Al fronte/Sull'Isonzo e sul Carso. Una mirabile impresa guerresca

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Sull'Isonzo e sul Carso. Una mirabile impresa guerresca

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Sull'Isonzo e sul Carso. Una mirabile impresa guerresca
Guerra d'assedio intorno a Gorizia. Un atto di sublime sacrificio Sulle pendici del Carso

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SULL’ISONZO E SUL CARSO.
UNA MIRABILE IMPRESA GUERRESCA.

5 ottobre.

Chi si avvicina adesso all’Isonzo, attraverso la pianura friulana, prima ancora di arrivare all’antica frontiera cerca in fondo all’orizzonte l’altura strana e terribile che è il terreno della lotta più ardente, il campo delle più vaste battaglie della guerra. Il suo profilo si distacca a poco a poco dal confuso e sbiadito sollevamento lontano delle Alpi Giulie, si precisa, prende rilievo, e lo sguardo non lo lascia più. È l’ultima propaggine del Carso, l’immane gradino sul quale la nostra offensiva è salita.

Non ha l’imponenza di quelle montagne guerriere che s’offrono ai combattenti delle posizioni turrite, non ha l’aperta e fiera ostilità del Rombon e del Monte Nero. È una singolare collina, lunga, adagiata, senza sbalzi di vette, senza quell’imperioso levarsi di una cima che mette ad ogni monte come una testa dominatrice. Sembra accucciata, il suo dorso ha una immobilità rettilinea. Bisogna avvicinarsi per scorgervi qualche ondulazione. Allora si osserva che quella barriera va innalzandosi a sinistra, [p. 382 modifica] e sale senza vigore fino ad una specie di protuberanza terminale: il monte San Michele. Si distinguono meno, dal lato opposto, altre piccole onde: il Monte Sei Busi, poi il Monte Cosich più lontano. Nell’insieme l’altura si disegna con la regolarità di un oscuro bastione.

È un bastione lungo dodici chilometri, alto qualche centinaio di metri, che avanza a saliente, che penetra ad angolo nella pianura come lo sperone di una prodigiosa fortezza. Il fiume gira alla base di questo spalto immane, ne lambe le pendici per un lungo tratto, poi se ne discosta e scende tortuoso al mare. Ai piedi delle alture è un affollamento chiaro di cittadine e di villaggi, Gradisca a sinistra, quasi sotto al San Michele, Sagrado alla punta più avanzata del saliente, poi Fogliano, poi Redipuglia, poi Ronchi, a destra Monfalcone, disordinate mandrie di case che sembrano fermate dall’ostacolo del Carso e adunate là sotto in una perenne attesa. Ora il cannone austriaco le macella.

Avvicinandosi al Carso la pianura si fa triste. Su dei campi abbandonati il calpestamento dei bivacchi ha aperto larghe plaghe di sterilità; altrove la campagna inselvaggisce in una invasione rigogliosa di vegetazioni parassite. Tutta la vita è sulla strada, polverosa e fangosa, percorsa da convogli e da truppe, animata da squadre che lavorano al rafforzamento di argini o allo scavo di fossati. Passato il [p. 383 modifica] fiume comincia la visione pietosa dei villaggi bombardati. Erano rimasti intatti e viventi fino ad un giorno recente nel quale il nemico ha aperto le ostilità contro di loro.


La popolazione emigra sotto alle granate, ma poi quasi sempre ritorna e si riannida tenace nelle case sconnesse, presso la chiesa crollata. Così a Turriaco, sgretolato qua e là dai colpi, abbiamo ritrovato un po’ di vita. Dei bambini giuocavano vicino alle rovine di un edificio che aveva bruciato tutta la notte e che mandava ancora fumo e calore dalle sue macerie calcinate. A San Canziano, sulle soglie di case sfondate sono comparse delle donne. Il paesello è stato bombardato con i grossi calibri, come una fortezza.

Qualche casa è scomparsa. Una granata da trecentocinque ha distrutto interamente l’abside della vecchia chiesa, e dall’immane breccia si vede l’interno bianco del tempio sventrato, pieno di rottami, invaso dal vento che agita lembi di paramenti sulla devastazione degli altari. Siccome le granate non parevano sufficienti a sconfiggere il terribile San Canziano, degli aeroplani sono arrivati carichi di bombe, e, abbassando il volo per non sbagliare il colpo, hanno gettato i loro esplosivi.

