci la prima forma sotto la quale apparisce il suo ingegno poetico, ecc. Queste sono le parti della quistione non tocche; tutto l’altro è tritume. Ci era egli bisogno del Lamennais per sapere che il canto è naturale all’uomo, e perciò la poesia è la parola cantata, cosa che egli amplifica con un po’ di rettorica, come se non fosse questa una di quelle veritá, che si debbono oramai accennare come risultati senza fermarvisi piú che tanto? Ci parla del misticismo dell’amore dantesco. In veritá non ne valeva la pena, dopo Opitz ed Ozanam. Si è troppo abusato di questa parola. Ciò che piú importa è il mostrarci sotto quel misticismo la profonda realtá della passione, che comunica a quello il movimento e la vita. S’imbatte in una questione capitale, nel simbolismo politico, nel sistema del Rossetti. L’autore lo accetta, piú affermando [p. 128 modifica]che dimostrando senza tener conto delle gravi obbiezioni di Schlegel, e riproducendo alcune triviali osservazioni del Rossetti e dell’Aroux. Eppure non era qui luogo a dir si e no. Ben era degno dell’ingegno di Lamennais entrare risolutamente in quella questione e farla finita, sceverando il vero da tutte le esagerazioni, a cui l’amor di sistema ha sospinto il cementatore italiano e il francese che hanno ridotto la Divina Commedia ad una sciarada politica. Nel capitolo primo e nel quarto e nel quinto vediamo qualche nuovo orizzonte: lo stile è piú colorito e animato. Se non che l’autore vi si è posto con certe preoccupazioni, guardando piú ai nostri tempi che a Dante. Nella civiltá moderna entra come fattore il solo elemento cattolico ed il germanico, o anche l’elemento latino? Il cattolicismo può stare con la libertá? Il papato è stato favorevole alla libertá italiana? Quistioni gravissime senza dubbio: ma qui la Divina Commedia non è piú il principale, ma un’occasione, di cui si vale il Lamennais per gittare prima di morire la sua ultima parola nelle appassionate discussioni che ci agitano al presente. Ed essendo quistioni incidenti, non è meraviglia che elle non sieno trattate in quel modo definitivo che toghe l’adito alla replica: sono piuttosto sfoghi d’animo indegnato contro il triste presente, che ragionamenti fatti con uno scopo serio. Per dir breve ei mi pare che la morte abbia tolto a Lamennais di meglio determinare il suo disegno, di ordirne con piú accuratezza le fila e di dare alle questioni quel compiuto sviluppo, quel non so che di finito, che ci fa dire: — Ecco una veritá messa in sodo. — Ma se al suo lavoro manca quel vedere da alto e da lungi, che ci fa addentrare in un soggetto ed afferrarne tutte le parti vive, non vi desideri mai alcuna dote esterna di stile, chiarezza, efficacia, splendore. L’esposizione, per esempio, della dottrina scientifica, su cui è edificato il paradiso dantesco, è fatta con molta lucidezza, pregio che manca a Göschel, quantunque il suo lavoro intorno allo stesso argomento sia assai profondo e determinato. Il carattere proprio della Divina Commedia, di riassumere il passato ed accennare all’avvenire, è espresso con una vivacitá e giovinezza d’impressione, che par non credibile, chi pensi [p. 129 modifica]all’etá dello scrittore. «Ce poème est á-la-fois une tombe et un berceau: la tombe magnifique d’un monde qui s’en va, le berceau d’un monde près d’éclôre: un portique entre deux temples, le tempie du passé et le tempie de l’avenir.» L’osservazione non è nuova e per parlar de’ francesi, essa è stata fatta dal Labitte; ma il Lamennais l’ha trovata lui, e l’ha espressa con la freschezza della prima impressione, dandole una forma splendida che la fissa nella memoria.

