Avarchide/Canto XXV
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CANTO XXV
ARGOMENTO
Di Segurano e di Clodin suo figlio
Piange Clodasso sull’estremo fato:
Quindi del re Vagor segue il consiglio
E i corpi ottien dal vincitor spietato.
Regnan in Avarco il pianto e lo scompiglio;
Il duol di Claudiana e’ disperato;
Albina sviene su Clodino e spira:
Degli uccisi guerrieri arde la pira.
i
Delle prove onorate giunto il fine
Dietro al famoso re parte ciascuno,
E dell’albergo umil trova il confine,
Ove la sete sua sazia e ’l digiuno;
Poi ch’attuffando il sol l’aurato crine
Nell’onda occidental vien l’aer bruno,
Sovr’aspro letticciuol le membra stende,
E del lungo sudar restauro prende.
ii
Ma il pio figlio di Ban la nuda terra
Presso al buon Galealto ha per sostegno,
Pensa a lui sol nè mai le luci serra,
Che di riposo aver si chiama indegno,
E di cure mortali eterna guerra
Si sente dentro al sen di doglia pregno,
Or su questo rivolto or su quel lato,
Or supino ora in piè cangiando stato.
iii
Tornangli tutte in cor l’alte fatiche,
Che per terra e per mar seco sofferse,
E dove il ciel con le sue stelle amiche
Di vittoria il cammin seco gli aperse;
Che ’l trovò sempre tal, che fra l’antiche
Coppie fide in amar simil non scerse;
E non vuol più gradir felice sorte
Or ch’averla con lui gli ha tolto morte.
iv
Avvolto in tai pensier, come l’aurora
Con le rosate mani il giorno adduce,
Risveglia e chiama chi dormiva ancora
Della gente gradita ond’egli e’ duce;
Poi con ornata pompa trae di fuora,
Accesa intorno ampissima la luce
Di candide facelle, il gran re morto,
Per locarlo nel tempio al sacro porto.
v
Ove con larghe lagrime portato
Sovra il gran limitare in alto il pose,
Dentro albergo di piombo fuori aurato,
Che ’nfra drappi ricchissimi nascose;
D’attorno tutto il loco e’ circondato
Di palme e ’nsegne sue vittoriose;
Sotto a lui poscia stan di Segurano
Le spoglie appese di sua stessa mano.
vi
Non perchè eternamente ivi dimore,
Che per lui non gli par sede assai degna,
Ma infin che sia di quella impresa fuore,
E che d’Arturo in mano Avarco vegna;
Ch’allora ei proprio con supremo onore
Nelle fortunat’Isole ove regna
Il buon sangue di lui, per aspro mare
A’ suoi liti paterni il vuol portare.
vii
Or mentre ciò facea, dall’altra parte
Il misero Clodasso e la pia moglie,
L’afflitta Claudiana han tante sparte
Lagrime a terra in angosciose doglie,
Ch’avrian mosso a pietà Bellona e Marte,
E del fero Pluton le crude soglie,
Non pur la gente languida ch’ascolta,
Or non men che di duol di tema involta.
viii
Chè l’infelice popolo omai vede,
Ch’ogni saldo sperar s’è fatto vano,
Morto il suo valoroso Palamede,
Che ’l Britanno furor tenea lontano,
Poi quel nella cui mano avea più fede,
Che ’n tutte l’altre, il fero Segurano,
E ’l giovinetto re Clodin, nel quale
Parea fosse il rimedio d’ogni male.
ix
Pur del suo vecchio re sentendo il pianto,
Lagrimando di lui, se stesso oblia;
Che ’l vedea dispogliato il real manto
Chiamar la morte dispietata e ria,
Dicendo: E perchè m’hai lassato tanto
In questo velo, oimè? Che s’io morìa
Molti anni sono andati, il più felice
Era io del mondo, or sono il più infelice.
x
Ma pur potessi almeno in tanto duolo
Aver questo crudele aspro conforto,
Di vedermi ora innanzi il mio figliuolo,
Qual’ei si mostre, insanguinato e morto,
E potergli le piaghe afflitto e solo
Di lagrime lavar, poi dargli il porto
Ch’alle spogliate membra ultimo dassi,
Di terra ornata e di marmorei sassi.
xi
Sì ch’io fossi securo che le mani,
Le mani al mio buon seme crude e fere,
No ’l facciano esca di bramosi cani,
D’avvoltori, di corvi e d’aspre fere;
E che i nemici miei pressi e lontani
Il duro scempio vengano a vedere,
Dicendo: ’Tale avegna al suo parente,
E di quanta ave intorno amica gente’.