Le case rimaste in piedi sono butterate di schegge, con delle imposte sfondate, con i tetti disfatti. Agli angoli, i lampioni di ferro della [p. 384 modifica] illuminazione pubblica pendono in informi grovigli dai bracci di sostegno. Fu a San Canziano che un cavallo fece un famoso volo, arrivato fino alle colonne dei giornali. La povera bestia, attaccata ad un carretto da battaglione, stava in un cortile quando, a due passi, scoppiò un proiettile da trecentocinque. Il carretto si sfasciò, il cavallo sparì. Per il momento fu creduto annientato dall’esplosione; ma alla sera si scoprì che, lanciato in aria dallo scoppio, il cavallo era ricaduto sopra una casa vicina, aveva sfondato il tetto, ed era sul pavimento d’una camera, morto ma senza ferite, coperto di polvere e di tegole rotte. C’è rimasta ancora la selletta col sottopancia.

Più avanti, Staranzano è quasi distrutto. Dobbia è in rovina. Le antiche case di Monfalcone si disfanno sotto ad un bombardamento inesplicabile e feroce, che non ha ragioni militari. Granate incendiarie appiccano il fuoco, completano la devastazione, e le fiamme sono vedute alla notte fino da pescatori che remano nella quiete buia delle lagune di Marano. Begliano è morta. Due facciate di case ancora in piedi illudono chi arriva. Prima di entrarvi il villaggio pare quasi intatto, e non c’è più. Ha l’aspetto di un paese abbattuto dal terremoto. Rimangono dei muri con delle finestre, isolati come quinte di teatro. Anche qui ha cannoneggiato il trecentocinque.

Uno dei giganteschi proiettili è arrivato [p. 385 modifica] attraverso i muri ad un pianterreno, senza esplodere, e dalla strada si vede il terribile intruso nell’interno della casa. La finestra è spalancata, e chi passa scorge nell’ombra la granata enorme e nera, adagiata sopra un letto di calcinacci, allungare il muso aguzzo e formidabile nell’angolo di una modesta cameretta adorna di oleografie, piena di tristezza e di rassegnazione. Il resto della casa è crollato per altri colpi. Ancora pochi passi, e in una piazza cosparsa di rottami fumano ancora le macerie di una vecchia villa.


L’hanno colpita con granate incendiarie. Un grande avanzo della fronte, annerita dalle fiamme, tiene come sospesi dei lembi di adornazione classica, che l’immaginazione prolunga nel vuoto completando le linee del palazzo secolare. In alto, due statue di pietra settecentesche, rimaste sole in piedi sul coronamento, avvolte con grazia in lievi drappeggi, hanno un gesto leggiadro di danza, una posa da minuetto, e sorridono. Qualche granata passa nel cielo rombando e soffiando come un’elica da aeroplano, diretta chi sa dove, e il suo rumore si spegne. Va forse alla ricerca dei nostri ponti.

Il Carso appare vicino. Da Begliano si distingue bene la prominenza del Monte dei Sei Busi. Nella luce di un tramonto vedevamo tutto ardente quel baluardo fortificato che domina [p. 386 modifica] la pianura e ne comanda ogni approccio. Come le nostre truppe hanno potuto avvicinarlo, come hanno potuto attraversare il fiume sotto ai suoi cannoni, forzare il passo, salire all’assalto, insediarsi sul ciglione? L’immane spalto di pietra è stato preso per un miracolo di abilità, di pertinacia, di eroismo.

L’Isonzo è stato varcato a viva forza sotto alla fucileria e alle cannonate, col nemico trincerato di fronte, a poche centinaia di metri. Più volte i nostri ponti appena gettati sono stati distrutti dalle granate. Mancato un tentativo si ricominciava. Si è preso piede sulla riva sinistra a poco a poco in virtù di un’audacia inflessibile, tenace, magnifica. Il passaggio dell’Isonzo è uno dei fatti più meravigliosi nella storia delle guerre.

