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Busto Arsizio - Notizie storico statistiche/Parte II/III

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Cap. III

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Parte II - II Parte II - IV
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III.


Governo politico-amministrativo, giudiziario, economico — Onoranza del bue
grasso — Decime — Mercato — Terratico.


Nei tempi più antichi la suprema amministrazione e le cause giudiziali di Busto erano demandate ai magistrati milanesi, poichè i terrieri ricorrevano nella trattazione di esse a Baldizone Stampa che nel 1196 era console di giustizia in Milano1. Infatti già nel secolo XII le terre suggette a Milano erano divise in nove contadi detti di Milano, dell’Ossola, di Stazona od Angera, del Seprio, della Bulgaria, della Martesana, di Lecco, della Bazzana e di Treviglio. Ma, entrando la seconda metà del secolo XIV, erano già queste contee costituite in due vicariati, cioè in quello del Seprio e della Bulgaria2, e in quello della Martesana e Bazzana. Le [p. 176 modifica]terre poi fra Milano e Pavia formavano un altro vicariato, di cui Binasco era il capo luogo (a. 1376), ma non so fin dove si estendesse. Quindi Busto per questa nuova divisione fu suggetto alla giurisdizione del Seprio e della Bulgaria. Se non che, essendo molte le spese e le noje, cui dovevano giornalmente sostenere i Bustesi dinanzi ai giusdicenti di questo vicariato negli affari civili e criminali, il duca di Milano Filippo Maria Visconti, dai borghigiani stessi eccitato, stabilì con decreto del 1.° d’aprile del 14403 (Doc. n.° VII) che il borgo, e la pieve di Olgiale Olona con tutte le terre e cascine poste in essa, dovessero sottostare alla giurisdizione di un podestà che avrebbe fra breve nominato4.

L’officio di tale magistratura, che era la più importante del borgo, consisteva nella giurisdizione civile, e criminale. Poteva costringere i borghigiani a venire in giudizio, liberare i carcerati, ed applicare ai violatori delle leggi qualsivoglia pena pecuniaria e corporale, non esclusa la morte. Se bene il pretore non avesse voto deliberativo nelle adunanze, pure queste non si potevano tenere senza il suo assenso, o di chi ne facesse le veci. Ma, allorchè Busto fu eretto in Contea, il feudatario5 ebbe il diritto di eleggere il pretore, e di confermarlo o rinovarlo alla fine del biennio. [p. 177 modifica]

Quegli, ogni volta che era d’uopo, nominava un Fiscale, che assisteva il pretore nelle cause, criminali, e un Collaterale, dello adparitor, stipendiato dal Commune. Aveva egli inoltre il diritto di locare la carica di notajo del tribunale criminale, ma ai consoli, ed ai consiglieri era riservato lo scegliere il notajo del tribunale civile. Ambedue i notaj assistevano il pretore nel giudicare; il primo di essi registrava le cause criminali il secondo le civili.

Fin dal 1531 il consiglio di Busto era composto di quattro sindaci che chiamavansi consoli, e di quattordici consiglieri ch’erano sempre assistili dal podestà o suo luogotenente. I borghigiani, se bene tutti intervenissero alla deliberazione dei propri affari, pure dovevano stare alle decisioni del consiglio; i quattro consoli poi per dovere del proprio istituto erano tenuti a curare con tutta sollecitudine l’esecuzione dei decreti emanati dal pretore, e di riferirgli, entro un termine prescritto, i delitti commessi in Busto, e nelle terre dipendenti. Indicavano ogni anno ne’ primi di genajo tutti quelli che, per aver oltrepassato i 7 anni, erano colpiti dal censo e dai pesi camerali. Così pure, a tutte le aste, che si tenevano in nome del Commune, i consoli intervenivano su’l luogo co’l cancelliere communale, e facevano riportare il tutto sul libro delle aste. Insomma attendevano ed invigilavano a tutto ciò che toccava il publico interesse, riferendo in consiglio li affari più gravi. I Consoli stavano in carica, un semestre; li altri [p. 178 modifica]consiglieri poi, non si rimovevano dal loro officio se non dopo che avessero coperto il Consolato. Per comporre il Consiglio dei 20, si toglievano da ciascuno dei 4 quartieri del borgo individui, i quali tutti dovevano essere nati in Busto e discendere da’ progenitori che vi, avessero a lungo dimorato. Fra i detti 20 si contavano i consoli stessi, e quattro altri consolari, cioè a dire (come già presso i Romani) uomini avevano sostenuto il consolato. Un’antica consuetudine portava che i consolari rimanessero tra i consiglieri per un semestre, spirato il quale, si escludevano dal consiglio, nè più vi erano ammessi per tutto il prossimo triennio. Quindi, allorchè erano da crearsi nuovi consoli, nei tempi prescritti (al principio di genajo, o di luglio) primieramente si sceglievano quattro borghesi da surrogarsi al consiglio ai consolari, che dovevano rassegnare la cariche. Questi quattro consiglieri venivano letti dai i quartieri del bórgo,cioè uno per quartiere. Allora i consoli proponevano al consiglio dodici tra li stessi consiglieri cioè 3 per regione, affinchè in ciascuna terna si scegliesse un console, che presiedesse al proprio quartiere, ed era permesso di proporre tra questi 12 non solo quegli individui che figuravano già nel novero degli stessi consiglieri ma eziandio o tutti o alcuni de’ quattro nuovi surrogati ai consolari: Di quei 12 poi si notavano i nomi in separate schede, e riponevansi in un’urna, e quegli di ciascuna terna, il cui nome estraevasi a sorte pe’l primo, era assunto al consolato. Tale era il metodo di eleggere i consoli, ed i consiglieri.

