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Arcadia (Sannazaro)/Prosa V

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Prosa V

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Egloga IV Egloga V

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ARGOMENTO


Dopo diversi giuochi e spassi presi da pastori per la strada, per consiglio di Opico, vecchio e savio, si riducono tutti intorno alla sepoltura del pastore Androgèo, le cui lodi essendo prima in bel parlamento recitate da un vaccaio, sono poi in una bella canzone dolcemente 1 accolte dal pastore Ergasto.


prosa quinta.


Era già per lo tramontare del sole tutto l’occidente sparso di mille varietà di nuvoli, quali violati, quali cerulei, alcuni sanguigni, altri tra giallo e nero, e tali sì rilucenti per la ripercussione de’ raggi, che di forbito, e finissimo oro pareano; per che essendosi le pastorelle di pari consentimento levate da sedere intorno alla chiara fontana, i duo amanti posero fine alle loro canzoni: le quali siccome con maraviglioso silenzio erano state da tutti udite, così con grandissima ammirazione furono da ciascuno egualmente commendate, e massimamente da Selvaggio, il quale non sapendo discernere quale fosse stato più prossimo alla vittoria, ambeduo giudicò degni di somma lode. Al cui giudicio tutti consentimmo di comune parere; e senza poterli più commendare, che commendati ne gli avessimo, parendo a ciascuno tempo di dovere omai ritornare verso la nostra villa, con passo lentissimo, molto degli avuti piaceri ragionando, in cammino ne mettemmo. Il quale, avvegnachè per l’asprezza dell’incolto paese più montuoso, che piano fos[p. 48 modifica]se, nondimeno tutti gli boscherecci diletti, che per simili luoghi da festevole e lieta compagnia prender si puoteno, ne diede ed amministrò quella sera. E primieramente avendosi nel mezzo dell’andare ciascuno trovata la sua piastrella, tirammo ad un certo segno; al quale chi più si avvicinava, era, siccome vincitore, per alquanto spazio portato in su le spalle da colui, che perdea; a cui tutti con lieti gridi andammo applaudendo d’intorno, e facendo maravigliosa festa, siccome a tal giuoco si richiedea. Indi di questo lasciandone, prendemmo chi gli archi, e chi le fionde, e con quelle di passo in passo scoppiando, e traendo pietre, ne diportammo; posto che con ogni arte ed ingegno i colpi l’un dell’altro si sforzasse di superare. Ma discesi nel piano, e i sassosi monti dopo le spalle lasciali, come a ciascun parve, novelli piaceri a prendere rincominciammo; ora provandone a saltare, ora a dardeggiare con li pastorali bastoni, ed ora leggierissimi a correre per le spiegate campagne; ove qualunque per velocità primo la disegnata meta toccava, era di frondi di pallidi ulivi onorevolmente a suon di sampogna coronato per guiderdone. Oltra di ciò (siccome tra boschi spesse volte addiviene) movendosi d’una parte volpi, d’altra cavriuoli saltando, e quelli in qua e in là co’ nostri cani seguendo, ne trastullammo insino che agli, usati alberghi da’ compagni, che alla lieta cena n’aspettavano, fummo ricevuti: ove dopo molto giuocare, essendo gran pezza della notte passata, quasi stanchi di piacere, concedemmo all’esercitate membra riposo. Nè più tosto la bella Aurora cacciò le notturne stelle, e ’l cristato [p. 49 modifica]gallo col suo canto salutò il vicino giorno, significando l’ora, che gli accoppiati buoi sogliono alla fatica usata ritornare; ch’un de’ astori prima di tutti levatosi andò col rauco corno tutta la brigata destando; al suono del quale ciascuno lasciando il pigro letto, si apparecchiò con la biancheggiante alba alli novi piaceri; e cacciati dalle mandre li volonterosi greggi, e postine con essi in via, li quali di passo in passo con le loro campane per le tacite selve risvegliavano i sonnacchiosi uccelli, andavamo pensosi immaginando, ove con diletto di ciascuno avessimo comodamente potuto tutto il giorno pascere, e dimorare. E mentre così dubitosi andavamo, chi proponendo un luogo, e chi un altro, Opico, il