xii
Con tai duri lamenti a terra giace
In tra cenere immonda e polve avvolto,
E d’oscuro color macchiati face
I canuti capei, la barba e ’l volto;
Nè la notte nè ’l dì ritrova pace,
Senza chiuder le luci o poco o molto;
Del cibo prende pur talora a forza,
Che alcun servo migliore a ciò lo sforza.
xiii
Ma che ’l dì duodecimo passato
Sente Vagorre il re che Lancilotto,
Doppo il funebre onore a fin recato,
Avea con lunga pompa ricondotto
Di Galealto il corpo nel sagrato
Tempio al sepolcro; fu da speme indotto
A creder che lo sdegno e l’ira omai
Nel generoso cor sia meno assai.
xiv
Però che a mille prove conoscea
Quanto era chiaro, nobile e pietoso
Degli altrui danni e d’altrui sorte rea,
E di giovare a’ miseri bramoso;
Onde giunto a Clodasso gli dicea:
Date al vostro dolor qualche riposo,
Ch’io penso di recarvi oggi vicino
Il vostro altero genero e Clodino;
xv
Se vorrete, Clodasso, consentire
Ch’io mi mostri oratore in vostro nome
Al figliuol del re Ban, ch’omai dell’ire
Già deposte dal cor le gravi some
Voglia lassar da’ nostri seppellire
I due regi illustrissimi, sì come
Convien di loro all’alta nobiltade,
E d’un tal vincitore alla pietade;
xvi
E ch’oltra il grande onor gli faccia offerta
Di preziosi doni in sua mercede,
Per l’una e l’altra via mostrare aperta,
Ove il supremo onore e ’l premio sede;
Che ben d’aspra durezza ha l’alma inserta,
Chi dubbioso dell’una al fin non cede,
Poi che più volte s’ha rivolto in seno,
Ch’elle vengan congiunte, ad ambe almeno.
xvii
Il doglioso Clodasso poi ch’alquanto
S’ha il cor compresso e che ’l rugoso volto
Bagnato ha intorno di più largo pianto,
E di più trista cenere ravvolto,
Risponde sospirando: Ben che tanto
Non mi dorria dal mondo essere sciolto,
Quanto il pregar quel crudo, onde rimase
Son senza tai figliuoi le nostre case;
xviii
Pure il paterno uficio e la pietade,
Senza speranza aver, fa ch’io consenta,
Che voi prendiate in van per noi le strade
A far dolce venir chi ne tormenta;
Con fargli offerta di sì grandi e rade
Ricchezze che porriano assai contenta
Render di Mida ancor l’avara voglia,
Che di vita per lor se stessa spoglia.
xix
E chiamato Astrabor comanda e dice:
Gite dove il mio ben giace più caro
E la corona regia, onde felice
Mi tenni un tempo e sì pregiato e chiaro,
Prendete in prima e sia dono infelice
A chi n’ha qui ripien di pianto amaro;
La qual di sì gran gemme e tali è piena,
Ch’altre tante ne son nel mondo a pena.
xx
Poi la vesta real, là dove l’oro
Tra smeraldi e rubin rimane ascoso,
La qual soletta avanza ogni tesoro,
Che quell’empio sperar già mai fuss’oso;
Lo scettro ancor, che qualunque altri foro
Tra’ Persi o gl’Indi al tempo più famoso
D’assai pregio trapassa e di lui sia
Ogni ornamento della regia mia.
xxi
Che poi che piace al ciel ch’ei m’aggia privo
De’ più cari ch’avea del regno eredi,
D’essi e d’ogn’altro ben restando schivo,
Ogni cosa mortale ho sotto i piedi;
Or gite adunque tosto, acciò ch’io vivo
Possa compor dentro a marmoree sedi
I due terrestri vel di quei, che soli
Fur di vera virtù lucenti soli.
xxii
Non molto a ritornar tarda Astraborre,
E i domandati arnesi ivi entro adduce;
Dagli in potere appresso di Vagorre,
Che dell’aspro viaggio fosse duce;
Ei sovra ornato carro gli fa porre,
Che d’oro intorno riccamente luce,
Da quattro gran destrier tirato, a i quali
Non vede altro paese molti eguali.
xxiii
Muove esso innanzi e solo in compagnia
Ideo ch’è il primo araldo seco mena,
Che ben sapeva omai del gir la via,
Chè più volte calcò l’istessa arena;
Sovra un picciol caval monta, che sia
Di conducerlo a fin possente a pena,
Di brun vestito, ma l’araldo intorno
Degli usati color si fece adorno.