Il consiglio agiva indipendentemente dagli altri estimati anche quando trattavasi d’aver denari a mutuo. Li estimati poi, salve poche eccezioni non, intervenivano che ai consigli risguardanti le imposte. Spettava [p. 179 modifica]al consiglio il nominare i tre Curati, il conferire i benefici, lo eleggere i fabricieri delle chiese, i deputati al governo de’ luoghi pii e i medici.

Di più specie erano i convocati, che si tenevano alcuni erano del borgo; altri della pieve. I primi od erano adunanze di sapienti6 od universali. A questi ultimi assisteva talvolta chichessia, e talvolta solo i capi famiglia. I convocati della pieve avevano luogo allorchè un capo, stabilito, detto anziano radunava in una sola e determinata terra, tutti i consoli della pieve, affinchè avessero a decidere di affari spettanti alla medesima.

La Communità di Busto ne’ tempi calamitosi di guerra, peste e fame era aggravata la secondo l’antico sistema del censo di quattrocento cinquanta staja di sale, e per le grandi, fazioni militari e le contribuzioni aveva formato il notabile debito di 450.000 lire, che riusci poi ad estinguere nel 1754.

Un atto del 13 di genajo del 1657 mi palesa che il magistrato di Milano permise alla nostra Communità di costituirsi in quattro contrade con l’obligo di pagare in tutto, compresi il carico reale ed il personale circa 450 staja di sale come testè si è detto.

Le quattro contrade, ebbero il nome dalle porte ed erano: Basilica, che pagava Staja 120 e lib.18, Sciornago, staja 116 e lib. 11. — Savigo, staja 115 e libre 7. — Piscina 99 e lib. 22. — Dal che il borgo risultava diviso come in quattro communi oltre il dominante, che si chiamarono: Arconati — Mizzaferre — Pasquale — e Pozzo Visconti. Tale separazione per contrade fu effettuata dal questore Arconati il quale [p. 180 modifica]trasferitosi a Busto, andò di casa in casa a raccoglierne i voti. Prima però della divisione promossa dagli stessi abitanti, ciascuna Contrada aveva il proprio console che ripartiva separatamente i carichi rispettivi, salve tuttavìa sempre le ragioni del Ducato. Ma que’ communisti s’accorsero ben presto che il nuovo sistema di amministrazione non corrispondeva ai loro desiderj, perocché nel 1659 si divise dal corpo della Communità il Commune Arconati, che aveva sei estimati, due co’l titolo di deputali e quattro con quello di consiglieri, e che intervenivano alle radunanze come li altri del Commune principale. Nel 1664 si separò anche il Commune Mizzaferro rappresentato da due deputati e da due consiglieri aventi le medesime attribuzioni. Nel 1665 seguì il loro esempio il Commune Pasquale, assistito esso pure da due deputati e due consiglieri. Finalmente nel 1683 si staccò il Commune Pozzo-Visconti, amministrato da due deputati e da quattro consiglieri. Rimasto in tal guisa isolato il Commune dominante, furono tosto assegnati all’amministrazione dell’intero borgo di Busto, due proveditori, dieci consiglieri, che in un con i sei del Commune Arconati, i quattro del Commune Mizzaferro, i quattro del Commune Pasquale, e i sei del Commune Pozzo-Visconti formavano appunto trentadue, che è il numero componente il pieno consiglio della Communità.

