Biografie dei consiglieri comunali di Roma/Mario Massimo
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MASSIMO DUCA MARIO
Consigliere Municipale
Bella è sempre la lode anche ai vivi quando s’innalzano dalla comune schiera del volgo, o per altezza di alcuna opera o per eccellenza di ufficio vengono in nominanza, ma più bella e splendida è quella che si sparge, siccome un fiore purissimo caduto dai cieli, sul sepolcro dei trapassati, che stamparono di se medesimi orme grandissime sulla terra, e il nome lasciarono onorato e caro. — Appena un insigne nomo è sceso nel sepolcro, da lui fugge la nera calunnia, il livido malignare, la critica feroce ed assurda, le invidie rabbiose, che i di lui giorni anelavano ecclissare, perchè di una luce troppo serena splendevano, e il giusto giudicio si fa aperto e la fama si purifica, e il nome rimane perpetuamente in onore. — È perciò che fu detto «post mortem lauda» chè purtroppo la tristizia degli uomini il più spesso fa guerra a coloro, che viventi la vita illustrano con altezza di opere, ed è non rara cagione perchè la di loro esistenza innanzi sera sia spenta, ed allora la guerra cessando, il merito perseguitato in tutta la sua grandezza si rivela. —
E dopoché dei cittadini viventi sino ad ora nelle nostre biografiche pubblicazioni discorremmo, siccome quelli che all’ufficio di Consiglieri comunali furono eletti, oggi per la prima volta ci corre debito scrivere di un uomo lustre, che quell’ufficio anco sostenne, e che la morte, questa tiranna imperatrice del mondo, involava alla vita nel comune compianto. —
Il Duca Mario Massimo nasceva da nobilissima stirpe nel giorno 5 giugno 1808. —
Coloro ai quali sorrise fortuna di nascere iu mezzo alle ricchezze ed agli agi, il più di sovente al diletto dogli ozi si abbandonano, e in piume dorate si giacciono, nè il cuore educano a teneri sensi e gentili, nè la mente a forti e severi studi, onde passano sopra la terra come aride fronde d’albero inutile, e cadono senza profumo e senza frutto nel mare eterno della oscura oblivione. —
Ma il Duca Massimo dello ricchezze si giovò per salire in onore facendosi sgabello delle più elette virtù. — E di vero dell’età giovanissimo rivelò precocità d’ingegno, e forte amore agli studi, e si diè perciò di tutta lena ad istruire sua mente e a comporre il suo cuore ad altissimi sensi. — Alle scienze filosofiche e matematiche egli sentì inclinazione grandissima, e nelle medesime riuscì eccellente, chè nel disputare di filosofia fu insuperabile, e in ogni soluzione matematica pronto e nelle teoriche disquisizioni senza pari. — Nella Romana Università egli studiando, era non solo dai professori insegnanti, ma dai suoi compagni con distiuta estimazione riguardato, chè il suo nome suonava splendidissimo per le virtù dell’ingegno come per la compitezza dell’animo. — E di fatti, cosa rarissima in uomini che sortirono nobiltà e ricchezze, riportava egli in quelle scienze la laurea ad honorem, il che prova quanto egli fosse nelle medesime in eccellenza. — Fu ricercato quindi da personaggi dottissimi, che secolui trovavano pascolo dilettoso alle scientifiche elucubrazioni. — Lo prese di poi vaghezza di conoscere astronomia e a quello studio con particolare affezione si dedicò, onde stabilì eziandio un osservatorio nel suo palazzo all’Ara-Coeli, e la profondità, la immensità e la bellezza di quella scienza così lo trasportava che pareagli vivere una vita di cielo, una vita che lo avvicinava al fattore supremo dell’universo, al creatore di quelle meraviglie, cui ogni mortale riguarda con attonito sguardo, e sente che nel mistero di tutte quelle cose bolle sta un’arcana onnipotenza, ed è costretto adorarla. —