xxiv
Così quei due, con Filigante insieme
Giovin d’alto valore e di gran fede,
Che in abito assai vile il carro preme,
E i tiranti corsier gastiga e fiede,
Vanno oltra pur, come chi spera e teme
Di ciò che a lui vicino incontra o vede,
In fin che già del fosso che circonda
Il nemico oste lor sono alla sponda.
xxv
Ivi trovan, ch’a caso su ’l mattino
Va il campo visitando il pio Tristano,
Come la mandra suol fido mastino,
A cui il lupo non sia molto lontano;
Riguardagli esso e poi ch’è più vicino,
Vede il buon vecchio re ch’alza la mano
D’amicizia per segno e sceso in terra
Domanda pace alla perduta guerra.
xxvi
Dicendo: O invitto, altero e chiaro germe
Del più onorato tronco che mai fusse,
Umil ti prego per le ornate e ferme
Virtù del sacro tuo Meliadusse,
Che non voglia oggi alle fortune inferme,
Ch’al lor più basso fine il ciel condusse,
Giunger più peso e vi sovvegna ancora
Del re Vagorre che fu vostro ognora.
xxvii
Quand’ode il buon Tristan che questo sia
Vagorre, ch’onorò mai sempre quale
Padre e signor, che in bassa compagnia
Lì si mostrava a prigioniero eguale,
L’abbraccia e dice: E quale avversa e ria
Sorte al vostro valor tarpate ha l’ale?
Che di sì altero grado oggi vi veggio
D’ogni servo più umil venuto al peggio?
xxviii
Gli risponde Vagorre: Non mie colpe,
Nè mio grave tentar soverchie imprese,
Ma il troppo amor ch’io porto altrui m’incolpe,
E la pia carità pura e cortese
Verso il miser Clodasso e me ne scolpe
La fè sincera e ’l gran desio ch’accese
Gli spirti in me di non lassarlo mai,
Ma seco aver comune il bene e i guai.
xxix
E pregato da lui vengo in suo nome
A pregar Lancilotto che gli renda
Morti il genero e ’l figlio e gravi some
D’oro e di gemme per mercè si prenda,
S’a voi piace il lassarme e dirmi come
In ver lui più securo il passo stenda,
E supplicarlo ancor, s’ad uopo vegna,
Che svegli la pietà che in esso regna.
xxx
Non potè senza lagrime a lui dire
Il famoso Tristan: Padre onorato
Non sol potrete voi securo gire,
Ove per chiaro amor sete inviato,
Ma voglio insieme anch’io con voi venire,
In fin ch’al padiglion v’aggia recato
Del nobil Lancilotto, dov’io spero,
Che ’l vostro bel desio si compia intero.
xxxi
Così detto comanda che da’ suoi
Gli sia libero, aperto e largo il varco,
Ove esso il primo e gli vien dietro poi
Ideo col carro prezioso carco;
Giungon senza trovar chi ’l passo annoi,
Ove il gran destruttor di quei d’Avarco
Sotto l’abergo suo soletto stasse,
Con le pie luci ancor languide e basse.
xxxii
Il qual tosto che scorge il suo Tristano,
Con dolce salutar vicin gli accorre,
Abbraccia il collo e stringeli la mano,
E ’l face in ricco seggio appo sè porre,
Quand’ei gli mostra in abito sì strano,
E ’n lugubre dolore il re Vagorre,
Dicendo: Ecco cui manda altrui pietade
A trovar voi per sì dubbiose strade.
xxxiii
Quando affisa la vista il cavaliero,
E l’onorato re ben raffigura,
Surge in piè riverente e poi qual fero
Destino avverso o quale aspra ventura
Qui conduce or, dicea, l’unico e vero
Mio padre antico, in cui posi ogni cura
Di servir sempre, avvegna che la sorte
N’ha date al guerreggiar contrarie scorte?
xxxiv
Indi in più degno seggio collocato,
Segue oltra: Or che comanda il mio signore?
Al qual nulla da me sarà negato,
E sia la vita ancor fuor che l’onore,
Che d’alcun dritto amico domandato
Non fu già mai che no ’l consente il core,
Ch’esser non può, che di virtù ripieno,
Poi che candido amor riceve in seno.