Ma il governo Imperiale con un editto del 30 di dicembre del 1755, avendo introdutta una radicale riforma nell’amministrazione delle communità, anche il Commune di Busto restò privo delle congregazioni o consigli che non avevano statuti particolari approvati dal Sovrano. In quanto a Busto si provide con un regolamento speciale del 23 di giugno del 1757, di cui importa [p. 181 modifica]riportare testualmente la parte dispositiva. Questa adunque determina:

1.° Che si aduni prontamente un convocato generale di tutti i possessori estimati nella Communità di Busto, osservate le solennità prescritte nella riforma del dì 30 di dicembre del 1755. Capitolo Secondo.

2.° Che in questo convocato si eleggano dal Corpo degli Estimati trentadue suggetti i quali dovranno in avvenire comporre il consiglio generale della Communità, con facultà al convocato suddetto di confermare i suggetti che si trovano nel presente Consiglio, oppure di eleggerne dei nuovi, secondo che crederà più espediente al servizio della Communità.

3.° Seguita tal elezione, siccome le adunanze di tutti i possessori del territorio di Busto, per la moltitudine di essi sono troppo difficili ad eseguirsi ed a regolarsi, così in avvenire resterà trasferita nel detto consiglio generale dei possessori, e con tutte la facilità di cui in oltre è solito godere il presente consiglio generale non repugnanti al presente regolamento.

4.° Tutti quelli che hanno eccezioni impeditive della voce attiva o passiva e che perciò dovrebbero restare esclusi dall’intervento o voto nel convocato generale o dall’ingerenza negli offizj communali, saranno altresì incapaci di essere eletti per consiglieri del predetto consiglio.

5.° Incapaci similmente saranno quelli che non avranno tanto estimo che passi la somma di scudi dugento, secondo le tavole del nuovo censimento.

6.° Che il detto consiglio sia reputato a tutti li effetti un corpo solo indivisibile, e rappresenti tutto il Commune nella pienezza del suo territorio, sopprimendo ogni scissione passata, e proibendo qualunque divisione nei futuri tempi, e nominatamente sopprimendo i nomi [p. 182 modifica]e le rappresentanze del Commune Arconati, del Commune Mizzaferro, del Commune Pasquale e del Commune Pozzo e Visconti; e ordinando che, senza conservare alcun vestigio delle predelle divisioni tutto il territorio di Busto, formi una Communità sola rappresentata dal predetto consiglio, e abbia un solo governo, una sola cassa, e un estimo solo.

7.° Il predetto consiglio generale dovrà eleggere ogni anno i Deputati dell’estimo a mente di detta riforma del 30 dicembre del 1755, Capitolo 3.°, i quali averanno li oblighi, facultà e prerogative che nella medesima si dispongono, e presiederanno all’istesso consiglio generale convocando e regolando le adunanze di esso sempre con l’assistenza del cancelliere delegato.

8.° L’officio di consigliere in detto consiglio durerà quattro anni, e ogni anno nell’adunanza per l’elezione dei nuovi offiziali si eleggeranno dal consiglio medesimo otto nuovi consiglieri, in vece de’ quali sortiranno otto vecchi.

9.° Nel consiglio generale non potranno entrare suggetti che siano congiunti fra di loro sino al secondo grado civile.

10.° Il deputato della Tassa personale e quello della Tassa mercimoniale avranno luogo nel predetto consiglio per rappresentare in caso di bisogno le occorrenze dei loro corpi a forma delle facultà loro concesse nella riforma su detta al capitolo 4.° e 5.°

11.° La Communità proseguirà nel possesso di eleggete due Sindaci e due Consoli, secondo il solito, così richiedendo la necessità del suo servizio.

12.° Nell’adunanza che si farà ogni anno per lo scrutinio delle spese per la nuova imposta, il consiglio generale dovrà dare l’accesso a qualunque estimato acciò [p. 183 modifica]sia libero a ciascuno di fare rilievi che giudicherà espedienti al commun vantaggio

13° In tutto il rimanente si osserverà puntualmente in tutte le sue parti la riforma detta del 13 dicembre 1755. Oltre le cariche mentovate vi era un cancelliere che assisteva i convocati ed alle aste, allibrava i decreti de’ consoli,cui accompagnava quando andavano in giro per le famiglie per il censo capitale; e formava il ruolo dei suggetti alle imposte, compilando annualmente i libri in cui si determinava il contributo di ciascuno per quell’anno, e consegnandone una copia all’incaricato dell’erogazione.

Al medesimo toccava pure il distribuire i soldati che venivano nel borgo. Un prefetto riscuoteva i tributi, e come tesoriere del luogo doveva pagare i publici impiegati, i deputati delle chiese i custodi delle vie.

Co’l suono delle campane si chiamavano i borghigiani ad estinguer li incendj e nei momenti di pericolo a’ difendersi dai facinorosi.

