Anime allo specchio/Dame a scegliere
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DAME A SCEGLIERE.
— Dame a scegliere! — comandò il direttore di danze, mentre il gran ballo di fine d’anno di casa Langhirani volgeva al suo termine.
Le dame sorridenti, leggermente perplesse, si guardarono intorno, poi ognuna s’avviò incontro al proprio cavaliere già in precedenza prescelto. Soltanto Flora Bonamici, che aveva diciannove anni ed era al suo primo ballo, rimase sperduta fra le coppie senza saper dove dirigersi e già la sua faccia s’imporporava di timidezza e i suoi occhi luccicavano di smarrimento, fra la curiosità divertita delle sue compagne, quando un sorriso benigno ed uno sguardo incoraggiante le giunsero da un angolo del salone, dove alcuni giovani signori che non ballavano sostavano ad osservare ed a commentare.
Chi le aveva sorriso con dolcezza era il conte Villalba, l’uomo più noto per l’eleganza, per lo spirito, e per le avventure fra quanti ne accoglieva quella notte casa Langhirani. Flora Bonamici, vissuta fino ad allora con una zia in campagna, lo aveva veduto per la prima volta quella sera stessa ed alle poche domande di lui aveva risposto con tale grazioso impaccio, con tale sottomesso tremore di colombella turbata che Villalba, sebbene avvezzo ad inquietare i cuori femminili, se n’era sentito lusingato ed interessato. Ora ella, attirata quasi fatalmente dal suo sguardo e dal suo sorriso, si diresse verso di lui e con la sua timida grazia ancora un poco infantile lo invitò a ballare con lei quell’ultima quadriglia.
Villalba si staccò dal gruppo dei suoi amici, le offerse il braccio e s’avviò con Flora Bonamici al centro della sala, disponendosi fra le coppie in mezzo all’attenta meraviglia di tutti. Egli inchinava verso di lei la sua testa dalla tempia già alquanto grigia ma segnata di nobiltà e di forza e le parlava a bassa voce scoprendo i suoi bianchissimi denti fra le labbra fresche ombreggiate da corti baffi bruni, non staccando un momento i suoi occhi neri dagli occhi chiari della fanciulla. Ed ella non s’avvedeva che tutte le donne raccolte in quella sala dimenticavano l’uomo che avevano accanto per osservarla e per invidiarla. Nessuno aveva mai veduto danzare Dario Villalba e non si comprendeva perchè quella piccola provinciale nè più bella, nè più elegante delle altre lo avesse indotto a farle da cavaliere. Ella intanto tradiva da tutta l’espressione ingenua del viso e degli occhi una felicità profonda e ignota che la isolava dai presenti, che la faceva vivere quasi in un sogno accanto a quell’uomo dal quale un fascino non mai provato si sprigionava e l’avvinceva.
Finita la quadriglia, egli la condusse presso sua zia, la marchesa Eulalia Bonamici, la quale l’attendeva in una sala attigua conversando con alcuni uomini maturi. L’ampia scollatura e la maestosa maturità della marchesa scomparivano quasi fra un gruppo di marsine, di sparati e di cranii poco guerniti, quando Flora al braccio di Dario Villalba apparve sulla porta e si fermò presentando alla zia il proprio cavaliere.
— Oh, Villalba, siete voi? — esclamò la florida vedova correndogli incontro quasi a braccia aperte; — noi c’incontrammo nel castello di Ferrania di cui eravamo entrambi ospiti alla stagione delle caccie, dieci anni fa. Non vi ricordate dunque?
E parve mettere in quel «dunque» un senso misterioso quasi un sottile legame di piacevole complicità. Ma Villalba sembrò non prestarsi al gioco, solo atteggiò il volto ad una esagerata espressione di stupore.
— Sono già dieci anni, marchesa? Voi avete una memoria spietata; riconoscetelo.
— Riconosco invece che sono passati su di voi senza traccia. Siete sempre l’uomo fatale che già eravate allora, anzi, direi più d’allora.