quale era più che gli altri vecchio, e molto stimato fra pastori, disse: Se voi vorrete ch’io vostra guida sia, io vi menerò in parte assai vicina di qui, e certo al mio parere non poco dilettosa; della quale non posso non ricordarmi a tutte ore, perocchè quasi tutta la mia giovanezza in quello tra suoni e canti felicissimamente passai: e già i sassi, che vi sono, mi conoscono, e sono ben insegnati di rispondere agli accenti delle voci mie: ove, siccome io stimo, troveremo molti alberi, nei quali io un tempo, quando il sangue mi era più caldo, con la mia falce scrissi il nome di quella, che sovra tutti li greggi amai; e credo già che ora le lettere insieme con gli alberi siano cresciute; onde prego gli Dii, che sempre le conservino in esaltazione e fama eterna di lei. A tutti egualmente parve di seguitare il consiglio di Opico, e ad un punto al suo volere rispondemmo essere apparecchiati. Nè guari [p. 50 modifica]oltra a duo milia passi andati fummo, che al capo d’un fiume chiamato Erimanto pervenimmo; il quale da piè d’un monte per una rottura di pietra viva con un rumore grandissimo e spaventevole, e con certi bollori di bianche schiume si caccia fore nel piauo, e per quello trascorrendo, col suo mormorio va fatigando le vicine selve: la qual cosa di lontano a chi solo vi andasse, porgerebbe di prima intrata paura inestimabile: e certo non senza cagione; conciossiacosachè per comune opinione de’ circunstanti popoli si tiene quasi per certo, che in quel luogo abitino le Ninfe del paese, le quali per porre spavento agli animi di coloro, che approssimare vi si volessero, facciano quel suono così strano ad udire. Noi, perchè stando a tale strepito non avriamo potuto nè di parlare, nè di cantare prendere diletto, cominciammo pian piano a poggiare il non aspro monte, nel quale erano forse mille tra cipressi e pini sì grandi, e sì spaziosi, che ognun per se avrebbe quasi bastato ad ombrare una selva: e poi che fummo alla più alta parte di quello arrivati, essendo il sole di poco alzato, ne ponemmo confusamente sovra la verde erba a sedere; ma le pecore, e le capre, che più di pascere, che di riposarsi erano vaghe, cominciarono ad andarsi appicciando per luoghi inaccessibili ed ardui del selvatico monte, quale pascendo un rubo, quale un arboscello, che allora tenero spuntava dalla terra: alcuna si alzava per prendere un ramo di salce; altra andava rodendo le tenere cime di querciuole, e di cerretti; molte bevendo per le chiare fontane, si rallegravano di vedersi specchiate dentro [p. 51 modifica]di quelle, in maniera che, chi di lontano vedute le avesse, avrebbe di leggiero potuto credere che pendessero per le scoverte ripe. Le quali cose mentre noi taciti con attento occhio miravamo, non ricordandone di cantare, nè di altra cosa, ne parve subitamente da lungi udire un suono come di piva e di naccari, mescolato con molti gridi e voci altissime di pastori; per che alzatine da sedere, rattissimi verso quella parte del monte, onde il romore si sentiva, ne drizzammo, e tanto per lo inviluppato bosco andammo, che a quella pervenimmo. Ove trovati da dieci vaccari, che intorno al venerando sepolcro del pastore Androgèo in cerchio danzavano, a guisa che sogliono sovente i lascivi Satiri per le selve la mezza notte saltare, aspettando che dai vicini fiumi escano le amate Ninfe, ne ponemmo con loro insieme a celebrare il mesto officio. De’ quali un più che gli altri degno stava in mezzo del ballo presso all’alto sepolcro in uno altare nuovamente fatto di verdi erbe: e quivi, secondo lo antico costume, spargendo duo vasi di novo latte, duo di sacro sangue, e duo di fumoso e nobilissimo vino, e copia abbondevole di tenerissimi fiori di diversi colori; ed accordandosi con soave e pietoso modo al suono della sampogna, e de’ naccari, cantava distesamente le lodi del sepolto pastore: Godi, godi, Androgéo, e se dopo la morte alle quiete anime è concesso il sentire, ascolta le parole nostre; e i solenni onori, i quali ora i tuoi bifolchi ti rendono, ovunque felicemente