Nel modo medesimo si convocava il popolo ad adire i decreti de’ magistrati di Milano, e mandarli ad effetto giacchè il colpevole di qualche delitto veniva punito o con la tortura o con l’esiglio o con una multa pecuniaria o con altra pena infamante. Quando trattavasi dell’elezione di un sacerdote, l’eletto dal consiglio presentavasi con un notajo alle case, interrogava ciascun borghigiano o per lo meno i capi di famiglia del proprio parere, e questo registravasi dal notajo negli atti publici.

Il Cronista appena potè attingere alcune vaghe notizie intorno alle leggi, ai giudizj ed alle pene ch’erano proprie del borgo, per trascuranza di chi aveva in [p. 184 modifica]custodia, l’archivio. Infatti, dipendendo dalla legge i giudizi e le pene, ne veniva che, dov’essa mancava, mancavano di conseguenza i processi e le pene. Ebbe invero anticamente il nostro borgo statuti proprj e leggi quasi municipali, ma per disgrazia andarono perduti. Il Cronista afferma che dieci anni prima dell’epoca in cui scrisse (1654), frugando nell’armadio dell’archivio locale vi aveva scoperto alcuni statuti scritti con accuratezza sopra pergamena ma poichè in allora poco importavano a’ suoi studj scórsili con l’occhio alla sbadata non se n’era curato, e li aveva di nuovo riposti negli scafali. Avendo però egli pochi anni appresso tolto a scrivere la storia degli Insubri (Historia Insubrum) cui terminò nel dicembre del 1613 dopo cinque anni di lavoro, ritornò all’archivio per consultare quelli statuti, e con sorpresa s’avvide che n’erano stati involati, nè, per quante indagini facesse, potè sapere ove fossero. Epperò chiede scusa al lettore del dover tacere importanti giudizi, e altre notizie su le stesse leggi. Al tempo del Cronista già i giudizj seguivano, e le pene a norma della legge commune, o secondo le Costituzioni e li statuti municipali milanesi e i decreti del Senato7. In generale si può asserire che nelle leggi del borgo nulla mancava che potesse giovare alla retta amministrazione publica; ed erano pene determinate e multe contro coloro che violavano le leggi sia col non intervenire ne’ convocati, sia commettendo furti nei campi, nelle case, e altrove, o recando danni al bestiame.

E qui, per esser giusti, notar si deve che, sebene nel territorio di Busto avessero luogo ne’ tempi andati risse, furti, aggressioni, rapine ed omicidj più che altrove, [p. 185 modifica]grazie alla cresciuta civiltà e alla continua vigilanza del buon governo, questi delitti, provenienti da circostanze particolari ad alcuni paesi e nominatamene dal contrabando, sono a nostri giorni notabilmente diminuiti. Il qual onorevole decremento ben si sa essere figlio delle poche e savie leggi, là dove le molte e minuziose accrescono i contraventori, e mal raccommandano la nazione in faccia allo straniero.

Il borgo era verso que’ tempi aggravato da ciò che dovea pagare a titolo di censo camerale, e si esonerò di gran parte di esso a spese Communali. Sosteneva però ancora a’ tempi del cronista Crespi i seguenti pesi.

Anna Visconti Arconati esigeva il tributo che si pagava in frumento dai villici su’l vino e le biade raccolte nel territorio bustese, ed era del valore di tre lire sopra un moggio di qualsivoglia cereale, di una e mezzo per ciascun moggio di melica, di cinque per ogni brenta di vino, e di due e mezzo per il vino di torchio. Da quest’obligo erano esonerati per antica consuetudine i frutti dei beni ecclesiastici e la porzione domenicale che si ricavava dai possessi dei Luoghi Pii, le biade e il vino necessarj all’alimento degli ecclesiastici stessi. Aveva parimente là Visconti mentovata il diritto di affittare una macina da frumento e riscuotere un tributo dai tavernieri per la vendita del vino.

L’imposta su’l perticato ripartiva su ciascuno in ragione della quantità dei rispettivi terreni; e l’altra su’l sale per una metà su le persone, e per la seconda sopra i fondi e le case. Il qual metodo di ripartizione s’applicava a quasi tutti i carichi in forza dell’antica consuetudine. Fra le persone poi alcune erano tenute al solo testatico, altre erano aggravate anche dall’estimo. Alla prima classe apparteneva chiunque avesse i sette anni [p. 186 modifica]compiuti, imperocchè ogni maschio o femina, arrivati a questa età, dovevano pagare tre soldi. La seconda classe era formata da tutti i maschi che avevano raggiunto l’anno decimottavo e dalle donne maritate; quelli erano caricati sopra li altri da un censo di denari quattro, queste di soli due8. A norma di una convenzione del 18 di dicembre del 1551 fra la Communità e i terrieri stessi di Busto, confermata con lettera ducale del 1532, i secondi si obligarono a pagare un determinato censo sopra lavori; ma questo su’l principio del secolo XVII pare già abrogato in forza dell’invalsa consuetudine contraria.