xxxv
Allora il vecchio re, poi che l’ha stretto
Al collo intorno, come pio figliuolo,
Comincia: O cavalier per gloria eletto
Del nostro mondo da chi regge il polo,
Non desir di mio ben, nè proprio affetto
D’alcun congiunto, disarmato e solo
In tra l’arme nemiche m’ha condotto
Al cospetto venir di Lancilotto;
xxxvi
Ma la vera pietà ch’aver si deve
Degli avversari ancor, non pur de’ suoi;
Quando oppressi veggiam da peso greve,
E ’l potergli alleggiar sia posto in noi;
E tanto più s’all’affannarsi breve
Lunga e ferma speranza segua poi,
Come a me avvien, che ’n pochi passi vegno
A chi di cortesia sostiene il regno:
xxxvii
E che non ave a schivo l’ascoltare,
Chi da’ nemici suoi preghiere porti;
Nè che i duri nemici soglia odiare
Poi che gli ha in suo poter battuti o morti,
Ma le fortune afflitte consolare,
Posti tutti in oblio gli oltraggi e i torti,
Stimando che ’l perdono al vincitore
Più d’ogn’altra vendetta apporti onore.
xxxviii
Per tai cagioni adunque e ’n questa speme
Negar non volli al misero Clodasso,
Peggio or che morto tal dolore il preme,
D’ogni ben nudo e di speranza casso,
Di voi pregar per le virtù supreme,
Per l’alto cor che già mai sazio o lasso
Non fu di bene oprar che ’n voi dimora
Più che in altro mortal fiorisse ancora;
xxxix
Che vi piaccia or ch’avete a pien compito
Quanto il dever chiedea del chiaro amico,
Che del figlio e del genero finito
Sia con la morte loro ogni odio antico;
E non rimangano esca al nudo lito
D’empi cani e di corvi e del nemico
Stuol privato quaggiù del lume interno
Per così degna mano indegno scherno.
xl
Ma consentir vogliate che in Avarco,
Lodando sovra il cielo il vostro nome,
Io torni al miserel, ch’attende, carco
Delle due care e sventurate some;
E che invece prendiate il ricco incarco,
Che premer gli solea le bianche chiome,
La corona, lo scettro e l’aurea veste,
Sì che segno real più non gli reste.
xli
E non vi sembre un gioco, altero figlio,
Ch’un sì famoso re sia fatto umile
A chi del sangue suo veggia vermiglio,
All’orgoglioso odiar cangiando stile;
E chi l’arme d’Arturo e ’l Franco giglio
D’aver seco altra volta tenne a vile,
Ora a voi mande in semplici parole
Con tai doni a comprar la morta prole.
xlii
Qui si tacque egli e Lancilotto allora
Quanto può reverente a lui risponde:
La persona degnissima ch’onora
Quanto abbraccia ocean con le largh’onde,
Di Vagorre il mio re possente fora
Con l’aspetto divin che ’l ciel le ’nfonde,
D’aspra tigre acquetar lo sdegno e l’ira,
Quando i morti figliuoi presso rimira.
xliii
E ciò tacendo pur, che adunque puote
In me sempre di lui figliuolo e servo,
Co’ gran ricordi e con le dolci note,
Che fisse e sculte nella mente servo?
E che mercè delle superne rote
Non son tanto però crudo e protervo
Ch’io ricerchi in altrui più dura sorte
Poi che l’ha il fato suo condotto a morte.
xliv
E s’or contro a Clodino e Segurano
E molti altri gran duci mi mostrai
Spietato forse, poi che qui lontano
Così morti dal campo gli portai;
Scusimi quello amor, che fu sovrano
A tutti altri veduti o scritti mai,
Verso il mio Galealto, che m’indusse
A far ch’esso di loro ornato fusse.
xlv
Ma il fei con quello onor, come si vede,
Ch’a sì gran duci e regi convenia,
Tutti coperti d’or la fronte e ’l piede,
Qual potrebbe adoprar madre più pia;
Nè del nudo terreno avean la sede,
Ma di serici drappi e gli fei pria
Purgar le piaghe fuor con l’onde chiare,
E liquor preziosi entro versare.
xlvi
Et or ch’ogni dever sento appagato,
In quanto è il mio poter, col caro amico,
Lieto mi fò da tale esser pregato
Di render quelli al suo signore antico;
E sarà l’uno e l’altro accompagnato
Da dieci ancor, che ’l suo destin nemico
Non ebber men di lor, quando al ciel piacque
Lassarmi insanguinar dell’Euro l’acque.
xlvii
Lo scettro e la corona e l’aurea vesta,
Che per prezzo di lor portate avete,
Sian di Clodasso e sappia che in me resta
Di vero onor, non guadagno, sete;
E se la patria mia nuda e funesta
Fece a gran torto, ditegli ch’or miete
Della sememta ria l’amaro frutto,
Che nullo è ancor presso al futuro lutto.
xlviii
Come ha così parlato, Eleno appella,
E gli dice: Ordinate ch’a noi vegna
De’ più vaghi destrier che portin sella,
Tra quanti son de’ miei schiera più degna;
Ornata sì, ma non si scorga in ella
Altra che di dolor funebre insegna;
Dodici carri poi vengan con essa,
Che mostrin nel color la doglia istessa.