In questi cinque capitoli adunque l’autore ci dice qual è il poeta, e quale la materia su cui lavorò. Ma non dimentichiamo che questo, a cui i moderni danno tanta importanza, non è se non materia morta, ossa sparse che attendono ancora il soffio della vita per comporsi a quella unita, che dicesi uomo. Non siamo entrati ancora nel tempio dell’arte. Non vi è ancora critica. In che modo Dante ha lavorato questa materia e fattone un mondo? Qui sta il nodo del lavoro. Se il Lamennais lo avesse trovato, ecco che cosa sarebbero stati i suoi cinque capitoli. Le dottrine filosofiche e politiche a’ tempi di Dante erano penetrate in tutte le parti del vivere sociale, e costituiscono ciò che dicesi il mondo cattolico; era la realtá su cui lavorava il filosofo ed il poeta: onde nacque una filosofia tutta propria, che il Ritter chiama a ragione filosofia cristiana, ed una poesia diversa dall’antica. Il Lamennais dunque, in luogo di dirci in astratto le dottrine di quel tempo, ci avrebbe presentato innanzi un mondo vivente, incarnazione di quelle idee; ed avrebbe delineato i caratteri essenziali di quel mondo, e le sue qualitá estetiche, il suo ideale vago ancora ed in germe, mostrantesi qua e colá in tratti sparsi e fuggevoli nelle «leggende», e destinato a dispiegarsi secondo sua natura, quando cadrá sotto l’occhio di un uomo che lo comprenda e lo senta. Ecco l’uomo: quel mondo diviene arte, diviene la Divina Commedia. E qui l’autore, toccato di volo de’ suoi casi, ci avrebbe mostrate le qualitá poetiche del suo ingegno, il suo carattere, ed il potere che ebbero sul suo animo le sue sventure e le sue passioni. Determinate cosí le qualitá essenziali dell’argomento e dell’ingegno che lo tratta, si sarebbe avuto il vero «dato» del problema: [p. 130 modifica]posto il «tale argomento» ed il «tale artista», in qual guisa quella materia è stata lavorata? Avendo l’autore esposto gli antecedenti del problema, io ho potuto mostrare come quella esposizione avrebbe dovuto condursi; ma quanto al problema, non un sol vestigio; egli non ne ha sentore, lo salta a piè pari; e però io non dirò in che modo, a parer mio, si sarebbe dovuto risolvere, poiché non presumo giá di sostituire me all’autore. Dirò solo che, non essendosi egli collocato a quest’altezza, i tre ultimi suoi capitoli non possono essere e non sono che un sommario delle tre cantiche. Il contenuto esposto innanzi, come semplice fatto, che dovrebbe ora riapparire come fatto poetico, è dimenticato; quei cinque capitoli gli è come se non fossero; egli rifá un simulacro di parte generale, gittando osservazioni sulla immortalitá dell’anima, sulla eternitá delle pene, sulla predestinazione, ecc., che non hanno alcun legame col rimanente, né alcuna applicazione. Viene il sommario, cioè a dire, una esposizione analitica delle tre cantiche. Che cosa è questa? Senza una concezione del poema e di ciascuna cantica altro che vaga e confusa, senza un centro ed un punto di partenza, il critico segue il poeta passo passo: trasanda alcune cose che gli sembrano indifferenti o poco notabili, si ferma a certe altre che gli paiono belle. È la critica alla maniera del Ginguené, del Sismondi, del Bouterveck, una critica di particolari: è un viaggio in cui segue ogni svoltata della strada senza scopo e senza disegno: si osserva questo, si ammira quest’altro, e non giungi mai a tale altezza che tu intenda «del cammin la mente» secondo l’ardita metafora dantesca. Questo genere di critica a spizzico ed a bocconi è il non plus ultra della scuola antica; il Laharpe in Francia ce ne ha pòrto splendido esempio. Ma in questo campo quanto cammino vi ha fatto il Lamennais! Nella scuola antica la impressione di rado serbavasi spontanea ed ingenua, falsata come era dalla rettorica, da regole preconcette, da gusto fattizio e di convenzione, da una certa pedantesca acutezza, che, non contenta delle bellezze semplici e caste ch’e si offrono naturalmente allo sguardo, si compiaceva delle sottili interpretazioni, e per troppo abbellire il testo, lo adulterava e [p. 131 modifica]lo gonfiava. Il Lamennais è libero da ogni preoccupazione, e si affida alla squisitezza del suo sentire ed alla finezza del suo gusto. Ecco in che modo procede. Fatto in pochi tratti il disegno del luogo, si gitta appresso al poeta, e via innanzi, narrando, compendiando. In questo rapido sunto, dove trovi di necessita molte lacune, quando si avviene in qualche cosa che lo tira a sé, si arresta come invaghito, e riferisce per intero il luogo. Poi tutto caldo della impressione ricevuta, esce in esclamazioni ammirative, gittando qua e lá un tesoro di osservazioni delicatissime, che sono la parte nuova di tutto il lavoro. Veggasi tra l’altro ciò che nota del Farinata, e Guido da Montefeltro. Egli ha compreso benissimo la maniera serrata e rapida del poeta, quel suo dipingere a larghi tratti, il gran numero d’idee accessorie che sa risvegliarti nella mente, la varietá de’ sentimenti e caratteri, la sua arte di preparare e graduare. Nessuno meglio di lui sa estimare tanta forza congiunta con tanta semplicitá, tanta determinazione con tanto di vago e di fluttuante.