Le note guerre combattute dai Governatori Spagnuoli nell’alta Italia si trassero dietro gravezze straordinarie pe’ i pagamenti delle truppe che tratenevansi in Piemonte. Anche il feudatario di Busto, stretto dal Procuratore generale delle armale Cesaree per lo sborso di una grossa somma come importo dell’anno 1542, dovette far valere i diritti delle proprie investiture per togliersi alle conseguenze d’ingiuste e gravose intimazioni.

A dimostrare la ristrettezza del Commune basterà dire che, a malgrado dell’ambizione municipale di quei tempi, fu chiesto con formale petizione nel 1565 che non si deputasse un podestà per Busto Arsizio, ma piuttosto si riducesse la terra (come era prima che venisse infeudata) sotto la giurisdizione del Seprio, e quindi dipendente da quel capitano, con che sarebbesi procurato l’annuo risparmio di lire duecento. Tuttavia la [p. 187 modifica]popolazione, sebene si trovasse in tali angustie, pare che in que’ tempi fosse in accrescimento, poiché mentre nel 1569 il numero de’ focolari ascendeva a 420, da documenti si rileva che nel 1652, essendo podestà il dottor Rafaello Bellone, i focolari erano giunti a 585 e le persone a 4400. In questo stesso anno eranvi tre speziali; sei macellaj, cinque venditori di saglia e panno, tre barbieri, un chirurgo, un medico co’l salario di lire mille ed un cancelliere con lire 4009. Nel territorio poi contavansi solamente tre cascine, cioè quella de’ Poveri, de’ signori Mizzaferro, ed una terza detta del Todeschino10. [p. 188 modifica]

Nel citato 1569 il territorio Bustese constava di 23,084 pertiche di terra, di cui 14,452 aratorie e 4,250 vitate, 4,445 boschive e 3,256 di brughiera. I proprietarj dei fondi migliori erano li ecclesiastici, i Luoghi Pii e i monasteri per l’ammentare di pertiche 3,563. I nobili ne possedevano 2,583, e questi chiamavansi Lodovico, Gerolamo e Gio. Batt. Tosi, Cesare Visconti, Cesare Gallarati, Girolamo e Gio. Antonio Rasino e Giovanni Giacomo Tizzoni. Il terreno in generale era poco fertile per mancanza d’aque irrigue.

Li abitanti si applicavano all’industria del ferro filato e della bambagia, soltanto cinque o sei persone avevano cento o centotrenta scudi d’entrata all’anno, per il che la rendita non bastava a sopperire ai bisogni

[p. 189 modifica]dell’intera annata. V’era un podestà fornito d’abitazione e di annue lire 200. Le entrate delle banche civile, communale, criminale e camerale erano assai meschine; poche confische tornavano utili al feudatario, di modo che tutto il pregio del feudo consisteva nel numero dei focolari. I dazj poi in virtù di un contratto spettavano alla famiglia di Luigi Visconti che li avea acquistati da certi signori Villani di Trezzo, ai quali erano pervenuti insieme con quelli di Lonate Pozzolo e Castano per concessione del duca di Milano Francesco I Sforza (23 d’aprile, 1455) in compenso della restituzione del castello di Trezzo e della pieve di Pontirolo già tenuti dai suddetti Villani.

In documenti del secolo XV si trova menzione dell’onoranza del Bue grasso che i Milanesi dovevano corrispondere al loro duca nella ricorrenza delle feste natalizie. Un tal debito non era peculiare ai soli abitanti di Milano, ma vi andavano suggette anche alcune delle principali terre del contado. Infatti un atto del 18 di agosto del 1496 m’insegna che i procuratori del duca vendettero a Giovan Tomaso di Castelletto varie regalie, compresa quella del bue grasso, per il quale ogni anno i Communi di Busto Arsizio, Gallarate, Legnano, Melzo e Saronno dovettero quindi innanzi pagare L. 141.14 e soldi 15 imperiali ciascuno, e quello di Abbiategrasso soltanto L. 97 e soldi 4 imperiali.

