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Acarnesi (Aristofane-Romagnoli)/Parabasi

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Parabasi

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Aristofane - Gli Acarnesi (425 a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1924)
Parabasi
Agone secondo Episodio primo
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PARABASI


coro
Invito
Quest’uomo trionfa: disposti alla tregua son tutti: le vesti
or noi deponendo, facciamoci innanzi per dir gli anapesti.
corifeo
Parabasi
Da che direttore di comici cori fu il nostro maestro,
non mai lo sentiste vantarsi in teatro com’egli sia destro.
Ma poi che i nemici, fra il popolo precipitoso d’Atene,
lo accusano ch’egli trascini la vostra città su le scene,
convien che al mutevole popolo ei faccia le proprie difese.
Gli avete, il poeta ci dice, degli obblighi molti. Ei v’apprese
a non farvi troppo gabbar dalle chiacchiere degli stranieri,
per lui foste meno sensibili al lustro, per lui men leggeri.
Soleano i legati già voi «redimiti» chiamar «di viole»,
e intanto l’inganno tramavano. Udendo codeste parole,

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per quelle corone, sul sommo ciascuno sedea delle natiche.
E tanto chi «lucida» Atene chiamasse v’aveva gabbati, che
con quell’affibbiarvi una lode che onore farebbe ad alici,
aveva ciò ch’egli volesse. Codesti fúr suoi benefici.
E poi con che razza di democrazia venisse tenuto
il popolo nelle città v’ha provato. Recando il tributo,
verran’ gli alleati bramosi or di scorgere l’ottimo vate
che a quelli d’Atene gran verità, senza temere, ha cantate.
Per questo ardimento, volò la sua fama già tanto lontana,
che sino il Gran Re, trattenendosi con l’ambasciata spartana,
da prima richiese del mar chi ne l’Eliade avesse l’impero,
e poscia del nostro poeta, su chi si scagliasse piú fiero.
Ché molto migliori sarebbero, ei disse, quegli uomini, e molto
piú saldi alla pugna, che a un tal consigliere porgessero ascolto.
Perciò gli Spartani propongon la pace, vi chiedono Egina!
Non è che gl’importi dell’isola! Vogliono fare rapina
d’un tanto poeta! Ma non ve lo fate scappar! Ché il buon dritto
porrà su le scene, ché, assai buone cose per vostro profitto
dicendo, vuol farvi felici: non mica con l’adulazione,
e le marachelle, promettendo lucri, facendo il briccone,
e dandovi incenso; ma sempre insegnando le cose piú buone.


Stretta
Ed or Cleone tutte le sue mene,
tutti gl’inganni suoi provi su me;
ché la Giustizia alleata ed il Bene
al fianco mio combatteranno; né
avrò in Atene, come lui, lo smacco
di passar da cinedo e da vigliacco.

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coro
Strofe
Musa veemente d’Acarne — che spiri dei fiammei baleni
la furia, qui vieni.
Qual dai carboni di leccio — sprizzar la scintilla si mira,
se il mantice sopra vi spira,
mentre uno i pesciolini belli e fritti dentro il vaso
immerge, dove un altro salsa intride di Taso,
impetuoso un carme — cosí, cosí fiero e selvaggio
intona fra noi del villaggio.
corifeo
Epirrema
Ci Iagnam coi cittadini, noi canuti, d’anni gravi;
perché, immemori, noialtri che pugnammo su le navi,
non nutrite a spese pubbliche! Siam dai torti invece oppressi,
e, cadenti come siamo, ci lasciate nei processi
trascinar, dove ci beffano degl’imberbi mozzorecchi.
Noi non siam piú nulla, siamo rimbambiti, arnesi vecchi,
altro nume tutelare non abbiam che la stampella.
Ci avanziam; ma la vecchiaia ci fa groppo alla favella;
né vediamo, eccetto l’ombra, nulla mai della giustizia.
Ma l’attacco presto e lesto, con raggiri a gran dovizia,
dà il ragazzo, che assistenti nella causa non vuole,
e c inganna e sottopone dei tranelli di parole,
ed il povero Titone martirizza, scuote e sbrana.
Ei, multato, biascicando per vecchiaia, s’allontana,
e cosí parla agli amici, mentre lagrima e singulta:
Quel che in serbo ho per la bara, l’ho a sborsare per la multa!

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coro
Antistrofe
Dunque, giustizia vi sembra — che sia nei processi perduto
un uomo canuto,
che di guerresche penose — fatiche fu oppresso, che molto
sudore deterse dal volto,
che batteasi a Maratona per la patria? — In quella pugna
sul nemico fuggiasco bene stringemmo l’ugna!
Ma or su noi la stringon, ci acciuffano i nostri nemici
ribaldi. Tu, Marsia, che dici?
corifeo
Antepirrema
Dunque un uom come Tucidide curvo e annoso, è mai giustizia
che soccomba misurandosi col «Deserto della Scizia»,
con Cefisodèmo, questo cianciator rabula? — Quanto
non soffersi, come amaro non mi corse al ciglio il pianto,
nel veder tale un vegliardo bistrattato da uno Scita!
Ah, quand’egli era Tucidide, no, per Dèmetra, patita
ei neppur la stessa Acaia non avria si di leggieri!
Ma di colpo al suol dieci Èvatli messi avrebbe; degli arcieri
ne volea con uno strillo sbigottir tremila; e tutta
la progenie d’uno Scita si briccone avria distrutta!
Ma giacché non permettete che un canuto dorma in pace,
fate almeno che spartite sian le cause; e un loquace
bagascion, figlio di Clinia, nell’accusa si presenti
contro i giovani, ed un vecchio, contro i vecchi, senza denti.
Si, convien che d’ora innanzi questa regola si serbi:
stiano vecchi contro vecchi, stiano imberbi contro imberbi.