Oltre alla difficoltà che è nella disposizione del terreno, oltre alla preparazione del nemico, avevamo contro di noi una ostilità imprevedibile di circostanze. Il fiume stesso pareva cospirasse ai nostri danni. Mentre stavamo per tentare il primo passaggio, l’Isonzo si mise in piena. Il piccolo corso d’acqua veloce e chiaro divenne una immensa fiumana vorticosa e torbida. Le piene dell’Isonzo sono impetuose e subitanee. Fu allora che i ponti di Caporetto vennero travolti isolando i nostri reparti che salivano alla conquista del Monte Nero.

Ecco la ragione di una sosta delle operazioni nel basso Isonzo dopo il primo slancio [p. 387 modifica] dell’invasione. Tre giorni dopo la dichiarazione della guerra, le nostro ricognizioni già avevano scelto i punti di passaggio sul fiume. L’ultimo giorno di maggio ci avrebbe forse potuto trovare sulle pendici del Carso. L’alluvione ci fermò. Il nemico profittava intanto della piena per provocare quella inondazione del piano, fra Sagrado e Monfalcone, della quale narrammo diffusamente nelle cronache di giugno. Con l’inondazione gli austriaci sottraevano un vasto territorio alla manovra, restringevano i punti possibili di attacco e potevano concentrare su di essi la difesa.

Sei giorni trascorsero nell’attesa. Il 4 giugno l’Isonzo decresceva. Si iniziarono le operazioni per varcare subito il fiume nel punto meno contrastato, verso Monfalcone. Tutte la artiglierie di un corpo di armata aprirono il fuoco alla sera. All’alba del giorno dopo due battaglioni traghettavano su barche, spezzavano una debole resistenza del nemico, inoltravano verso Pieris. Dietro a loro si gettavano i ponti militari. A mezzogiorno forse una intera divisione era sulla riva sinistra. Incominciava l’avanzata su Monfalcone, che fu presa due giorni dopo. Ma l’inondazione isolava questa mossa.

Fra le truppe che agivano nella zona di Monfalcone e quelle che agivano nella zona di Gradisca si distendeva la calma di una immensa palude. Un nuovo passaggio dell’Isonzo doveva [p. 388 modifica] operarsi indipendentemente senza appoggi sul fianco, ai piedi delle alture, di fronte alle posizioni nemiche. Bisognava fare un ponte e dar battaglia nel medesimo tempo. Fu il 9 di giugno, di fronte a Sagrado, che avvenne la prima traversata del fiume. L’attacco premeva quel giorno su tutta la fronte per inchiodare le riserve nemiche; si combatteva sul Podgora, si tentava il primo traghetto di forze a Plava, si prendeva la Rocca di Monfalcone.


Le posizioni nemiche da Sagrado a Sdraussina sono bombardate; ma gli austriaci, al sicuro dagli assalti sull’altra riva, lasciano le posizioni battute per rioccuparle appena il cannone rallenta. Sagrado si addossa alle falde del monte, si rannicchia fra le pendici e il fiume, e da lontano il suo campanile pare come attaccato all’oscuro sfondo del declivio. Avanti al paese, il vecchio ponte distrutto dal nemico non è più che un cumulo di grandi macerie fra le quali l’acqua s’agitava a vortici e cascatelle scrosciando e spumeggiando. Un poco a monte di Sagrado, fra due rive folte di cespugli, il fiume forma un isolotto oblungo, cinereo, fatto di sabbie chiare e cristalline e di ghiaia. Questa località è scelta per il passaggio. Si considera più facile gettare due piccoli punti fra l’isola e le rive che non un solo grande ponte dove il corso del fiume è largo e unito. L’isolotto offre come una tappa, una base intermedia, [p. 389 modifica] divide l’operazione e la facilita. E poi la corrente è più calma in quel punto.