Il duca Francesco Sforza con atto del 9 di novembre del 1452 aveva donato al cav. Luigi Bossi il diritto alla percezione di 50 ducati d’oro dovutigli per l’onoranza del bue dall’abbate di S. Simpliciano “in festis nativitatis cujuslibet anni ex veteri consuetudine per illustrissimos precessores nostros indita.„ Da una nota poi del 1467 rilevasi che il duca Galeazzo Maria Sforza delegò a [p. 190 modifica]presentare i buoi grassi a diversi principi d’Italia alcuni suoi famigliari, cioè a Venezia Giovanni Francesco degli Attendoli, a Ferrara Giovanni Maria Visconti, a Mantova Michele da Vigevano e in Monferrato Cristoforo Renna. E qui parmi opportuno di accennare che i duchi Visconti e Sforza solevano festeggiare la solennità del Natale insieme coi loro feudatarj, che venivano perciò in tale occasione invitati con lettere particolari a recarsi in città per onorare il Principe e la Corte, e probabilmente assistere eziandio al banchetto del bue grasso. Ma da alcuni documenti del 1476 e 1477 si scorge che furono dispensati da questa gita, senza che se ne adduca il perchè.

Nell’anno 1644, considerando i Bustesi che fa prestazione delle primizie al clero a taluni riusciva odiosa ed anche incommoda agli stessi sacerdoti, i consoli e i consiglieri nell’intento di liberare i paroci da questa molestia imposero al Commune stesso l’onere di pagare ogni anno la somma di L. 550. Queste si dovevano consegnare al paroco di S. Giovanni per mano del tesoriere communale in luogo della decima delta lo starolo su le granaglie, su’l vino11, cui giusta un’antica tradizione i borghigiani avevano offerto ne’ primi tempi a beneficio di un secondo sacerdote parochiale. La costui presentazione asserivasi parimenti essere un diritto del Commune, benché fin da’ tempi di S. Carlo quella porzione fosse stata suppressa ed unita alla prebenda prepositurale. [p. 191 modifica]

Così pure per diritti su la decima dei generi campestri, insorse nel 1759 una contesa tra la nostra collegiata di San Giovanni Battista e la Communità di Solbiate Olona. I canonici sostenevano d’aver diritto ad una decima dai terrieri di Solbiate su i frutti raccolti in quel territorio, ma veniva loro dinegata finchè ne avessero provala l’origine e la legitimità con la produzione dei titoli, giustificati. Il Senato a cui si rivolsero i canonici di Busto volle che essi continuassero a riscuoterla fino a decisione definitiva. Oltre Solbiate, erane tenuti a pagar decima alla collegiata di Busto, anche le terre di Solbiello, Fagnano ed Olgiate Olona.

L’uso di publici mercati detti nundinae dai latini, e cotanto utile all’umana società fu introdotto in tutta Italia fin da’ tempi della republica Romana e massime in Lombardia, ove non v’ha quasi città, borgo o terra che non ne conti alcuno. Considerando quindi che il nostro borgo, si pe’l numero degli abitanti, come pe’l florido suo mercimonio, era uno de’ più cospicui del ducato Milanese, Carlo V con diploma del 24 di giugno del 1543 (Doc. N, VIII) ci accordò la facultà di potere ogni venerdì tenere publico mercato di vittovaglie, biade, legumi e bestiame, e qualunque altra sorte, di generi ed altresì due publiche fiere ogni anno per quattro dì continui, principiante l’una nel giorno di S. Luca in ottobre, l’altra dopo le feste di Pasqua di Risurrezione, o con quelle immunità che a quei tempi godevano le fiera dei borghi di Monza, di S. Angelo e di Lonate Pozzolo.

Siffatto privilegio imperiale fu poi interinato dal Senato il 19 di ottobre del medesimo anno, quanto al mercato che tiensi costantemente anche al dì d’oggi in venerdì; ma non così rispetto alle due fiere, poichè l’una non fu più accordata da quella magistratura, essendo [p. 192 modifica]già conceduta a Legnano nel dì dei morti, e l’altra nelle feste di Pasqua di Risurrezione andò per non curanza de’ Bustesi stessi totalmente negletta.

Anche in lettera del presidente e dei maestri delle entrate dello Stato di Milano del 24 di ottobre del 1543 leggesi che il Senato approvò quel privilegio a condizione che il dazio della Dogana si potesse riscuotere come agli altri mercati, cioè per cadauno cavallo o cavalla e simili bestie soldi tre, per ogni bue e vacca in soldi due, e per ogni majale in un soldo 12. Inoltre che le granaglie si potessero condurre al borgo stesso solo da terre non comprese nel raggio di dieci millia da Milano.

In riguardo poi all’estrazione delle biade da quel mercato, ciascuno doveva chiedere licenza da un officiale apposito, che gli avrebbe concesso di estrarre da uno a quadro staja per ciascun capo di casa e condurla, occorrendo, fino alla distanza di dieci millia e non più dal borgo.

Alcuni negozianti di Busto mossero lagnanze il 17 d’agosto del 1643 al magistrato, perchè l’impresario esigeva più di quello che era prescritto per il bollo dei pesi e delle misure.