La severità degli studi non mitigava in lui la giovialità dell’animo, chè come era grave, acuto e profondo negli scientifici ragionari, così era lieto, piacevole e di un tratto gentile ed affabilissimo nei conversari. —
Il cuore ebbe educato ad elevato sentire, ed arse del vero amore di patria, del bene della umanità. —
Mentre la notte del sepolcro copriva il pontificato di Gregorio XVI, sorgeva raggiante di novella luce il papa Pio IX, al quale inneggiavano tutte le genti italiane, imperocché era salutato il redentore d’Italia, il Sacerdote Sommo cui le veci di Dio erano degnamente affidate, l’Uomo che era nella aspettazione dei secoli per consolazione e felicità dei popoli. — Benedice egli alla bandiera della nazione, e la santa sua voce manda il grido di liberare la patria, e a quel grido rispondono tutti i valorosi d’Italia, tutti gli antichi soldati delle antiche battaglie, tutti i giovani della nuova generazione, e corrono all’armi. Lo straniero abbandona già il suolo italiano, e volge in fuga. — La guerra contro di lui bandita è santa, è religiosa, è solenne, perchè è il Vicario di Dio, è Pio IX che la vuole per la libertà e indipendenza del proprio paese. —
Ma era altrimenti fisso nei destini d’Italia, chè gli avvenimenti mutaronsi, e la prova di nuove sventure doveva sostenere la patria. — Pio Nono ritrae il mandato di guerra; il popolo fremente d’ira non s’arresta, e come rombo di mare tempestoso minaccia travolgere tutto in estremo naufragio — In mezzo a tanto tumulto di passione politica, fuggitosi Pio Nono a Gaeta, noi vediamo il Duca Massimo intender sempre al bene di Roma, alla felicità della patria — E come uomo di profondo accorgimento, di gran tatto politico, e di alta intelligenza ascende ai supremi uffici dello Stato dapprima siccome Ministro dell’Interno poi delle Finanze, o quivi si parve in bella evidenza la sua attitudine al governo della cosa pubblica, e tutti pose in opra i suoi sforzi a conservare l’ordine, la tranquillità, la prosperità cittadina, e a condurre il popolo a quella calma, senza la quale il riordinamento dello Stato è impossibile — Ma nuovi perturbamenti succedevansi e nel palazzo della Cancelleria compievasi la funesta tragedia di Pellegrino Rossi. — Il Duca Massimo, che era di quel grand’uomo amicissimo appena seppe che il pugnale dell’assassino aveva spenta la nobile e preziosa vita, stretto da immenso dolore e nell’istesso tempo condotto da magnanima ira, abbandonava il suolo di Roma, chè credè essere indegna cosa di spirito generoso rimanersi sovra un teatro di tradigioni, e d’insani tumulti, e doversi esecrare con eternità di odio ogni misfatto politico che spegnendo una vita non apporta la salute della patria. — E che la uccisione miseranda del Rossi non apportasse la salvezza della patria, ma piuttosto ne affrettasse la rovina non è qui a dimostrarsi, chè stà aperta la storia, la quale chiaramente lo svela.
Il Duca Massimo fu Presidente di tutte le commissioni, e Generale della Guardia Civica, che fortemente prediligeva. — In ogni carica, in ogni ufficio, che sostenne spiegò tutta sua cura, tutta sua energia, e meritò onori. —
Partitosi di Roma stabilì sua dimora in Parigi, ove fu vago di studiare nuovi uomini e nuove cose. —
Nella sua Roma intanto proclamatosi il governo della Repubblica gli avvenimenti precipitavano giù per la loro china fatale e coll’intervento francese e col ritorno di Pio IX sul seggio pontificio, chiudevasi il dramma politico.