dimori, benigno prendi ed accetta. Certo io credo che la tua graziosa anima vada ora attorno a queste selve volando, e [p. 52 modifica]veda e senta puntualmente ciò, che per noi oggi in sua ricrdazione si fa sovra la nova sepultura. La qual cosa se è pur vera, or come può egli essere, che a tanto chiamare non ne risponda? Deh tu solevi col dolce suono della tua sampogna tutto il nostro bosco di dilettevole armonia far lieto: come ora in picciol luogo rinchiuso, tra freddi sassi sei costretto di giacere in eterno silenzio? Tu con le tue parole dolcissime sempre rappacificavi le questioni de’ litiganti pastori: come ora gli hai, partendoti, lasciati dubbiosi e scontenti oltra modo? O nobile padre e maestro di tutto il nostro stuolo, ove pari a te il troveremo? i cui ammaestramenti seguiremo noi? sotto quale disciplina vivremo ormai sicuri? Certo, io non so chi ne fia per lo innanzi fidata guida nei dubbiosi casi. O discreto pastore, quando mai più le nostre selve ti vedranno? quando per questi monti fia mai amata la giustizia, la drittezza del vivere, e la riverenza degli Dii? le quali cose tulle sì nobilmente sotto le tue ali fiorivano; per maniera che forse mai in nessun tempo il reverendo Termino segnò più egualmente gli ambigui campi, che nel tuo. Oimè chi nei nostri boschi omai canterà le Ninfe? chi ne darà più nelle nostre avversità fedel consiglio, e nelle mestizie piacevole conforto e diletto, come tu facevi cantando sovente per le rive de’ correnti fiumi dolcissimi versi? Oimè che appena i nostri armenti sanno senza la tua sampogna pascere e per li verdi prati; li quali mentre vivesti solevano sì dolcemente al suono di quella ruminare l’erbe sotto le piacevoli ombre delle fresche elcine. Oimè che nel tuo [p. 53 modifica]dipartire si partirono insieme con teco da questi campi tutti i nostri Dii: e quante volte dopo abbiamo fatto pruova di seminare il candido frumento, tante in vece di quello avemo ricolto lo infelice loglio con le sterili avene per li sconsolati solchi; ed in luogo di viole, e d’altri fiori sono usciti pruni con spine acutissime e velenose per le nostre campagne. Per la qual cosa, pastori, gittate erbe e fronde per terra, e di ombrosi rami coprite i freschi fonti; perocchè così vuole che in suo onore si faccia il nostro Androgéo. O felice Androgéo, addio eternamente, addio. Ecco che il pastorale Apollo tutto festivo ne viene al tuo sepolcro per adornarti con le sue odorate corone; e i Fauni similmente con le inghirlandate cerna, e carichi di silvestri doni, quel che ciascun può, ti portano; de’ campi le spiche, degli arbusti i racemi con tutti i pampini, e di ogni albero maturi frutti: ad invidia dei quali le convicine Ninfe, da te per addietro tanto amate e riverite, vengono ora tutte con canestri bianchissimi, pieni di fiori e di pomi odoriferi a renderti i ricevuti onori: e quel che maggiore è, e del quale più eterno dono alle sepolte ceneri dare non si può, le Muse ti donano versi, versi ti donano le Muse, e noi con le nostre sampogne ti cantiamo, e canteremo sempre, mentre gli armenti pasceranno per questi boschi: e questi pini, e questi cerri, e questi platani, che d’intorno ti stanno, mentre il Mondo sarà, susurreranno il nome tuo: e i tori parimente con tutte le paesane torme in ogni stagione avranno riverenza alla tua ombra, e con alte voci muggendo li chiameranno per le [p. 54 modifica]rispondenti selve; talchè da ora innanzi sarai sempre nei numero de’ nostri Dii; e siccome a Bacco, ed. alla santa Cerere, così ancora a’ tuoi altari i debiti sacrifizj, se sarà freddo, faremo al fuoco; se caldo, alle fresche ombre: e prima i velenosi tassi suderanno mele dolcissimo, e i dolci fiori il faranno amaro; prima d’inverno si mieteranno le biade, e di estate coglieremo le nere olive, che mai per queste contrade si taccia la fama tua. Queste parole finite, subitamente prese a sonare una soave cornamusa, che dopo le spalle gli pendea; alla melodia della quale Ergasto, quasi con le lacrime su gli occhi, così aperse le labbra a cantare.