Leggesi finalmente in un interrogatorio fatto ad Ambrogio Crespi console di Busto l’8 di dicembre del 1651 [p. 193 modifica]intorno alle mercanzie che vendevasi sul mercato, tra le altre cose ciò che segue:

“Sogliono venire quelli di Saronno con delle cavallate di lino13, quelli di Gallarate con panni, tela, saglia ed altro, e de’ bergamini con formaggio ed altre mercanzie che sarebbe un raccontar romano”.

Nella seconda metà di quel secolo viveva un Cesare Picinelli da Busto14 che, pigliato l’appalto della dogana della mercanzia di Milano, e con frodi ritenendo parte del dovuto alla Camera, giunse in breve a così segnalata ricchezza da comperarsi quasi tutta la terra di Castiglione, distante 26 millia da Milano, e fabricarvi belle case con peschiere ed altro. Divenuto era però molto inviso alla nobiltà milanese, massime perchè non pago di gareggiare con essa in magnificenza aveva tolto per sopra più a farla oggetto di affronti, e di vessarla con un adempimento troppo zelante de proprj officj doganali.

Ma passando a ciò che più direttamente concerne il borgo, rammento che fin dalla prima metà del detto secolo vi esisteva la pesa del così detto terratico15. Questa regalia che apparteneva alla Communità veniva dà essa affittata per un triennio. Ogni volta che si [p. 194 modifica]trattava di metterla all’incanto, si radunavano i deputati dell’estimo a suono di campana sotto il portico del pretorio, si leggevano i capitoli ad alta voce, e si deliberava al miglior offerente mediante le cautele di pratica

Siccome poi per la cultura dei gelsi che andava estendendosi sempre più nel territorio di Busto e ne’ dintorni parecchi si recavano al borgo per vendere la loro tela, così nel 1651 fu riconosciuta la necessità di introdurvi un’apposita stadera per pesarla. La Compagnia del SS. che godeva siffatto privilegio, teneva una bussola in cui riponevansi da uno de’ suoi scolari tutte le offerte spontanee, le quali servivano poi a comperare cera ed altri articoli a vantaggio della chiesa.

In quanto poi al lino che si vendeva sul mercato, il conduttore della stadera pesava ad ogni mercante, il quale parimenti era munito di una stadera propria per pesar al minuto, tutta la sua quantità di lino. Terminato il mercato, quel conduttore ripesava il lino, e per cadauna libra venduta riscoteva a titolo di terratico un quattrino. Nel 1652 furono invitati tutti i possessori della regalia delle stadere di qualunque natura fossero a giustificare il titolo del loro possesso sotto comminatoria dell’immediata apprensione. Non possedeva in allora la Communità di Busto Arsizio se non la ragione della stadera piccola per il lino e la seta, che il r. Fisco le impugnava. Ciò diede luogo ad una lite che ebbe termine con una transazione, in forza della quale il Fisco rinunciò ad ogni pretesa su le stadere esistenti nel borgo, conferendo in pari tempo la facultà di introdurvi ogni altra pesa o stadera che a commodo degli abitanti fosse risultata opportuna, e principalmente la stadera grossa per pesare il fieno e la paglia, mediante lo sborso di L. 800 imperiali alla r. Camera. [p. 195 modifica]

In virtù di questo diritto il Commune di Busto attuò nel 1697 la stadera grossa a commodo massime del militare che ne faceva istanza, ed accettò il progetto proposto dalla Scuola del SS. la quale assumeva sopra sè il carico della spesa della stadera e della stanza per collocarla, co’l patto però di tener esenti il commune stesso ed il militare per i generi rispettivamente loro occorrenti. Passò quasi un secolo senza innovazione, quando il 15 di febrajo del 1788 fu chetata la Scuola del SS. di questo diritto, che fu incamerato mediante lo sborso di L. 3,244. 8. 6.

Siccome in progresso di tempo naquero abusi in pregiudizio dei terratici, così il Magistrato Ordinario dello Stato di Milano ad istanza dei Proveditori del borgo di Busto Arsizio publicò grida intorno alla misura di terratico da pagarsi da’ forastieri che si recavano nel borgo per vendere la loro merce.

1. Che nessuna persona del Borgo potesse portare panca sopra la piazza fuorchè per uso proprio, ed il luogo che avesse una volta occupato non poteva più cambiarlo con altri. La panca non doveva essere lunga più di braccia quattro, larga un braccio e mezzo, e per essa non pagavasi terratico.

2. Che il conduttore del terratico non potesse pretendere alcun denaro per la vendita della tela, della calcina, e del brugo.