E poichè l’amore del luogo natio spronava il Duca Massimo e la dolcezza di ritrovarsi nei patrii lari e di rivedere persone care, insieme alla dilettissima sua sposa Maria Ippolita nata Boncompagni-Ludovisi Principessa di Piombino, donna pia, gentile, affettuosissima, ornata di ogni più bella virtù della monte e del cuore, che gli fu sempre fi la ed amorosa compagna, si decise a far ritorno in Roma — Epperò accogliendo l’amnistia del pontefice rientrava nella sua terra natale con la più bella festa dell’anima, con la più soave compiacenza di quanti il conoscevano, chè se taluno faccagli colpa del suo ritorno a Roma accettando la grazia del Papa, noi crediamo invece andare grandemente errati coloro, i quali misurano a falsa stregua l’onesto e sapiente cittadino, l’uomo che unicamente al suolo che lo vide nascere, e alla patria che gli diede Iddio l’ingegno consacra, c sua opera rendo utile. — E di vero taluni alla larva di liberale riguardano, e soltanto applaudono a quelli che sanno meglio sostener le apparenze, e lo simulazioni politiche adoperare, e col vacuo suono della voce, piuttostochò colla potenza dell’azione, con hi grandezza dell’ingegno, con le illustri virtù esercitarsi. — No, non fu il Duca Massimo uno di quei liberali, di che il nostro Giusti con il linguaggio di una satira eterna parla nel brindisi di Girella, no, non fu di quelli che dicono
Io nelle scosse | Da dieci o dodici | Rubando lampade, |
Delle sommosse, | Coccarde in tasca. | Cristi e pianete, |
Tenni, per ancora | Se cadde il prete | Case e poderi |
D’ogni burrasca. | Io feci l'ateo. | Di Monasteri. |
Egli non si diè a sbraitare vanamente, ad indossare la veste politica a più colori, ad inchinarsi dinanzi a taluni burbanzosi, che poverissimi della mento avean fatto sgabello di ogni vituperio, di ogni più brutta vergogna per salir sublime. — Noi vediamo il Duca Massimo tornato in Roma non ad altro dedicarsi clic all’amministrazione pubblica, imperocchè uomo di grandi cognizioni o di lunga sperienza ben sapeva che la felicità di uno Stato dipende dal prosperamento delle finanze, dalla buona amministrazione, dall’onesto ordinamento della cosa pubblica, e che a questo edificio l’onesto e sapiente uomo amante del proprio paese dee portare la pietra della sua intelligenza. — Ogni partito, ogni classe di cittadini, lo ebbe in grandissima stima e fece reverenza al suo ingegno e andò da tutti lodato per la rara abilità amministrativa e per la onestà senza pari, che egli rivelò nei diversi incarichi, cui fu chiamato. —
Appena col 20 settembre 1870 si stabiliva in Roma un nuovo ordine di cose dal governo italiano, il Duca Massimo era dai propri concittadini mandato al seggio dei Consiglieri comunali in Campidoglio. — E qui si parve sempre meglio il di lui amore al proprio paese, la di lui eccellenza nell’arte amministrativa, il di lui profondo sapere. — Imperocchè nel Consigliò erano i suoi discorsi in materia di finanze e di amministrazione ascoltati religiosamente per il mirabile svolgimento, con chiarezza di sceltissimo eloquio, di tutto quanto condur doveva a conservare il comunale tesoro e nell’istesso tempo a contentare le masse popolari, e utilissima fu sua opra nel far parte di tutte le Commissioni per la revisione dei bilanci, e nell’essere uno dei membri della deputazione provinciale e di quella dei pubblici spettacoli. E quando siccome Commissario delle ferrovie romane, fu inviato a Parigi pronunciò quivi sopra quel ramo un discorso, che rivelò sempre meglio le sue cognizioni in ogni materia, onde suonò altissima, e pubblica la lode anche presso straniera nazione. —