xlix
E ciscun di quei duci, onde la palma
Mi donò il ciel, la sacra sua mercede,
Sia d’essi ad uno ad un famosa salma,
Coperto, come sta, la fronte e ’l piede;
A i quai, anco potessi render l’alma
Col voler di chi a lor la tolse e diede,
E ritornare in dolci i giorni rei,
Con questa istessa man certo il farei.
l
Non si ritenne Eleno, ma in un punto
A quanto comandò l’ordine ha dato;
Ch’ad ogni duo corsieri un carro aggiunto
Ha innanzi a Lancilotto appresentato;
Il qual di pietà e di dolor compunto
In sè piangendo del mortale stato,
Secondo il disegnar gli fa disporre,
Poi gli loca in poter del re Vagorre.
li
Dicendo: Prima a voi, padre famoso,
Oltra ’l divino onor che a ciò ne sprona,
Il presente crudele e doloroso,
Per aprir quant’io v’ami, oggi si dona;
E per mostrarmi poi largo e pietoso
Verso l’avara e perfida corona
Del rio Clodasso e che ’n vecchiezza impare
Come si den l’offese vendicare.
lii
E ’n fin che ’l dì duodecimo a venire,
Ch’ora incomincierà, non sia compito,
Prometto non lassar di fuore uscire
Arme contra di voi dal nostro lito,
Perchè in secura pace seppellire
Possa i duci onorati e sia fornito
L’ultimo uficio in lor quaggiù richiesto
Verso i morti figliuoi dal padre mesto.
liii
Così detto l’abbraccia ed esso allegro
Del ricevuto dono a lui risponde:
Figliuolo io prego il ciel che vivo e ’ntegro
Versi ogni bene in voi che ’n lui s’asconde,
Nè l’ingombre pensier noioso ed egro,
Ma qual platan felice lungo l’onde
Allarghi e innalzi i chiari onor di voi,
Ch’avanzin quanti fur maggiori eroi.
liv
Indi baciato a lui l’invitta mano,
Con le some bramate si diparte;
E via volando, ancora era lontano,
Quando quei, che rimiran d’alta parte,
Tosto il conoscon, che calcava il piano,
Ove l’Euro con l’onde i liti parte;
E ben ponno stimar che seco avea
Il domandato don che s’attendea.
lv
Onde il popol minor più pronto e leve
Varca l’onda d’Oron fuor della porta,
E con voci di duol noioso e greve
Al funesto venir s’è fatto scorta;
E tanto va crescendo in tempo breve,
Ch’all’andar de i destrier tardanza porta;
Pur Vagorre, spronando quanto puote
Fa largo il gire alle infiammate ruote.
lvi
Or poi che dentro al fin l’alma cittade
Entrati son, da’ suoi vicin ristretti,
Di donne e vecchierei trovan le strade
Colme e l’ampie fenestre e gli alti tetti;
Che in triste note invocan la pietade
Degli dei lor per aiutargli eletti;
E chi condanna in ciò de’ suoi la colpa,
Chi ’l re medesmo e chi fortuna incolpa.
lvii
Giunti poscia alla regia, il gran romore
In più doppi s’innalza e vola al cielo;
Chè ’l vecchio re piangendo esce di fuore
Coperto in sen di ceneroso velo;
E del più ricco carro, ove il colore
Cangia l’aurato pin, tratto dal zelo,
Poi che l’esser tropp’alto il figlio impaccia,
Le ruote e i legni il miserello abbraccia.
lviii
Nè per dolce pregare indi si svolge
Di chi ’l volesse in alto riportare;
Che con men forza polipo s’avvolge
In saldo scoglio quando frange il mare;
E ’n verso il ciel le crude note volge,
Dicendo: O stelle rie, perchè furare
Mi voleste anco quel ch’al duro fato
De’ pegni miei più caro era avanzato?
lix
E se ’l voleste pur, perchè lassarme
In tale età canuta e sbigottita?
Perchè non consentir, crude, privarme
Innanzi al suo partir di questa vita?