Tutto è pronto. Nell’ombra della sera la truppa destinata al primo passaggio inoltra silenziosa da Gradisca e si cela nei cespugli della riva. Il materiale per la costruzione si ammassa. Alle dieci e mezzo i pontieri cominciano il lavoro. Nel medesimo tempo numerose barche traghettano le avanguardie. L’isolotto si popola. Non si ode che un risciacquìo sommesso di remi. Due battaglioni hanno lasciato la riva destra. Delle barche tirate a secco e portate a braccia attraverso l’isola sono varate sull’altro ramo del fiume. Si traghetta ora verso la riva nemica. Le operazioni procedono rapide, ordinate, in una quiete profonda.

Le prime truppe che sbarcano dall’altra parte avanzano verso Sagrado. Un intero battaglione, una piccola parte del secondo, e dei drappelli del genio, formano questa estrema avanguardia, che oltrepassa la ferrovia e arditamente s’inerpica e si aggrappa alle pendici del Carso sopra Sagrado. Il nemico pare scomparso. Ma all’improvviso scroscia la fucilata dalla parte di Sdraussina. Gli austriaci tentano, con un attacco subitaneo sul fianco sinistro, di isolare i nostri. L’ultima compagnia sbarcata, che costituiva la riserva, si slancia contro al nemico. Non si trincera, non si difende: assalta. Nella notte, nell’ignoto, corre addosso al lampeggiamento dei colpi, che si [p. 390 modifica] estingue. Il nemico fugge. È inseguito, e quando i nostri ritornano verso Sagrado, sospingono una lunga mandria di prigionieri.

All’alba, il ponte sul primo braccio del fiume è quasi finito. Non mancano che tre campate per toccare l’isola. Si lavora con furia, con febbre, correndo; è una perpetua processione veloce di tavole e di assi, oscillanti sulle spalle dei soldati, che va verso la testata del ponte. Subitamente, un inferno di esplosioni. L’artiglieria nemica aggiusta, il tiro sull’ultima campata, dove il lavoro più ferve. Degli uomini cadono; delle barche di lamiera, forate dalle schegge, si riempiono rapidamente d’acqua e; affondano trascinando pezzi di ponte con uno scricchiolìo di legname spezzato, sfasciando travature, facendo saltare legamenti di ferro. Il lavoro è sospeso. La riva diviene deserta.


Il danno non appare irrimediabile. I cannoni nemici hanno cessato la devastazione. Due terzi del ponte sono intatti, e le campate distrutte alla testa possono essere rifatte. Non c’è tempo da perdere. Il fuoco austriaco imperversa adesso sull’isola e sulla riva sinistra. È un uragano di fucilate e di cannonate. Il furore di batterie e di battaglioni si concentra su quelle piccole zone, che un’oscillazione lenta di fumo va ricoprendo. Le nostre avanguardie isolate sono là sotto. L’artiglieria italiana tempesta, ma i cannoni austriaci ben nascosti continuano. Le [p. 391 modifica] nostre truppe fremono, ed i pontieri invocano l’ordine di riprendere il lavoro.

Il lavoro è ripreso. Immediatamente le granate austriache ritornano al ponte, e questa volta battono le campate di attacco e quelle del centro. Non rimangono più che brevi tratti del ponte ancora sull’acqua; il resto ha il lamentevole aspetto di un avanzo di naufragio. Ricominciare è impossibile. Del resto il materiale necessario per il completamento del ponte comincia a fare difetto. Si deve aspettare la notte per muoversi. È stato possibile traghettare alcuni feriti dall’isolotto, poi ogni comunicazione attraverso il fiume deve cessare. La giornata trascorre lenta in un’ansia mordente per la sorte dei due battaglioni rimasti sulla riva opposta e sull’isola. Che cosa avveniva laggiù?

Il nemico non ha osato un attacco su quella piccola forza che aveva passato l’acqua. Non si è mosso; ha creduto meglio agire da lontano, i nostri si sono ritirati dalle pendici di Sagrado ritornando alla riva. Là si sono trincerati.

Passato un primo soffio di sgomento inevitabile al sentirsi soli, senza soccorsi, contro masse di nemici, hanno preso le disposizioni della difesa. Il greto del fiume formava un angolo morto: vi si interrarono. I tiri di fucileria e di artiglieria passavano sopra a loro e finivano nell’acqua. Le perdite dovute al [p. 392 modifica] fuoco erano minime. Ma la situazione appariva delle più disperate, con un esercito di fronte e un fiume inguadabile alle spalle. Le teste dei soldati rannicchiati erano rasentate da raffiche di piombo; l’Isonzo s’impennacchiava tutto di spruzzi. Ogni speranza era nella baionetta; si aspettava l’attacco per slanciarsi fuori all’assalto.