Vi sono osservazioni che quantunque si riferiscano a questo o quel luogo, nondimeno hanno un valore piú generale e sono le piú preziose. Cosi parlando di Farinata sappiamo in che modo il poeta dipinge i suoi personaggi: «Pas une réflexion; quelques larges coups de pinceau, un bref dialogue dont chaque mot met á nu le fond de l’âme, et le tableau est complet». A proposito di Ser Brunetto, l’autore ci mostra il lato «umano» della Divina Commedia; «sous le damné on retrouve encore l’homme. Qui aurait pu supporter, sans cela, l’affreux récit de tous ces supplices? Il n’eût produit qu’une impression de dégoût et d’horreur, et le livre serait tombé des mains». Oderisi da Gubbio dice:

La vostra nominanza è color d’erba
Che viene e va... ecc.

L’autore prendendo occasione da questo ci mostra una delle qualitá piú spiccate delle anime purganti, la calma nelle pene, «contente nel fuoco», come le chiama Dante. «Oderisi ne dit point ‘no tre renommée’, mais ‘votre renommée’. Dans le [p. 132 modifica]monde ou il se puriiie avant de monter vers Dieu, le monde qu’ il a quitté ne le touche plus: il le voit ainsi que le verrait un habitant d’une autre sphère, sans passions et sans illusions, avec piùé calme; et ce calme, au milieu de soufirances désirées, aimées comme la condition nécessaire du bien infini qui les suivra, forme le caractère principal de l’état des âmes en cette région intermédiaire. Un seul mot a suffi pour marquer la séparation de deux modes de vie si étroitement liés et si dissemblables.» E poiché la calma di Oderisi è qualitá comune a tutte le anime purganti, il Lamennais ha qui intravveduto quello che manca al suo lavoro, e forse la morte gli ha tolto di supplirvi, cioè a dire una concezione generale del Purgatorio, e la storia generale delle anime purganti. Ce n’è un semplice schizzo, ed è molto bello. «Le ton de cette cantique contraste profondément avec celui de la précédente. Il a quelque chose de doux et de triste comme le crépuscule, d’aérien comme le rêve. Les violents mouvements de l’âme se sont apaisés. Les peines matérielles y ressemblent á celles de l’enfer, et l’impression en est toute différente. Elles éveillent une tendre piùé, au lieu de la terreur et d’une âpre angoisse. L’âme souffrante non seulement les accepte parce qu’elle en reconnaít la justice, mais elle les désire parce qu’elle sait qu’elle guérira par elles, et que, dans la douleur passagère, elle pressent une joie qui ne passera jamais. De lá je ne sais quoi de tranquille, de calme, de mélancolique et de serein. Otez de la vie présente l’incertitude, le doute, la crainte, laissez-y seulement avec ses misères, l’espérance qui les adoucit, et une pieine foi d’atteindre le but que l’espérance nous montre, ce sera le Purgatoire, tei que Dante le peint. Et c’est qu’au fond le Purgatoire, l’Enfer, le Ciel, au degré ou nous pouvons en avoir et l’idée et le sentiment, ne sont que les divers états de l’homme sur la terre, le monde ou nous vivons, mélangé de vertus et de vices, de juissances et de soufirances, de lumières et de ténèbres, et qu’en réalité l’autre monde n’en est que l’extensions dans une sphère plus élevée et plus large.» Non mancava dunque al Lamennais né l’intelligenza del suo lavoro, né virtú sintetica: ciò basta a mostrarlo. Ma non sono [p. 133 modifica]che lampi: queste osservazioni giustissime, che riguardano alcune parti essenziali del Purgatorio, stanno come campate in aria, senza premesse e senza conseguenze, e rimangono sterili.

