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Canto V

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Canto IV Canto VI
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CANTO QUINTO


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Uscito Esperio dalla bolgia immonda,
     Ove papeggia il gazzettume abjetto,
     Di nuovo con Edea fidato all’onda,
     Giunge a una terra di men triste aspetto:
     Sul fragoroso mar che la circonda
     E le balla dintorno il minuetto,
     Un suo Castel di rose e d’aurea polve
     La Morgana ogni dì fonda e dissolve.

Sotto a questo edificio evanescente,
     Fra un luccichio d’iridescenti spume,
     Un vociare, un urlar cupo si sente
     Troppo di là da ogni civil costume.
     Irta poggia e rocciosa ad occidente
     La costa ai venti amica ed alle brume;
     La spiaggia opposta facile ed amena
     Apre al nocchier le sue braccia d’arena.

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Sollecita la ciurma a questa parte,
     Com’Edea comandò, volse la prora,
     E le vele calò giù dalle sarte,
     Che a mezzo ciel non era il sole ancora.
     Scivolavan su l’onde ad ali sparte
     I gabbiani gracchiando ad ora ad ora,
     Mentre nel golfo qualche paranzella
     Più qua più là facea la tarantella.

La spiaggia, che nell’acqua il lembo immerge,
     Ondulando su su da la marina,
     Di liete erbe s’adorna e tanto s’erge,
     Che, se non monte, la puoi dir collina;
     L’onda, che dalla sabbia il piè le terge,
     S’insena in essa placida e turchina,
     Finchè, stagnando in una lutea conca,
     Fa da sudicio specchio a una spelonca.

Questa è la reggia venerata e l’ara,
     Cui dintorno s’accoglie un doppio gregge,
     Che poetando e censurando a gara
     Empie il mondo di bombe e di corregge;
     Da questa grotta omai famosa e chiara,
     Sinai novello, uscì la nuova legge,
     Onde ognuno può far, come tu vedi,
     Critiche col groppon, versi co’ piedi.

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L’archipoeta Barabal secondo
     Da’ suoi cento trionfi alfin qui posa,
     E in adorazion d’un mappamondo
     Regio gratta la cetra e un’altra cosa;
     Ballano a lui dintorno il giro tondo,
     Al suo verso inneggiando e alla sua prosa,
     Ebbri mignoni, femminacce impure,
     Ruffian, baratti e simili lordure.

Pecoraggin plebea, pazzo talento
     Di quella dea che con agevol ruota
     Schiaccia a terra le gemme e al firmamento
     Con cieco turbinio lancia la mota,
     Acrobata virtù che ad ogni vento
     Gira con arte ai soli onesti ignota,
     Diedero a lui, che in verità n’è degno,
     Su questa terra imprescrittibil regno.

Già presso all’antro s’era Esperio tratto,
     Ma l’ammonì con voci alate Edea:
     Dove t’innoltri più? férmati; e tratto
     Per un braccio, in tal dire, a sè l’avea:
     Qui, fuor che il mostro e chi com’esso è matto,
     Entrar mai nessun altro abbia in idea,
     Chè questa bestia per costume antico
     Chi fra’ suoi non s’ingreggia ha per nemico.

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Fra queste macchie, onde ombreggiato è il loco,
     E che pajon cresciute ad util nostro,
     Celiamoci piuttosto, e qui tra poco
     Vedremo uscir dalla spelonca il mostro.
     Non odi il grido suo ferino e roco?
     L’arte di Casanova e di Cagliostro
     Egli in quest’ora a’ suoi devoti spiega,
     Poi per distrarsi un po’ chiude bottega.

E poi che dentro all’anima squarquoja,
     E sto quasi per dir sotto la coda,
     Gli s’è cacciata una bizzarra foja,
     Che andar lo fa da qualche tempo in broda,
     Ei quindi uscito, or move assedio a Troja,
     Or in bacchici tuffi il corno assoda,
     Or canta all’amor suo versi sì strani
     Da far venire le paturne ai cani.