Alla sera gli austriaci debbono aver supposto che non ci fosse rimasto un solo uomo vivo laggiù. Cessarono il fuoco e andarono a dormire. Nella notte calma ed oscura si riudì allora il tonfo lieve dei remi sul fruscìo gorgogliante delle acque. Ricominciò il traghetto sui due bracci dell’Isonzo. Mentre si ritiravano gli uomini, i pontieri lavoravano al ricupero del materiale, immersi nell’acqua, seminudi, salvando tutto quello che si poteva salvare del ponte distrutto.


Sull’isolotto erano rimasti senza ricovero sotto al fuoco terribile quattrocento uomini, con il comandante del secondo battaglione di avanguardia. Pareva dovessero essere annientati. L’isola non ha un rilievo, non un macigno, non un ciuffo d’erba, è una spianata grigia, scoperta, sulla quale si distingue un uomo da dieci chilometri. Sotto al fumo degli shrapnells si vedevano con angoscia, dalla riva destra, centinaia di corpi distesi e immobili, dei cadaveri certamente su tutto l’isolotto. La notizia di un [p. 393 modifica] battaglione distrutto era sussurrata già più lontano. Ma quei cadaveri erano caduti in un modo singolare, tutti per un verso, allungati di fianco. Non si scorgeva che erano sdraiati contro a minuscoli parapetti. I soldati avevano scavato la sabbia umida e granulosa, facendovi delle fosse con le mani, con la paletta, con la visiera del berretto, e si erano imbucati. Alla sera avevano soltanto una cinquantina di feriti e una quindicina di morti.

L’ordine era tale, che le truppe reduci dalla audace spedizione sulla riva sinistra avevano conservato tutti i loro prigionieri, e traghettavano aumentate del numero dei nemici presi. Ma all’alba, per i ritardi dovuti al trasporto dei feriti, non tutti i soldati della eroica avanguardia avevano ripassato il fiume. Bisognò sospendere l’operazione.

Gli austriaci, usciti alla mattina dalle loro posizioni e arrivati alla riva, si erano accorti che quei nostri reparti che immaginavano massacrati erano scomparsi. Andavano per contemplare dei morti, e i morti se n’erano andati. Divennero furibondi. Si trincerarono sulla riva, e aprirono un fuoco serrato e cieco contro l’altra sponda. Arrivata la sera, la loro artiglieria ricominciò a bombardare gli avanzi del ponte. Dalla nostra parte, silenzio. Si era intenti al salvataggio degli ultimi superstiti. Appena ritornati i traghetti, tutta la nostra riva divampò. Per lunghe ore, nelle tenebre di una [p. 394 modifica] notte piovosa, continuò il frastuono del combattimento attraverso l’Isonzo contestato.

La notte dell’11, la notte del 12, la notte del 13, videro un affaccendamento silenzioso sulla riva. Si finiva il recupero del materiale del ponte. Intanto cercavamo un rimedio alla inondazione, che ci paralizzava sopra sette od otto chilometri di fronte, impedendoci di sfruttare il passaggio effettuato sul corso più basso dell’Isonzo, a Pieris, e di portare l’attacco fra Sagrado e Monfalcone. È noto come gli austriaci avevano ottenuto lo straripamento delle acque sulla pianura. A Sagrado una grande diga munita di chiuse sbarra l’Isonzo e raccoglie le acque per immetterle nel capace canale industriale di Monfalcone. Gli austriaci avevano serrato le chiuse e sfondato con le mine un argine del canale. L’acqua fermata dallo sbarramento abbandonava il letto del fiume, imboccava il canale, e per le rotture dell’argine dilagava sui campi.