Villalba, che si vantava di una cinica sincerità, stava quasi per risponderle ch’era impossibile ripetere a lei tale elogio, tanto l’agile snellezza e il bel profilo che dieci anni innanzi avevano attratto e legato a lei il suo capriccio per una brevissima stagione d’amore, si erano appesantiti e disfatti in una eccessiva opulenza, in una gravità molle da sultana in riposo, priva ormai di qualsiasi seduzione. Ma già la marchesa soggiungeva, insinuante:
— Ora m’accorgo che state affascinando mia nipote. Ma badate che quella bisogna sposarla.
— E perchè no? — ribattè prontamente Villalba, quasi spronato da un desiderio di rappresaglia verso quella donna che pareva sfidarlo, e subito s’accorse che una fiamma più viva era salita al volto della zia, mentre la mano di Flora scivolava dal suo braccio e le labbra le s’imbiancavano nel piccolo volto smarrito.
Poco più tardi egli accompagnava a casa nella loro automobile le due signore e le lasciava baciando la mano alla marchesa e stringendo lungamente fra le sue le dita tremanti della fanciulla.
— Dopo tutto è una fine che un giorno o l’altro dovrò pur fare, — egli meditava rincasando a piedi per le strade buie e deserte. — Questa vale forse meglio di un’altra: graziosa, ingenua, innamorata, ricchissima; l’unico neo è quella noiosissima zia che si ricorda un po’ troppo di me. Che sfacelo! E dire che dieci anni fa era un amore di donnina.
Rientrò e s’addormentò in questi pensieri, ma svegliandosi a mezzogiorno ricominciò a pensare alla piccola Flora e il fresco nome di deità primaverile gli suggerì l’idea di mandarle un fascio di mughetti di serra, rarissimi a quella stagione. La sera stessa la marchesa Eulalia gli telefonò ringraziandolo da parte della nipote ed invitandolo a pranzo per il domani.
Flora stava al piano vestita d’azzurro pallido ed aveva alla cintura dalla parte del cuore i suoi mughetti, quando egli entrò nel salotto e le si inchinò profondamente con uno di quei suoi sorrisi smaglianti che attiravano e respingevano come un pericolo indefinito. Parlarono pochi minuti seduti accanto, sopra un divano basso e profondo, ma subito sopravvenne la marchesa drappeggiata in un raso rosso fiamma che rappresentava forse l’ambiguità di un simbolo, ma che dava alla sua pesante figura la volgarità di un’etera da strapazzo. Ella strinse tutte e due le mani di Villalba e prese il suo braccio avviandosi alla sala da pranzo.
La piccola Flora gli fu posta di fronte separata da lui da quattro o cinque maturi signori che avevano l’aria di considerarlo come un intruso.
Fu dopo parecchi di questi pranzi, seguiti da altrettanti ricevimenti, durante i quali la marchesa Eulalia sfoggiò senza commuoverlo i più sapienti e complicati drappeggi in tutti i colori dell’arcobaleno, che Dario Villalba si risolse a chiedere ufficialmente la mano di Flora, pregando che il fidanzamento durasse il minor tempo possibile. E fu esaudito. Alcune settimane più tardi egli si portava nel Belgio, in un vecchio castello dove vivevano certi suoi lontani parenti, la giovine moglie, lasciando in disperati pianti la marchesa Eulalia, invano consolata dai suoi quattro o cinque maturi adoratori.
Vi rimase tre mesi ed anche al suo spirito esigente d’uomo molto viziato dalla fortuna parvero quei giorni veramente luminosi di felicità, veramente pieni di una meravigliosa dolcezza.
Ma si manifestò in Flora un principio di gravidanza ed il conseguente suo cattivo stato di salute lo indusse a ricondurla in patria. Nel villino Bonamici era stato apparecchiato per essi l’appartamento del primo e quello del secondo piano, mentre la marchesa si stabiliva a terreno per godere, com’ella affermava, la veranda e il giardino, per sorvegliarlo meglio, come sospettava il nipote.