Qui dentro ad un pajuolo, a cui di sotto
     Fanno gli alunni suoi fiammate a prova,
     Egli ammanisce il celebre cerotto,
     Detto, non so perchè, poesia nova:
     Con un processo peregrino e dotto
     Monta la chiara d’una serqua d’ova,
     E sì frullando la rimena e mesce,
     Che spumeggiante sotto man gli cresce.

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Prende poi grammi sei del vecchio strutto,
     Onde Orazio ad Augusto unse il crescione;
     Con mezza libbra di latin costrutto
     E di latina prosodia li pone;
     Poi di pepati aggettivuzzi il tutto
     Spolvera, e lo rimesta in un teglione;
     Fatto infine un paston lungo un buon metro,
     L’unge ben d’olio, e se lo schiaffa dietro.

Distendendolo poi sopra un tagliere,
     Lo maneggia, lo spiana, il taglia a fette,
     E queste fette, lunghe a suo piacere,
     Le assola a quattro a quattro in forme addette;
     Indi a bagnomaria, com’è dovere,
     Nella pajuola a cuocere le mette,
     E per dolciumi prelibati e rari
     Le serve calde ai gonzi ed ai compari.

Ma già di grida fragorose i cupi
     Alvi suonan dell’antro; ecco, ecco i suoi
     Fidi: han d’uomini aspetto, urli di lupi,
     Servilità di pecore e di buoi,
     Volti o ceffi di corno, anzi di rupi,
     Canini i denti ed asinini i cuoi;
     Muovono dietro a lui col capo fitto
     Al suol, le mani a terra e a buco ritto.

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Egli il duce, il maestro, il papa, il nume,
     Poichè non ha mai l’anima tranquilla,
     Bofonchiando sen vien con un costume
     Tra di porco selvaggio e di gorilla;
     Nel ventre osceno, in mezzo al sudiciume
     E al folto pelo, un bieco occhio gli brilla;
     Nè altr’occhi ha in capo; onde la sua sembianza
     L’orridità di Polifemo avanza.

Vedi quei due, che stretti a lui daccanto,
     Come a San Rocco i due famosi cani,
     Gravi, solenni e ringhiosetti alquanto
     Par che dicano: Lungi ite, o profani?
     La lor cotidiana opra, il lor vanto
     È di leccare a lui gl’ispidi arcani:
     Per questo appunto, a’ suoi capricci intenti,
     Portan la lingua penzolon fra’ denti.

Ad altro mai fuor che all’ufficio sozzo
     Questi due tristi non si fan mai vivi,
     Nè mai per altro fine aprono il gozzo
     Che per latrare al mostro inni festivi:
     Contenti assai, se d’alcun duro tozzo
     Le lor trippe digiune egli ravvivi,
     Beati oltre ogni dir, se a lor benigno
     Ei gitti in piazza un amichevol ghigno.

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Non discosto da lor, ma un po’ da parte,
     Eutichio annaspa, anfanator perenne,
     Che per mastodontèo corpo e per arte
     Di parlar senza dire in fama venne;
     Versa talor su profumate carte
     Poetico sudor dalle cotenne,
     Ma, differente d’ogni altro animale,
     Il sudor che distilla è senza sale.

Ve’ ve’ quel beccherel che trotta e ruzza
     Col roseo sederin fuor dei calzoni?
     Lallino egli è, che ancor di latte puzza,
     E il reuzzo è dei vati e dei mignoni.
     Oh come il poverino il muso aguzza
     Per la fatica sua di due ragioni!
     Oh come ei sa con arte aristocratica
     Stuzzicar chi lo legge e chi lo pratica!

Quel piccinin dalla capocchia bionda
     Come un chicco di grano o di panico,
     Che per darsi aria le cigliuzza aggronda,
     È Guido Piaccianteo del Pappafico:
     La sua mammaccia rossa e invereconda.
     Dopo aver fatto quel che non ti dico,
     Per non guastarsi il petto e la carriera,
     Buttollo, e fe’ ritorno al sicutera.