Due obici di mezzo calibro con tranquilla audacia furono portati di fronte alla diga, nei pressi di Sagrado, a trecento metri dalle trincee austriache, sotto al fuoco della fucileria, e tirarono a granata sullo sbarramento. La diga fu sfondata in due punti, l’acqua si precipitò per le brecce scrosciando. L’inondazione cominciò a diminuire, ma troppo lentamente. Due ufficiali superiori del Comando Supremo, qualche giorno dopo, si spinsero in ardita [p. 395 modifica] ricognizione per studiare da vicino il problema del deflusso. Arrivarono carponi fino alle rovine del ponte di Sagrado, nascosti fra i cespugli e le alle erbe della riva. Una sentinella austriaca vigilava a pochi passi da loro. Si resero conto che l’apertura creata dal cannone sulla diga massiccia era insufficiente. Bisognava tentare ad ogni costo di riaprire le chiuse.


Una notte, un reparto del genio uscì dalle posizioni e scomparve nel buio. La fucileria nemica si destò poco dopo; una mitragliatrice martellava; il reparto doveva essere stato scoperto. Ma andava avanti, saliva sulla diga, strisciando, arrivava alle chiuse. Il loro macchinismo di apertura era spezzato. Le chiuse erano inchiodate. Le enormi saracinesche non si muovevano più. Nessuna forza umana poteva sollevarle. Queste difficoltà gravi non sono insormontabili per un soldato del genio che si è portato sulle spalle uno zaino pieno di gelatina esplosiva. In mezzo ad uno schioccare di pallottole che battevano sulle pietre della diga, delle mine furono accuratamente preparate. E pochi minuti dopo abbaglianti esplosioni aprivano la via all’irruenza delle acque. L’inondazione era vinta.

Era vinta, ma un allagamento così vasto avrebbe indugiato settimane a ritrarsi. Non si poteva aspettare. Il passaggio del fiume fu [p. 396 modifica] ritentato nella notte del 15 giugno. Il fuoco del nemico non permise lo sbarco delle prime avanguardie. Due notti dopo si rinnovò il tentativo, ma l’operazione dovette essere ancora sospesa. Gli austriaci vigilavano ora, e nei varchi minacciati concentravano un fuoco spaventoso di cannoni, di mitragliatrici, di fucili.

Il deflusso dell’inondazione era seguìto ansiosamente. Campi e strade emergevano a poco a poco, un nuovo terreno di attacco si scopriva con feroce lentezza. Ogni giorno perduto aumentava la forza e la preparazione del nemico. Tutta la nostra energia, tutto il nostro valore, tutta la nostra sagacia non potevano nulla contro l’ostilità insuperabile e passiva di una distesa di acque. Persisteva ancora l’allagamento in vaste zone, quando si ordinò l’avanzata contro la fronte Sagrado-Monfalcone, per accostarsi anche con l’ala destra alle pendici del Carso e investire le alture da ogni parte. Erano passati venti giorni da quella fatale piena dell’Isonzo che ci aveva fermati.

Verso la nuova linea d’investimento le truppe, protette dalle artiglierie, si lanciarono affondando nel fango. Più avanti, diguazzavano nell’acqua che arrivava loro quasi ai ginocchi. Avanzavano da ogni parte, imperterrite, sul terreno viscido. Il 21 di giugno la linea di attacco era arrivata agli argini del canale di Monfalcone. Il 23 l’aveva sorpassato e toccava la base delle alture. Fogliano era preso. [p. 397 modifica] Redipuglia era preso. Vermegliano era preso. Seltz era preso. L’offensiva rombava su tutta la fronte. Con l’appoggio potente dell’ala destra, con quell’ausilio formidabile sul fianco, si ripresero nella notte del 23 le operazioni del passaggio dell’Isonzo a Sagrado.

Si era scelto un altro punto, un poco più a monte dell’isolotto. La nostra artiglieria batteva la riva opposta con un fuoco intenso, e verso le quattro del pomeriggio incominciò il traghetto delle avanguardie. Lo svantaggio di agire alla luce del giorno era compensato dalla efficacia del nostro fuoco, che inchiodava il nemico. Non si poteva più sperare nella sorpresa notturna, e l’oscurità, paralizzando i nostri cannoni, sarebbe riuscita di maggiore utilità all’avversario che a noi. Furono sbarcati poco più di un centinaio di uomini. Ma dalle trincee blindate che ci stavano di fronte, alcune basse verso la riva, altre inerpicate sul declivio, la fucileria divenne serrata, violenta, continua. Non fu più possibile avvicinarsi con le barche piene di soldati. Per due volte, profittando dell’affievolirsi del fuoco, il traghetto riprende, e per due volte deve interrompersi. Il quarto tentativo del passaggio del fiume era fallito.