Né meno da pregiare sono le sue osservazioni particolari. Ce ne ha di comuni o di vaghe, ma ce ne ha di quelle che si possono chiamare scoperte. Egli è il primo che abbia posto mente al significato dell’episodio del Cavalcanti intramesso a quello di Farinata: «Plus cette scène est touchante, plus elle fait ressortir le caractère de Farinata. Elle n’a point existé pour lui: il n’a rien vu, rien entendu, absorbé tout entier dans l’amer sentiment qu’ont réveillé en son áme superbe les paroles de Dante». Né con minor sagacia ha veduto quanto l’amor di patria vaglia a temperare in Farinata l’asprezza del suo carattere: è orgoglio senza durezza: «Le poète, sans altérer le caractère de Farinata, en tempère l’âpreté, en montrant dans l’homme de parti, dans le chef de faction, quelque chose de plus fort encore que la haine: le doux, le saint amour de la patrie». Ecco un’altra osservazione delicatissima. Ciascuno ricorda l’ammirabile paragone:

Quali le pecorelle escon dal chiuso, ecc.

«Remarquez, dice Lamennais, quelle calme, quelle tranquille lumière marinale ces images champêtres répandent sur des lieux cependant consacrés aux pleurs, et comme l’innocence de ces simples et douces et placides créatures se reflète sur les âmes encore malades, encore soufírantes, mais assurées désormais de posseder, au seine d’une éternelle paix, le bien immuable. Ce sont ces secrets rapports, qu’on sent, qu’on n’exprime point, tant les nuances en sont et délicates et fugitives, qui font le charme inépuisable des oeuvres du vrai génie.» Il Lamennais ha ragione. Questi secreti rapporti il poeta non li cerca, li trova sotto la penna, e il gran critico, che ha pure la sua parte di spontaneitá non li pesca, ma li sente nell’atto stesso della lettura.

Certo non tutto è di questa perfezione. Talora trovi impressioni vaghe: l’autore non ha avuta la pazienza di ridurle a [p. 134 modifica]qualche cosa di netto e di preciso. Ecco ciò che dice a proposito del «guarda e passa»: «Quelle indignation, quelle colóre peserait sur ces damnés d’un poids égal á celui de ce mépris?». Conchiude l’esame del Farinata a questo modo: «Si ce ne sont pas lá des beautés égales á tout ce que la poésie offrit jamais de plus beau, qu’est-ce donc?». Spesso ti dice: — Vedete bene che il poeta sentiva indegnazione, o disprezzo, o ira, o amarezza, ecc. — Tutto questo è una critica a frasi che non ha alcun valore. Alcuna volta si compiace di paralleli; ed io odio la critica a paralleli, di cui tanto si è abusato finora, perché o ella resta sui generali o ti tira a conseguenze assurde. Quando il Lamennais per esempio, e prima di lui Chateaubriand, mi paragonano il Lucifero di Dante col Satana di Milton, e preferiscono questo a quello, non si avveggono che qui il paragone non calza, essendo essi fondati sopra due concezioni essenzialmente diverse; tal che il Lamennais, che è pure cosí benevolo verso di Dante, ci dice che il vero suo Lucifero è Capaneo. Ma se Dante ha saputo in Capaneo rappresentare cosí altamente il sublime, che si ammira nel Satana di Milton, e perché non ha rappresentato con pari altezza il Lucifero? Questo dovea indurre sospetto nel Lamennais che Dante ci avesse avute le sue buone ragioni. Cosi qual paragone si può istituire tra la descrizione che Milton fa della luce e quella di Dante? Vi è differenza essenziale di situazione, d’impressione, e quindi di stile. Talvolta l’impressione dell’autore è tanto vivace, che oltrepassa la poesia, la continua a suo modo e le aggiunge sentimenti ed immagini che rimangono fuori di lei: non ha piú Dante innanzi, ma sé stesso. La poesia è oblio dell’anima nell’oggetto della sua contemplazione; la critica è oblio dell’anima nella poesia. Il Lamennais n’esce fuori, e si abbandona a’ suoi sentimenti e sfoga il suo animo troppo pieno di amarezza. Dante dice:

