Arcadia (Sannazaro)/Alla sampogna

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Alla sampogna

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Egloga XII Dichiarazione

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ALLA

SAMPOGNA.



Ecco che qui si compieno le tue fatiche, o rustica e boschereccia sampogna, degna per la tua bassezza di non da più colto, ma da più fortunato pastore, ch’io non sono, esser sonata. Tu alla mia bocca, ed alle mie mani sei non molto tempo stata piacevole esercizio, ed ora, poichè così i fati vogliono, imporrai a quelle con lungo silenzio forse eterna quiete. Conciossiacosachè a me conviene, prima che con esperte dita sappia misuratamente la tua armonia esprimere, per malvagio accidente [p. 211 modifica]dalle mie labbra disgiungerti: e, quali che elle si siano, palesare le indotte note, atte più ad appagare semplici pecorelle per le selve, che studiosi popoli per le cittadi; facendo siccome colui, che offeso da notturni furti ne’ suoi giardini, coglie con isdegnosa mano i non maturi frutti dai carichi rami; o come il duro aratore, il quale dagli alti alberi innanzi tempo con tutti i nidi si affretta a prendere i non pennuti uccelli, per tema che da serpi, o da pastori non gli siano preoccupati. Per la qual cosa io ti prego, e quanto posso ti ammonisco, che della tua salvatichezza contentandoti, tra queste solitudini ti rimanghi. A te non si appartiene andar cercando gli alti palagi de’ Principi, nè le superbe piazze delle popolose cittadi, per avere i sonanti plausi, gli adombrati favori, o le ventose glorie, vanissime lusinghe, falsi allettamenti, stolte ed aperte adulazioni dell’infido volgo. Il tuo umile suono mal si sentirebbe tra quello delle spaventevoli buccine, o delle Reali trombe. Assai li fia qui tra questi monti essere da qualunque bocca di pastori gonfiata; insegnando le rispondenti selve di risonare il nome della tua donna, e di piagnere amaramente con teco il duro ed inopinato caso della sua immatura morte, cagione efficacissima delle mie eterne lacrime, e della dolorosa ed inconsolabile vita, ch’io sostegno; se pur si può dir che viva, chi nel profondo delle miserie è seppellito. Dunque, sventurata, piagni, che ne hai ben ragione. Piagni, misera vedova: piagni, infelice e denigrata sampogna, priva di quella cosa, che più cara dal cielo tenevi; nè restar mai di piagnere, e di lagnarti delle tue [p. 212 modifica]crudelissime disventure, mentre di te rimanga calamo in queste selve; mandando sempre di fuori quelle voci, che al tuo misero e lacrimevole stato son più conformi. E se mai pastore alcuno per sorte in cose liete adoprar ti volesse; fagli prima intendere, che tu non sai se non piagnere e lamentarti; e poi con esperienzia, e veracissimi effetti, esser così gli dimostra, rendendo continuamente al suo soffiare mesto, e lamentevole suono; per forma che temendo egli di contristare le sue feste, sia costretto allontanartisi dalla bocca, e lasciarti con la tua pace stare appiccata in questo albero, ove io ora con sospiri e lacrime abbondantissime ti consacro in memoria di quella, che di avere infin qui scritto mi è stata potente cagione; per la cui repentina morte, la materia or in tutto è mancata a me di scrivere, ed a te di sonare. Le nostre Muse sono estinte: secchi sono i nostri lauri: minato è il nostro Parnaso: le selve son tutte mutole: le valli, e i monti per doglia son divenuti sordi: non si trovano più Ninfe, o Satiri per li boschi: i pastori han perduto il cantare: i greggi, e gli armenti appena pascono per li prati, e coi lutulenti piedi per isdegno conturbano i liquidi fonti; nè si degnano, vedendosi mancare il latte, di nudrire più i parti loro. Le fiere similmente abbandonano le usate caverne: gli uccelli fuggono dai dolci