Perchè di Lancilotto le fere arme
Non mi potean per via corta e spedita,
Troppo lor nota omai del nostro sangue,
Nel dì stesso che lui, rendere esangue?
lx
Così dicea; ma poi che ’n questi e molti
Tristi altri detti fu sfogato in parte,
Diè loco al fin che da quei seggi tolti
Fur riportati i morti in larga parte,
E sovra letti splendidi raccolti,
Ov’eran rose e violette sparte,
E ’n tra mille odorati e sacri fumi
Rilucea l’aria d’infiniti lumi.
lxi
Ivi all’uso di lor locati intorno
Fur molti instrutti del funereo canto,
I quai con modo di tristezza adorno
Diero il principio al doloroso pianto;
Gli altri restando in tacito soggiorno
Sol co i sospir gli accompagnaro alquanto;
Ma doppo un breve star, carca di pene
L’afflitta Claudiana innanzi viene;
lxii
Discinta e scalza in rozzo abito oscuro,
Di lagrime bagnata e l’auree chiome
Su ’l collo sparse dell’avorio puro
Eran fatte neglette e ’nculte some;
E con alto gridar doglioso e duro
Segurano abbracciando dice: Or come
Ti soffrì il cor già mai, dolce mio sposo,
D’esser ne’ danni miei tanto animoso?
lxiii
Non vi sovvenne, oimè, quando partiste,
Partiste, oimè, per non tornar più vivo
Chè queste luci lagrimose e triste
Vedeste e questo vel d’anima privo,
Che con mille impromesse consentiste
D’esser per amor mio quel tempo schivo
Di gloria marzial, per non turbare
Chi più che ’l vostro cor diceste amare?
lxiv
Non vi sovvenne, oimè, ch’io resterei
Col buon frutto di voi, ch’ascoso porto,
Trofeo de’ Franchi e de’ Britanni rei,
Senza soccorso, oimè, senza conforto?
Ch’a pena senza voi porrian gli dei
Condurmi, ahi lassa, in sì securo porto,
Che di mille atrocissime tempeste
Col futuro figliuol preda non reste.
lxv
Or non pensaste voi con qual periglio
Rimanga ogni smarrita vedovella,
Di sostegno nudata e di consiglio,
Ov’è più ad uopo, nell’età novella?
Poi già sposa di tal, ch’aggia vermiglio
Il terren fatto in questa parte e ’n quella
Di sì gran cavalier, di tanti eroi,
I cui figli e congiunti odiano or noi?
lxvi
Ma il maggior danno mio fosse pur questo,
Che di tosto morir sarei contenta;
Ma il viver’oltra voi grave e funesto
Assai più d’altra morte mi tormenta;
Ben giace in questa man seguirvi presto,
Chè da lei posso aver la vita spenta;
Ma del vostro figliuol pietà l’affrena,
Che dell’altrui fallir non porti pena.
lxvii
Rimarrò dunque viva, in fin ch’io mostre
Al buon frutto di voi l’umana luce,
Sì ch’al mondo per me le glorie vostre
Non restin senza erede e senza duce;
Poi scorgendo il cammin le Parche nostre,
Verrò nel quinto cielo, ove riluce
Vostra alma invitta in onorata parte,
Nel grembo assisa del superno Marte.
lxviii
Ma perchè m’ha negato il duro cielo
L’esser con voi nel trapassare insieme?
Ch’al men v’avessi in amoroso zelo
Gli occhi composti, ch’atra notte preme;
E ’l da sezzo spirar tratto dal gielo
In sen raccolto con le labbra estreme;
E i detti ultimi vostri uditi avessi
Da rimanerme in cor poi sempre impressi.
lxix
Così dicendo in lagrime e sospiri
In singulti amarissimi si versa,
E con l’unghie spietate in larghi giri
La bella fronte avea di sangue aspersa;
Indi per raddoppiar gli aspri martiri,
Al misero Clodin ratta conversa,
Gli cinge al collo le nudate braccia,
Come troncone o muro edera allaccia.
lxx
Dicendo: O mio dolcissimo germano,
Che di tanti il miglior rimaso m’era,
Perchè col mio famoso Segurano
Ricercaste la notte innanzi sera?
Perchè ascoltaste, o miserello, in vano
De’ due parenti, oimè, la voce vera,
Che troppo era il valor giovine e ’ndotto
Per opporse con l’arme a Lancilotto?
lxxi
Or come il rimembrar, che sì gran regno,
E sì possente e bel del nostro Avarco
Non avea, morto voi, guida o sostegno,
Non vi fè della vita esser più parco?