I centocinquanta uomini che avevano traghettato all’altra riva si ritenevano perduti, ma tardi nella notte si è saputo che erano in salvo. [p. 398 modifica] Guidati da un energico e intelligente ufficiale, quando si sono accorti che erano abbandonati alla loro iniziativa, si sono spostati sulla destra, al coperto dei cespugli, lungo la riva, facendo prigioniere delle vedette, sorprendendo dei corpi di guardia, ed erano riusciti a raggiungere le truppe che avevano occupato Fogliano, un chilometro e mezzo a valle di Sagrado.

Il giorno dopo, il 24 giugno, si ricomincia. Non si può immaginare niente di più grande e di più terribile di questa ostinazione eroica, nella quale la volontà del comando e lo slancio degli uomini si fondono e sono come la forza e l’acciaio di un maglio che batta e che spezzi.

Si attese di nuovo l’ora oscura. I primi sbarchi avvennero nel silenzio. Il nemico non si aspettava un altro tentativo così immediato. Quando si accorse di un movimento sul fiume, incominciò un fuoco di artiglieria disordinato, un fuoco di ricerca. Le barche andavano e venivano sotto al lampo degli shrapnells. A poco a poco il tiro cominciò a farsi accurato. Qualche barca colpita tornava indietro, metteva a terra gli uomini feriti, ne prendeva altrettanti validi, e ripartiva col carico completo. Il bombardamento si faceva più intenso e più esatto. Nuove batterie nemiche entravano in azione. Delle imbarcazioni non arrivavano più a metà del fiume che dovevano virare per ricondurre dieci, dodici feriti. Alcune facevano [p. 399 modifica] acqua, forate dalle pallette e dalle schegge. Alle undici della notte il traghetto fu sospeso. Erano passati circa cinquecento uomini, spariti, laggiù, nelle tenebre e nel silenzio della riva opposta.

Il bombardamento cessò. Il nemico credette forse fallito anche il quinto tentativo. Ma nella quiete profonda un nuovo lavoro cominciava. Si gettava un ponte. Centinaia di uomini portavano il legname, portavano le barche, e la riva si empiva di un affaccendamento intenso e cauto, del quale a cinquanta passi nulla si udiva. Qualche lieve urto di tavole, dei tuffi di àncore gettate, un gorgoglìo di carene, un sordo calpestìo di piedi nudi sul legno, e nell’ombra il ponte avanzava sul frusciare sommesso della corrente nera.

All’alba la costruzione era arrivata alla metà del fiume. Non si aspettò che fosse finita; quel breve tratto di acqua scoperta poteva essere rapidamente traversato con le barche. Ricominciò il passaggio. La truppa percorreva il ponte a drappelli, arrivava in fondo, s’imbarcava. Andava verso il mistero dell’altra sponda con una calma solenne e fiera. Alle tre, l’artiglieria austriaca aprì il fuoco sul ponte.

Il passaggio continuò sotto alla tempesta delle cannonate, per qualche tempo. Il tiro era a granata, e i proiettili cadevano nel fiume o sulla sabbia. Non tardò molto però ad avvicinarsi al ponte. Una raffica arrivò sulle barche. Si [p. 400 modifica] vide il ponte spezzarsi; tre campate affondarono. La costruzione e il traghetto furono abbandonati, non un uomo poteva più passare. Sulla riva sinistra era sbarcato, in tutto, un battaglione di fanteria.

Questo battaglione, solo, tagliato fuori, senza scampo, allo scoperto, attaccò. Troppo debole per difendersi, mosse all’assalto. Si gettò su Sagrado, respinse il nemico, occupò il paese, vi si trincerò, e aspettò.