Fu egli Direttore della Cassa di Risparmio, e in questo nobilissimo Istituto fu di tanta utilità che ne rimase perpetuamente caro il ricordo, e l’ordine, la regolarità e l’esattezza dell’amministrazione, che vi stabilì, era cosa mirabilissima, e seppe quindi la prosperità procurarne, per il che fonte divenne di belle fortune economiche, e di splendidissimi interessi sì pubblici che privati. — E poichè di tutto proposito vi si applicò e vi pose tutti gli sforzi della mente e del cuore, tutte le immense cognizioni che possedeva, tutta la cura più assidua, così si debbe saper mercè all’illustre estinto se quella istituzione sviluppò con largo ed eminente progresso, su incrollabili e nuove fondamenta. — È però che noi lo vedemmo circondato sempre di grata benevolenza, e da molti richiesto ne’ suoi consigli, chè uomo non era- in Roma quanto e più che lui nelle cose amministrative perito, su tutto valevole a dare giudizi, ed apprezzabile sempre ne’ suoi giusti criteri, nelle sue ragionate esposizioni. — «Niuna cosa, disse il Palmieri, sarà mai più degna fra gli uomini che la virtù di chi si esercita per la pubblica e privata utilità.» — E questa virtù seguì sempre il Duca Mario Massimo, chè e nella pubblica e nella privata vita lasciò traccio onorate di se medesimo, perocchè sempre la pubblica e privata utilità ricercò e per essa si esercitò, onde l’amore, la stima, la gloria s’acquistò, e la immatura di lui morte fu cagione di pubblico e privato lutto. — Ei predicò sempre il precetto di un antico filosofo «sia la nostra cura non di vivere, ma di bene ed onestamente vivere. — Sia posto nella vita qualche certo fine, al quale si dirizzino tutti i nostri andamenti. — Ogni nostro errore viene perchè viviamo senza proposto fine, onde i nostri processi sono tenebrosi ed oscuri, non elevati per lucente calle da noi preveduto e certo; anzi piuttosto ci andiamo avvolgendo per vie torte e incerte per modo che spesse volte smarriti, dove sieno diritti i nostri passi ridire non sappiamo» — Ma il Duca Massimo quel precetto avendo di continuo presente, sempre ad un fine dirizzò la sua monte ed il cuore — al pubblico e al privato bene. — Fu pur vigoroso ed erudito scrittore, e su materie di economia, di astronomia, di filosofia, e sopra altri argomenti molti opuscoli egli scrisse, e furono avuti in pregio, e vi lasciò scolpito l’eletto ingegno, l’altissima intelligenza, il tesoro d’infinite cognizioni tratte dai viaggi e dalle quotidiane sperienze della vita. —
Non fu egli mai signoreggiato da vanitose ambizioni, nè cercò mai decorazioni ed onorificenze, che anzi eccitato dal governo ad accettare la nomina di Sindaco ei ricusò sempre, e dalla carica eziandio di Assessore declinò, perciocchè egli diceva importare tali uffici dedicarvisi a tutt’uomo e di tutta lena, onde compiere perfettamente il proprio dovere, e al bene comunale saggiamente provvedere. —
La religione dei suoi padri ebbe in venerazione, non fu mai rinnegatore de’suoi principi, amò gli uomini onesti e sapienti, e fu nemico dei bugiardi ed ipocriti e d’ogni buona virtù manchevoli. —
Nostra penna distendere ancor più si potria in discorrendo dei pregi chiarissimi, e della mente e dell’animo, che tanto distinsero in vita il Duca Mario Massimo, ma basti notare a dimostrare gli alti suoi meriti, come la sua morte quasi repentinamente avvenuta nel maggio del 1873 fu sentita siccome una sventura pubblica, e l’accompagnò al sepolcro l’universale compianto, e la lode che sorge purissima e vera sulle tombe lagrimate coronò la di lui preziosa memoria. — E noi in questa biografica pubblicazione credemmo di porgere un tributo di onoranza all’estinto illustre, nel mentre adempimmo al dovere di presentarne in brevi tratti la vita splendidissima, ahi! troppo presto rapita, ed or sull’avello di lui vorremmo scolpito: — Il Duca Mario Massimo fu dotto, fu onesto, fu seguace della religione degli avi, esempio a coloro che immiseriscono nell’oro l’intelletto ed il cuore, e sono seguaci della religione del blasone, perchè dinanzi alla medesima il più spesso s’inchina la ignavia degli uomini. —
Roma — Novembre 1874.