Flora soffriva molto e diveniva nervosa e melanconica, cosicchè suo marito le dedicava le intere giornate e le lunghe sere con una amorosa abnegazione così perfetta che stupiva lui medesimo. Una notte, mentre sua moglie già dormiva tranquilla dopo molte ore d’agitazione, Dario scendeva in giardino per prendere un poco d’aria e rinfrescarsi il capo che gli doleva, quando s’imbattè sulla porta con la marchesa la quale aveva congedato allora i suoi vecchi amici. Ella vestiva una specie di peplo bianco e oro che le lasciava tutte scoperte le braccia scendendo dalle spalle come due ali e tale foggia, confondendo l’ampiezza delle pieghe con l’abbondanza delle forme sottostanti illudeva e la avvantaggiava, dandole un non so che d’antico e di jeratico. Con parole affettuose ella invitò Dario ad entrare e gli domandò notizie della nipote, ma mentre egli rispondeva parlando a lungo di Flora, l’altra sembrava non ascoltarlo e seguire invece un suo intimo pensiero pur restando a fissarlo immobile, quasi ipnotizzata. Egli tacque ed ella continuò a guardarlo, appoggiata coi gomiti ai bracciuoli della sua poltrona, con le guancie sulle due palme aperte, senza parlare, quasi senza batter ciglio. E poichè Dario fece l’atto di alzarsi, solo allora ella protese le mani come per fermarlo e lo pregò sommessamente: — Rimani un momento, vorrei parlarti.
— Di Flora? — domandò egli inquieto.
— No, — ella rispose in un lungo sospiro; — di me.
E soggiunse dopo una pausa piena di meravigliata attesa da una parte e di affannosa ansia dall’altra: — Di me che soffro molto per cagion tua, di me che non ho dimenticato ancora il passato, che sempre l’ho presente come il tempo più bello della mia vita.
Egli si portò una mano alle fronte in un gesto di fastidio e scosse due o tre volte il capo come per disapprovare benevolmente quella tardiva dichiarazione.
— Non credi, di’, non mi credi? — ella domandò, illusa, attaccata a una sua oscura speranza, guardandolo con trepidazione.
— Sì, sì, ti credo, — egli mormorò stringendosi nelle spalle, — e non mi resta che deplorare vivamente questa tua triste follia.
— È una follia, hai ragione, ma una follia inguaribile, — ella gemette alzandosi, ponendogli una mano sulla spalla, chinandosi quasi a sfiorargli con le labbra i capelli.
Ma Dario si ritrasse, le prese la mano ch’era piccola e bianca e la baciò con indulgente compatimento parlandole con pietosa bontà: — Il passato è passato per sempre e non si risuscita un amore dopo dieci anni. Perchè voler guastare quel ricordo ch’era così bello e così dolce? Lasciami andare, zia. Ma ti pare? Sono tuo nipote adesso. Un po’ di saggezza ci vuole.
Egli parlava con ostentata gaiezza, ridendo alquanto forzatamente e si dirigeva alla porta, seguito dalla donna che piangeva in silenzio. E quando fu sulle scale si rasciugò col fazzoletto dalle mani le lagrime di lei, cadutevi in un ultimo bacio appassionato e con un sospiro di sollievo corse a contemplare il viso di Flora addormentata.
Da allora egli incominciò ad uscire quasi tutte le sere evitando d’incontrare la marchesa Eulalia che veniva spesso a trovare la nipote, e passava le sue serate al circolo coi vecchi amici di giovinezza. Ma un giorno Flora lo pregò con le lagrime agli occhi di non ritornare laggiù dove certo incontrava altre donne, dove certo ballava e si divertiva lontano da lei.
— Ma no, cara, — egli le assicurò accarezzandole i capelli, — al circolo ci si va per leggere, per giocare, per fare musica; quando vi saranno i balli verrai anche tu, e sarai la più carina e la più elegante fra tutte.
Flora sospirò e tacque poco persuasa. Era la prima volta che ella manifestava un sentimento di gelosia e un’ombra di sospetto, certo dovuti a qualche maligna insinuazione di sua zia.
Una settimana dopo fu invitata al circolo per una recita di beneficenza una compagnia di comici francesi di passaggio nella città. Villalba vi giunse a rappresentazione finita, quando già agli attori ed alle attrici riuniti al buffet venivano offerti champagne e dolci e dalla sala accanto un gruppo di signore, amiche della marchesa Eulalia, li osservava con avida curiosità.