ANNOTAZIONI

alla Prosa Quinta.


E già i sassi che vi sono ec. Il pensiero è tolto da Virgilio nell’Egl. i.


Formosam resonare doces Amaryllida silvas;


ovvero nell’Egl. x.


Ipsi laetitiae voces ad sidera jactant
Intonsi montes; ipsae jam carmina rupes,
Ipsa sonant arbusto.


E credo già che le lettere ec. Virgilio nell’Egl. x.


. . . . . . tenerisque meos incidere amores
Arboribus: crescent illae, crescetis, amores.


Il Tasso nell’Aminta Atto i. Sc. i.


Lo scrisse in mille piante, e con le piante
Crebbero i versi,

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Erimanto. Fra i monti più celebri dell’Arcadia abbiamo notato sotto la Prosa Prima, che v’ha l’Erimanto. Or sappia che ivi è un fiume, che porta lo stesso nome.

Quale pascendo un rubo ec. Questo muoversi de’ pastori al Sorgere del giorno, questo poggiare il monte, e questo vagare dei gregge in pascendo è tolto da Virgilio nel Culice:


Igneus aethereas jam sol penetrarat in arces,
Candidaque aurato quatiebat lumina curru,
Crinibus et roseis tenebras Aurora fugabat,
Propulit e stabulis ad pabulo laeta capellas
Pastor, et excelsi montis juga suutma petivit;
Lurida qua patulos velabant grami na colles.
Jam silvis, dumisque vagae, jam vallibus abdunt
Corpora: jamque omni celeres e parie vagantes
Scrupea desertae perrepunt ad cava rupis.
Tondentur tenero viridantia gramina morsu:
Pendula projectis carpuntur et arbuta ramis:
Densaque virgultis avide labrusca petuntur.
Haec suspensa rapit carpente cacumina morsu.
Vel salicis lentae, vel quae nova nascitur alnus:
Haec teneras fruticum sentes rimatur: at illa
Imminet in rivi praestantis imaginis undam.


Spargendo duo vasi ec. Virgilio nel lib. v. dell’En. disse la stessa cosa di Enea al sepolcro del padre Anchise:


Hic duo rite mero libans carchesia Baccho
Fundit humi, duo lacte novo, duo sanguine sacro;
Purpureosque jacit flores, ac talia fatur
ec.


Il reverendo Termino. E questi il Dio de’ confini, dagli antichi con grande venerazione onorato. Vedi Ovidio nel lib. ii. de’ Fasti, che ne descrive i sacrificj, chiamati Terminali.

E quante volte abbiamo fatto pruove ec. Virgilio neil’Egl. v.


Grandia saepe quibus mandavimus hordea sulcis,
Infelix lolium, et steriles nascuntur avenae:
Pro molli viola, pro purpureo narcisso
Carduus et spinis surgit paliurus acutis.


Pastori, gittate erbe e fronde per terra ec. Virgilio parimenti nell’Egl. v.


Spargite humum foliis, inducile fontibus umbras,
Pastores.

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Se sarà freddo, faremo al foco ec. Anche questo tolto da Virgilio nella stessa Egl. v.


Et multo imprimis hilarans convivia Baccho,
Ante focum, si frigus erit, si messis, in umbra
Vina novum fundam calathis Arvisia nectar.


I velenosi tassi. Il tasso è un albero simile all’abete, o più tosto al larice per essere sempre verdeggiante. È copioso nell’Austria, nell’Ungheria, nella Dania, nell’Elvezia. Serviva a far balestre ed archi. Fa certe coccole rosse, che dicono essere venenose, e alcuni vogliono che dal vocabolo tasso, cambialo l’a in o siasi detto tossico, per dir veleno in genere.