nidi. I duri ed insensati alberi innanzi alla debita maturezza gettano i lor frutti per terra; e i tenei i fiori per le meste campagne tutti comunemente ammarciscono. Le misere api dentro ai loro favi lasciano imperfetto perire lo incominciato mele: ogni cosa [p. 213 modifica]si perde; ogni speranza è mancata; ogni consolazione è morta. Non ti rimane altro omai, sampogna mia, se non dolerti, e notte e giorno con ostinata perseveranza attristarti. Attristati adunque, dolorosissima: e quanto più puoi, dell’avara morte, del sordo cielo, delle crude stelle, e de’ tuoi fati iniquissimi ti lamenta. E se tra questi rami il vento per avventura movendoti ti donasse spirilo, non far mai altro che gridare, mentre quel fiato ti basta. Nè ti curare, se alcuno, usato forse di udire più esquisiti suoni, con ischifo gusto schernisse la tua bassezza, o ti chiamasse rozza: che veramente, se ben pensi, questa è la tua propria e principalissima lode; purchè da’ boschi, e da’ luoghi a te convenienti non ti diparta. Ove ancora so che non mancheran di quelli, che con acuto giudicio esaminando le tue parole, dicano, te in qualche luogo non bene aver servate le leggi de’ pastori; nè convenirsi ad alcuno passar più avanti, che a lui si appartiene. A questi, confessando ingenuamente la tua colpa, voglio che rispondi, ninno aratore trovarsi mai sì esperto nel far de’ solchi, che sempre prometter si possa, senza deviare, di menarli tutti dritti. Benchè a te non picciola scusa fia lo essere in questo secolo stata prima a risvegliare le addormentale selve, ed a mostrare a’ pastori di cantare le già dimenticate canzoni. Tanto più che colui, il quale li compose di queste canne, quando in Arcadia venne, non come rustico pastore, ma come coltissimo giovane, benchè sconosciuto, e peregrino di amore, vi si condusse. Senza che in altri tempi sono già stati pastori sì audaci, che [p. 214 modifica]insino alle orecchie de’ Romani Consoli han sospinto il loro stile; sotto l’ombra de’ quali potrai tu, sampogna mia, molto ben coprirti, e difendere animosamente la tua ragione. Ma se forse per sorte alcun altro ti verrà avanti di più benigna natura, il quale con pietà ascoltandoti, mandi fuori qualche amica lacrimetta, porgi subitamente per lui efficaci preghi a Dio, che nella sua felicità conservandolo, da queste nostre miserie lo allontani. Che veramente chi delle altrui avversità si duole, di se medesimo si ricorda. Ma questi, io dubito, saranno rari, e quasi bianche cornici; trovandosi in assai maggior numero copiosa la turba de’ detrattori. Incontra ai quali io non so pensare quali altre arme dar mi ti possa, se non pregarti caramente, che quanto più puoi rendendoti umile, a sostenere con pazienza le lor percosse ti disponghi. Benché mi pare esser certo, che tal fatica a te non fia necessaria, se tu tra le selve, siccome io ti impongo, secretamente, e senza pompe star ti vorrai. Conciossiacosachè chi non sale, non teme di cadere; e chi cade nel piano, il che rare volte addiviene, con picciolo ajuto della propria mano senza danno si rileva. Onde per cosa vera ed indubitata tener ti puoi, che chi più di nascoso, e più lontano dalla moltitudine vive, miglior vive; e colui tra’ mortali si può con più verità chiamar beato, che senza invidia delle altrui grandezze, con modesto animo della sua fortuna si contenta. [p. 215 modifica]


ANNOTAZIONI

alla Sampogna.


Conciossiacosachè a me conviene . . . . . per malvagio accidente dalle mie labbra disgiungerti ec. Quest’accidente, di cui si lagna il Sanazzaro, e per cui è costretto a non più sonare la sua sampogna, fu la morte immatura della propria moglie; cagione efficacissima, come più sotto egli medesimo dice, delle sue eterne lacrime, e della dolorosa ed inconsolabile vita ch’egli sosteneva.