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Videlo Baraballo un bel mattino,
     E tal pietà non consueta n’ebbe,
     Che tra le falde sue, come un canino,
     A bocconcini e a briciole sel crebbe;
     Ma visto che riman sempre piccino,
     Svezzarlo tuttavia non lo vorrebbe,
     E da balia facendogli e da vacca,
     A un capezzolo suo spesso l’attacca.

Così nutrito, la testina scema
     Beccasi Piaccianteo sopra la carta,
     E suda e gela e ponza, e col sistema
     Metrico decimale i versi squarta;
     E con tal cura ed appuntezza estrema
     Distici addoppia e strofe alcaiche inquarta,
     Che in conto di prodigio ha da tenersi,
     Che un tal babbeo faccia sì giusti i versi.

Gli vien da lato in musical cadenza
     Marron Candito, versajuol sublime,
     Che privo di cervello e di semenza
     A via di vento ingravida le rime;
     Anima musical per eccellenza
     A ogni sillaba sua musica imprime,
     E tale ai fiati suoi dà modo e legge,
     Ch’ei ti sembrano versi e son corregge.

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Quell’ebbra ciurma, che di rutti infesta
     L’aure, è dei Fauni il lascivetto stuolo:
     Un fallo inciprignito hanno per testa,
     Paonazze le guance e un occhio solo;
     Basta il fruscio d’una femminea vesta,
     Perchè tacchineggiando aprano il volo,
     E cantino in gentil chiave di ciuco
     Il poter di San Cresci e di San Buco.

Lor capitano è un satiro impudico,
     Che di Parnaso a’ primi posti agogna;
     Tutto cinto è da foglie ampie di fico,
     Perchè sa d’esser tutto una vergogna;
     Suo studio e casa è un lupanare antico,
     E cimiterio suo sarà la fogna,
     Dove ancor vivo il caccerà, con gioja
     Di tutti i buoni, a via di scopa il boja.

Seguono a questi fauni impertinenti,
     Che non pure a virtù drizzan l’offesa,
     Ma tengon servitù d’eunuche menti
     L’umile ortografia serbare illesa,
     I Preraffaelliti e i Decadenti,
     Che l’immagin d’Onano han per impresa,
     E con processo fino a ieri ignoto
     Son riusciti a cesellare il vuoto.

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O fosse il lor sentore o un semiserio
     Tiro di qualche spiritello arguto,
     Mentre sfilan costoro, eccoti Esperio
     Caccia un sonoro, improvvido sternuto:
     Un urlo, un salto, un chiasso, un putiferio
     Fa quell’armento allor come un sol bruto;
     Fermasi anch’esso e i peli arruffa il mostro,
     E mugghia: Minacciato è il regno nostro!

Odo un certo stormir tra quella macchia
     Anzi un uom che sogghigna indi s’affaccia:
     Su, Frugolo, Frinzel, Tappo, Cornacchia,
     Date all’audace schernitor la caccia!
     A tal comando chi strilla, chi gracchia,
     Chi freme, chi bestemmia, chi si sbraccia,
     Chi ritto su due piè contro l’usanza
     Smanaccia all’aria, ma nessun si avanza.

Sangue d’un buaccion! con quanto ha fiato
     Grida allora Taruol di Rogantino,
     S’anco ci fosse il diavolo in agguato,
     Sgranocchiar me lo vuo’ come un grissino!
     E benchè zoppo fosse e infranciosato,
     Messosi a capo d’un drappel suino,
     Alla macchia sen va con fiero incesso,
     Non però troppo, a dire il ver, da presso.

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Un randel, che per caso ivi giacea,
     Ben librato, nocchiuto e fuor di modo,
     Esperio afferra, e non s’oppone Edea,
     E avanzando il mulina, e picchia sodo;
     Aizza Barabal l’orda sua rea,
     Però da lungi, ed io di questo il lodo;
     Ma visti in fuga i suoi, non altro aspetta,
     E in fondo all’antro si ricaccia in fretta.