Libertá va cercando, ch’è si cara.
Il critico rimane profondamente commosso ad una parola che a lui giá presso alla tomba riassumeva tutta la sua vita, sogni di libertá, speranze, brevi gioie, crudele disinganno, fede [p. 135 modifica]nell’avvenire indomata. «Hélas!», prorompe non piú il critico, ma l’uomo, «en tous les sens, que sommes nous, que des pauvres misérables, qui vont cherchant la liberté, la liberté de l’esprit asserví aux préjugés et á l’ignorance, la liberté du cœur esclave des passions, la liberté du corps livré aux caprices de maîtres insolents, la liberté dans tous les ordres, dans l’ordre intellectuel, l’ordre moral, l’ordre politique? Qu’est-ce que nos sociétés, que est-ce que le monde, sinon un noir sépulcre, ou la tyrannie, sous mille formes hideuses, nous enchaine avec des ossements?». Non mi dá l’animo di chiamar questo un difetto: non è lo stupido subiettivismo di menti superficiali, incapaci di profondarsi e immedesimarsi nel lavoro che hanno innanzi: è il difetto di una bell’anima, un melanconico ripiegarsi in sé, un ritirar l’occhio talora dal medio evo e guardarsi intorno. Vi sono alcuni tratti di questo genere, che ti stringono il cuore. Papa Adriano, parlando di Alagia, conchiude:
E questa sola m’è di lá rimasa.
Il Lamennais soggiunge: «Quelle tristesse dans ce mot simple, bref, qui termine le récit du Pape, comme la vie se termine, par la solitudine et le vide!». E qual tristo comento, dirò io a mia volta; e quanta semplicitá in tanta tristezza! Il Lamennais scrivea questo pochi giorni prima di morire. Ed è a dolere che la morte gli abbia impedito di condurre a termine un si grave lavoro e di darvi l’ultima perfezione: perocché, lasciando stare le lacune e le parti rimaste imperfette, il suo stile alcuna volta, massime ne’ primi capitoli, mi ha aria piú di sommario che di esposizione; è una forma abbozzata e provvisoria, che egli certo riserbavasi di determinare. Vecchio, ma di una verde vecchiezza, la morte lo ha colto nell’atto del combattere, militando l’ultimo giorno con la fede ed il vigore de’ primi anni: ché pochi possono dire come il Lamennais: — La mia vita è stata tutta una battaglia, una faticosa ed angosciosa battaglia per il bene del genere umano. — Desidero a molti una giovinezza pari a questa sublime vecchiezza del traduttore di Dante.

[Nel «Cimento», a. III, vol, VI, pp. i-i5, luglio i855.]

  1. Salvo pochi casi, come: «Nous voyons... les choses qui sont loin, autant que les éclaire le souverain Maitre». Il traduttore non ha ben compreso il verso:

    Cotanto ancor ne splende il sommo Duce.