Pur vedevate omai vicino al segno
Il vecchio padre dell’estremo varco,
Doppo il qual, doppo voi, doppo il mio sposo
Tolto n’è lo sperar non che ’l riposo.
lxxii
Ma non l’aspra fortuna contro a voi,
Che vi godete in ciel la pace vera,
Sfogò tutto il velen; ma contro a noi,
Di cui cruda lassò la vita intera;
Per farne preda e scherno esser da poi
Dell’empia gente scelerata e fera,
E render queste mura eterno gioco
Degli avversari suoi tra sangue e foco.
lxxiii
Avria seguito ancor, ma d’indi tolta
Fu di vecchie matrone e di donzelle,
Ch’erano intono a lei, da schiera folta,
Con dolce forza e placide favelle;
Ma non men triste della gente accolta
Empion l’orecchie già voci novelle;
Chè la pia madre, l’infelice Albina,
Con dure note al figlio s’avvicina.
lxxiv
Che co i canuti crin sovra le spalle
Sciolti ella ancora in dolorosi giri,
Alle voci, alle strida aperto il calle,
A i singulti, alle lagrime, a i sospiri,
Menada appar, che nella Frigia valle
Di Berecintia sua la rabbia spiri;
E cinta l’alma d’importabil duolo,
Stringe affannosa il misero figliuolo.
lxxv
Dicendo: O mio dolcissimo Clodino,
Di tanti altri già figli a me più caro,
Ch’assai di qua dal natural confino
M’ha tolti, ahi lassa, il crudo fato avaro;
Per man di quel crudel, che ’l rio destino
Creato ha solo al nostro sangue amaro;
Chi sovra la Tamigia e chi su l’Era,
Chi dove il volse la sua sorte fera.
lxxvi
Ma voi che già il primier di tutti foste,
Che per mio sol tormento generai,
Medicaste vivendo ognor l’imposte
Piaghe di loro e gl’infiniti guai;
Perchè mai sempre in voi chiuse e riposte
Le mie salde speranze collocai;
E col voi sol mirare, in dolce oblio
Cadeva ogni pensier doglioso e rio.
lxxvii
Or dove debb’io più volgere, ahi lassa,
Gli occhi o la mente ad ingannarmi almeno?
D’ogni conforto e di sostegno cassa
Ritrovandomi, oimè, voi tale in seno?
E per mia maggior pena anco mi lassa
La morte al mondo d’ogni tosco pieno,
E fa contra l’usanza che ’l dolore,
Ch’ei non possa mancar sostiene il core.
lxxviii
Qui tacque alquanto e poi novellamente
Rabbracciando il figliuol doppia le strida;
Indi ch’a Seguran volge la mente,
Altra viva pietà ver lui la guida;
Lo stringe e dice: O della nostra gente
Sola ferma speranza e scorta fida,
In quell’uopo maggior ch’avem di voi,
Quale stella crudel v’ha tolto a noi?
lxxix
Ov’or ci affiderem senza la mano,
Che tenea lunge altrui da queste mura?
E senza il gran valor di Segurano
Come giace or fra noi cosa sicura?
Deh perchè dal rio seme del re Bano
Non v’aveste l’altr’ier più larga cura?
Perchè non preponeste all’ardir vostro
Della sposa il contento e ’l viver nostro?
lxxx
Non si spegnea per rifuggir quell’empio
La fiamma antica della vostra gloria,
Nè si potea per un contrario essempio
Scurar d’altri sì chiari la memoria;
Ma ben sovra di noi mortale scempio
Cade e sovra i nemici alta vittoria
Dal cercar troppo onor che mal conviene
A chi l’esser di molti in sè ritiene.
lxxxi
Nè senza il vostro ardir forse saria
Postosi in questa guisa a tal periglio
Quel, che più che le luci e l’alma mia
Amerò sempre, il mio famoso figlio;
Che seguendo di voi l’altera via,
Fece il ferro d’altrui di sè vermiglio;
Così doppio apportò danno e dolore
Il gran vostro ostinato e ’nvitto core.
lxxxii
Così diceva ancor, ma la trist’alma
Già di vigor mancando, avvinta e frale
Cadde l’afflitta vecchia immobil salma
Del gener morto e respirar non vale;
L’altre donne d’intorno palma a palma
Battendo delle man, grido mortale
Spargean per la gran loggia, che durato
Fora infino alla notte in tale stato;
lxxxiii
Ma con molti altri il saggio re vagorre,
Ch’a ciò ch’era da far l’ordine impone,
Fa la vecchia regina indi ritorre,
E sovra oscuro letto la ripone;
Così fa Claudiana, a cui soccorre
Con ricordi paterni e con ragione,
Dicendo: Non conviene a nobil core
Darsi in preda soverchia del dolore.
lxxxiv
E vi dee sovvenir, che fuste sposa
Di chi d’ogni valor portò l’insegna,
E cercar di far fede in ogni cosa,
Che di tal cavalier nasceste degna;
Il dimostrarsi trista e dolorosa,
In fin dove arrivar virtude insegna,
Merta lode d’altrui, ma il troppo poi
È da vil femminella e non da voi.