Zitto, allor disse Edea, quindi conviene
     Di tal mostro pigliar vendetta lieta;
     Lascia che asseri un poco, e su le arene
     Del lido uscir vedrai l’irto poeta:
     Quivi al mare affidar suol le sue pene,
     Quivi palpar la sua parte segreta,
     Invocando colei che il sen gl’infiamma
     In versi che non han babbo nè mamma.

Già tra foschi giacinti avea gli aurati
     Strali ravvolti il sole, e dietro al monte,
     Presi da’ campi i debiti commiati,
     Celato avea la porporina fronte;
     Gli alunni qua e là tristi e sbrancati,
     Rimemorando le batoste e l’onte,
     Schizzavano velen da tutti i pori,
     Quand’ecco a un tratto Barabal vien fuori.

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Nella coppa spumante animo attinto,
     Trampellando e inciampando ad ogni sasso,
     Al lido ei muove per antico istinto,
     Non ch’egli sappia ove diriga il passo;
     Quivi, d’essere Alceo novo convinto,
     Pria l’occorrenze sue fa dietro un masso,
     Poscia al suo ben dalla boccaccia brutta
     Questi ventosi ventriloquj erutta:

Vieni, o tu buona, oh vieni! È il ciel piovorno,
     Attediato è il mar, tignosi i colli;
     Sbadigliano i fanali al lido intorno;
     Van pe’l grigio silenzio i buoj satolli;
     Pendule del pio mar sul pio soggiorno
     Stan le vacche del ciel gravide e molli,
     E tra la terra e il ciel fa l’occhiolino
     Huitzilopotli al gran Guatimozino!

Passava in quel momento (ora vedete
     Quanto sia il caso capriccioso e matto!)
     Una dir non sapreste o donna o prete
     A vederla a quell’ora, a primo tratto;
     Edea, che al mostro vuol tender la rete
     E prendersi di lui gioco a buon patto,
     Le si appressa, la indetta, un borsellino
     Le dà, e la manda al novo Alceo marino.

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Bionda al tempo dei tempi e ricciutina
     Era costei, ma ora affatto è calva;
     La guancia avea qual rosa alessandrina,
     Ma come foglia or l’ha d’arida malva;
     Bocca avea sorridente e piccolina,
     Ma neppur questa il tempo invido ha salva,
     Che slabbrata ora l’ha, putida e sconcia
     Qual di mula che pisci ardente cioncia.

Netta sarebbe, se non fosse lercia,
     Andrebbe dritta, se non fosse zoppa,
     Aspra ha la pelle come faggio o quercia,
     E una gobba ha da un lato in su la groppa;
     Gli occhi li ha belli inver, ma d’uno è guercia,
     Nell’altro ci ha una maglia, anzi una toppa;
     I nervi ha tesi come corde d’arpe,
     Patatiferi i piedi e senza scarpe.

Barabal che, per l’ora e più per l’occhio
     C’ha nel centro del corpo unico e raro,
     E perchè il vin gli ha già travolto il cocchio,
     Non sa discerner più brusco da chiaro,
     Come vede costei cade in ginocchio,
     E con voce di languido somaro:
     Vieni, raglia, son tuo; vieni, o divina
     Del mio pensier, dei giorni miei regina!

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Bench’io non sappia ancor donde venisti,
     Nè t’abbia vista mai, tranne che in sogno,
     Sappi, che da quei dì che il cor m’apristi,
     Più che un bicchier di malaga t’agogno;
     Or che un dio qui t’adduce, ah non c’è cristi,
     lo ti metto dinanzi il mio bisogno,
     Io ti caccio la man sotto il guarnello,
     E muojo a’ piedi tuoi come Rudello!

Vòlta al compagno, che dal rider tanto
     Le mani ai fianchi e il pianto agli occhi avea:
     Noi non farem da testimonj intanto
     A un bacio tal, disse ridendo Edea;
     Lasciamo al mostro ameno il gusto e il vanto
     Della conquista che il buon vin gli crea,
     E a lui tutte le sere in forma tale
     Scenda l’eterno femminin regale.