Non appena egli apparve sulla porta la più giovane e la più graziosa fra le artiste francesi gli corse incontro con un grido di sorpresa e lo abbracciò con straordinaria effusione fra lo stupore degli amici e lo scandalo delle oneste signore.
La giovane si chiamava Mimì Dorè ed egli l’aveva conosciuta un anno e mezzo prima a Montecarlo dov’ella recitava. S’erano amati con una passione furiosa e litigiosa che li metteva in ira l’un contro l’altro ogni momento, e ogni momento li induceva a rifare la pace. Ora Villalba durò non poca fatica a liberarsi da lei ed a rincasare a tardissima ora nella notte, quando tutti erano già immersi nel più profondo sonno.
Il domani uscì per tempo e non rientrò a colazione; pensava che a quell’ora le amiche della marchesa l’avevano già informata del fatto accaduto la sera innanzi e credette prudente di lasciar trascorrere l’impressione certo spiacevole del primo momento. Ma fu un errore, perchè quando tornò a casa verso sera trovò sulla soglia della camera di Flora, pallida e furente la zia che gli impedì di entrare.
— Tua moglie da stamane ha le convulsioni. Ora c’è il medico; non si entra; — gli comandò fissandolo con uno sguardo freddo da giustiziera.
— Già, — egli rispose battendo a terra un piede collerico, — ti hanno raccontato quella ridicola storia di ieri sera e tu l’hai raccontata a lei. Avevi bisogno di mettere la discordia fra noi. Sarai contenta ora.
— Ridicola storia! — ella esclamò a denti stretti ed a voce soffocata. — È benissimo trovata per un uomo virtuoso, per un uomo fedele come te. Una donna ti abbraccia in pubblico e vorresti sostenere che non è la tua amante.
— Se mi abbraccia in pubblico ciò significa, mi pare, che non lo fa in privato, — osservò Villalba, pazientemente, tentando di convincerla.
— Sei un cinico; tua moglie è di là che soffre tutto il soffribile e tu parli in questo modo. Vergognati!
— Oh basta! — gridò Dario prendendola alle spalle e tentando d’entrare nella stanza di Flora. Me in quel momento un urlo ne uscì ed il medico affacciatosi alla porta pregò la marchesa di entrare e consigliò al marito di non mostrarsi finchè la crisi non fosse passata. Egli si ritirò a capo chino nella sua camera a meditare sui malefici giochi del destino ed a notte fatta il medico entrò cautamente e gli annunziò ch’era sopravvenuto un fatto nuovo e doloroso ma che l’inferma riposava ora tranquilla.
Egli fu ammesso al letto di Flora solo due giorni dopo, ma s’avvide ch’ella non gli aveva perdonato il creduto tradimento e che lo riteneva responsabile di tutto il male sofferto e della mancata maternità. Alle sue carezze ella ritraeva il viso con disgusto e lo guardava con occhi pieni di rancore e d’incredulità s’egli accennava al passato e tentava scolparsi delle accuse.
— Appena sarò guarita me ne andrò in Engadina con la zia, — ella disse accomiatandolo quasi subito come se la sua presenza le fosse intollerabile.
— E senza di me? — domandò Dario con un sorriso di carezzevole rimprovero.
— Oh, tu puoi fare benissimo senza di noi, hai i tuoi svaghi, il tuo club, le tue amanti; — mormorò Flora con la voce arrochita dall’angoscia, fissando il soffitto.
— Ti giuro che non è vero, te lo giuro sulla memoria di mia madre. Ti basta? — protestò egli in una suprema difesa.
— Non ti credo, non ti posso credere, — ella ripetè agitando il capo sui guanciali; — la zia ha le prove del tuo tradimento. Torna con quell’altra e lasciami in pace. Addio.
Egli comprese ch’era inutile insistere: c’era fra di essi l’odio implacabile di una donna respinta che li disuniva, che li armava. E quando Flora e la marchesa Eulalia partirono per l’Engadina, Villalba andò a cercare Mimì Dorè che non aveva più riveduta e la portò seco in un lungo viaggio di distrazione.