lxxxv
Così dicendo, a ricercar s’invia
Il vecchio afflitto e misero Clodasso,
E ’l trova ascoso in alto, che fuggia
La turba, il mondo e se medesmo lasso,
E gli parla: Signor, forse saria
Il miglior di mandar con ratto passo
Dentro al frondoso bosco aguti ferri,
Per querce ivi atterrar, frassini e cerri;
lxxxvi
E tutto apparechiar, chè nell’aurora,
Cominciamo a drizzar le sacre pire
Su la piazza real; chè ogn’altra fora
Angusta e ’l fiammeggiar porria impedire
Oprando sì che non trapasse l’ora
Di poter poi le ceneri coprire,
E far quanto convien pria che ritorni
Al fine il sol de i nostri dati giorni.
lxxxvii
Però che Lancilotto al partir mio,
Oltra ogni cortesia che volle usarme,
Mi promise la fè, chiamando Dio,
Nel duodecimo dì non muover’arme,
Per darne spazio al santo uficio pio
Dovuto a’ morti ed al funereo carme,
Et io no ’l refutai; però mi pare,
Che si debba al bisogno il tempo usare.
lxxxviii
Risponde il doloroso: O dolce amico,
Fate pur senza me quanto v’aggrada;
Che l’angoscia non lassa al senno antico
Di partirme da lei trovare strada;
Ma il vostro disegnar confermo e dico,
Che con passo sollecito si vada
A dispogliar la selva più vicina,
E dar poi loco alla pietà divina.
lxxxix
Non ritarda Vagorre e tosto chiama
Tutto il popol d’Avarco in ogni loco,
Dicendo: Chi ’l suo re, chi ’l dever’ama,
Porti l’esca silvestre al sacro foco,
Ove i chiari signor d’eterna fama
Per difesa di voi curar sì poco
Le proprie vite, che abbattute e spente
Rimaser lasse alla nemica gente.
xc
Nè tema alcun l’insidie de’ Britanni,
Perchè di Lancilotto ebb’io la fede,
Che sicuri viviam d’onte e di danni
In fin che ’l sol duodecimo non riede.
Non vi rimase alcun di robusti anni,
Ch’al suo dolce pregar subito il piede
Non rivolgesse a i boschi men lontani,
De’ suoi ferri miglior carche le mani.
xci
Chi possente caval, chi carro adduce,
Chi di se stesso ancor grava le spalle;
E ’n fin che ’l nono dì con l’alba luce
Si sentìo risonar d’Euro ogni valle,
Chè chi torna a pigliar, chi riconduce
Gli arbori indietro per l’istesso calle,
Chi con la scure sua la selva atterra,
Chi l’incarco d’altrui corregge e serra.
xcii
Poi che ’l decimo giorno in cielo apparse,
Sopra l’instrutte pire si portaro
I dodici guerrieri, ove fur sparse
Molte strida più gravi e pianto amaro,
Mentre il sole splendeo; ma poi che scarse
Fur di lume le piagge e si mostraro
Le stelle aperte in cielo, in più d’un loco
Fu d’esse acceso il sacro santo foco.
xciii
E Claudiana, ov’era Segurano,
Le biondissime sue famose chiome
Tolte al capo real, di propria mano
Esser fè, lassa, preziose some;
Poscia in suono alto, che s’udìa lontano,
Richiamando tre volte il chiaro nome,
Disse: Del nostro amor vi risovvegna
Fin ch’a tornar con voi mi senta degna.
xciv
Ma il feroce Vulcan già verso il cielo
Le cornute sue fiamme ravvolgea,
E ’l silenzio, l’umore, il fosco e ’l gielo
Dalle notturne tenebre scotea,
Nè men, che soglia il bel signor di Delo,
Avarco intorno di splendore empiea;
Poi compita la notte, in lui s’ammorza
All’arrivar del dì l’esca e la forza.
xcv
Coi generosi via ciascuno allora,
Ove ha il più caro pegno, si raccoglie,
Ed al picciol calor, che vive ancora,
Con largo riversar gli spirti toglie;
La vecchia Albina in quello in cui dimora
Il suo caro Clodin, l’anfora scioglie;
La sua figlia all’Iberno: agli altri poi
I più congiunti van di tutti i suoi.
xcvi
Lì di lagrime pie bagnando i volti,
Le nude ossa, e le ceneri trovate,
In delicati lin di seta avvolti
Hanno in più saldi nodi riserrate:
Alle quai poscia, in vasi aurati e colti,
Ove non spiri l’aria, collocate,
Dier di lucenti marmi altero albergo,
Sculto di lodi lor la fronte, e ’l tergo.
FINE DELL’AVARCHIDE