Degli altri alunni suoi, però che doppia,
     Come già tu conosci, è la sua scuola,
     Mostrar ti voglio l’erudita stoppia
     Di cui la fama ai quattro venti vola:
     Strana razza vedrai, che il mondo alloppia
     Con gli atti, col pensier, con la parola,
     Larve che di zavorra il capo han pieno,
     Di fiele il labbro e di superbia il seno.

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Infiliam questa via, che dalla riva
     Del colle al fianco occidental riesce,
     Dove in ampia magion la comitiva
     Dotta ogni giorno a cicalar si mesce;
     Ma poi che col pensier là non si arriva,
     Ad ingannar la via, se non t’incresce,
     T’insegnerò la fonte avvelenata,
     Onde la nova lue critica è nata.

Un giorno un topo dalla fame spinto
     Róse la coda a un animal trojano,
     Che la grossa dormia sazio e convinto,
     Che il mondo è un brago, e il porco è il suo sovrano;
     Ma il dolce untume ed il furtivo istinto
     Al ghiottoncello guadagnâr la mano,
     Sì che, vistogli sotto un buco oscuro,
     Qual fosse casa sua, v’entrò sicuro.

L’adiposo animal, che indifferente
     S’era lasciato roder l’escrescenza,
     Come quel non sa che penetrar sente
     Nel santuario della sua coscienza,
     Di pudor, di dolor, di rabbia ardente,
     Persa la natural sua continenza,
     A saltare si diè come un ossesso
     Senza riguardo al mondo ed a sè stesso.

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Il padron, che l'avea sin da piccino
     Con amore ingrassato a crusca e a ghiande,
     Ed or che il carnevale era vicino
     Lo facea segno d’un amor più grande,
     Sapendo ch’esso non è ballerino,
     Nè amico d’alcooliche bevande,
     E vedendol di pria tanto diverso,
     Pensò: di certo il raziocinio ha perso.

Qui bisogna avvertir, che tal padrone
     Era un bel tipo da psichiatria,
     Che cangiava ogni dì professione,
     Facendo ora lo sbirro, ora la spia,
     Ora lo spiritista, ora il cozzone,
     Ora il maestro di pedagogia
     Retrospettiva, insomma era un tal tomo
     Che facea tutto fuor che l'onest'uomo.

Costui dunque vedendo all’improvviso
     L’amato alunno che ad ognun s’avventa,
     D’una paterna carità conquiso
     Gli corre incontro ed ammansar lo tenta;
     Ma quei con irto grugno e bieco viso
     Gli si scaglia alle gambe e gliel'addenta:
     Cade il meschin sul pubblico selciato,
     Ahi tanto amava il non amante amato!

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Si rialzò, fasciò la ria ferita,
     Prese nel mostro indegno ampia vendetta,
     Ma la piaga non era anco guarita,
     Che un’ambascia il travaglia e l’assaetta;
     Un malore, una smania indefinita
     Tutto sossopra l’animo gli getta,
     E con la smania un gran furor l’assale
     Di legger libri in furia e dirne male.

Ed il peggio è, che il maledetto seme
     Della topino-majalesca rabbia
     Tutta gli avviva e gli raccende insieme
     Nel guasto sangue la sbirresca scabbia:
     Ad ogni nuovo libro ulula, freme,
     E par che la terzana o il tetano abbia;
     Sputa foco e veleno, e con ingorde
     Fauci s’avventa a chi gli è presso, e il morde.

Così, mordendo a questa e a quella parte
     E inoculando impune il suo veleno,
     Sparge la lue, che in scellerate carte
     Indi si versa e di cui ’l mondo è pieno:
     Tante non fece il sanguinoso marte
     Vittime un dì sul disputato Reno,
     Quant’opre insigni insudicia ed intacca
     Questa di censurar rabbia vigliacca.

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Non ammirar però, se nel cervello
     De’ Mevj novi, oltre al velen, ci sia
     Un po' del topo, del majale e dello
     Sbirro, se gli fai ben l’anatomia.
     Ma se i principi di cotal flagello
     Scoprì da un pezzo la microscopia,
     Ahi, fin ad oggi nè PasteurKoch
     Manipolato hanno una linfa ad hoc!