3. Che il conduttore del terratico non potesse riscuotere ne’ giorni di mercato più di soldi tre per ciascuna panca di sasso posta sotto il coperto della beccheria e negli altri giorni soldi due.

4. Che il detto conduttore per qualsivoglia sorta di fruita, pesci od altre robe che vendevansi nel Borgo, non potesse riscuotere più di soldi due per ciascuna soma. [p. 196 modifica]

5. Che nessuna persona potesse occupar, luogo già stato affiliato dal conduttore del terratico.

6. Che volendo qualche persona esporre in piazza più d’una panca, ancorchè propria, avesse a pagare il terratico solito.

7. Che qualsiasi forestiere volesse mettere in piazza panca propria, avesse anch’egli a pagare il solito terratico, cioè:

Per ogni panca soldi tre; per ogni soma di qualsisia sorte di robe soldj due; per ogni pelle d’olio d’ogni sorta soldi due; per una soma di panello soldi due; per una soma di pesce come sopra soldi due; per una soma di frutti, come sopra, soldi due; per ciascuna libra di lino denari tre; per ogni brenta di vino soldi uno; per ogni cavagno di qualsisia frutta denari sei; per ogni gerlata di frutta o altra roba soldi uno; per una soma d’ortaglie soldi due; per ogni stajo di robe d’ogni sorta denari tre; per una soma di salici soldi due; per un carro di salici soldi sei; per una cavallata di fieno soldi due; per un carro di fieno soldi sei; per uno di legna soldi due.

Il tutto sotto le pene ai contraventori di scudi dieci per ciascuna volta da essere applicali per un terzo alla regia Camera, un terzo al conduttore, ed un terzo all’accusatore.

Questa grida stampata in Milano manca dell’anno e del giorno, ma sembra appartenere agli ultimi anni del dominio spagnuolo.

Le sono queste senza dubbio cose minute, ma pur valgono a renderci una imagine de’ tempi.


Note

  1. Le cause decidevansi sovente nel secolo XII co’l giuramento della parte, presso cui vedevasi maggior lume di ragione, talvolta la parte avversaria giurava quando quella preponderante per ragioni avesse ricusato di giurare; tal altra recedeva dalle sue pretese dispensando dal giuramento la prima. Il duello poi aveva luogo solo quando ambe le parti erano pronte a giurare o quando la ragione fra’ contendenti non fosse abbastanza provata.
  2. Nel 1384 eranvi nel Seprio due vicarj del signore di Milano, dei quali l’uno risiedeva in Varese e l’altro in Gallarate. Altri due avevano sede nella Bulgaria, e propriamente in Magenta e Saronno. (V. Antiqua ducum decreta, p. 66).
  3. Decreto poi confermato da Francesco Sforza nel 22 di marzo del 1451, e di nuovo nel 4 di luglio del 1466 dai duchi Galeazzo Maria Sforza e Bianca Maria sua madre.
  4. I primi cenni di podestà rurali incontransi nelle pergamene fin dal principio del secolo XIII. Questo titolo scambiavasi fra noi con quello di pretore, almeno nell’inesatto linguaggio popolare a quasi tutto il secolo XVIII, ed applicavasi promiscuamente alla medesima persona.
  5. I feudatarj nelle terre di lor suggezione comandavano sì ai nobili, come ai plebei, ed era uno degli attributi della loro autorità l’emanarvi leggi. Senza il permesso del feudatario nessuno poteva andare a caccia nel territorio di Busto.
    Dal 1373 al 1579 insorse una contesa tra il conte Paolo Marliani feudatario di Busto da una parte, e il magnifico giureconsulto Gerolamo Rasini e fratelli Visconti per l’altra, perchè questi ricusavano di prestare il giuramento di fedeltà al Marliani, dichiarando di non essere suoi sudditi. Ma in questo carteggio da me esaminato non si ha la decisione finale.
  6. I sapienti erano una giunta di consiglieri che assistevano i consoli e doverono prestare a loro giuramento di credenza, cioè di secretezza.
  7. Istituito in Milano da Luigi XII re di Francia nel 1499
  8. Consta che in un convocato generale tenuto il 30 di dicembre del 1801 fu approvata la tassa personale su i maschi dagli anni 14 ai 50 affine di moderare la sovrimposta generale su i censiti e di sollevare in qualche parte il Commune già di troppo sopracaricato.
  9. Nel 1809 la popolazione ascendéa a 6,973 anime.
  10. Da un ruolo del 16 d’aprile del 1770 di maschi dagli anni 14 ai 60 compiti, in cui si ha il numero anche di quelli non giunti al 14 anno, e delle donne, si raccoglie che in Busto il numero dei collettabili era 1220; dei maggiori 224, dei minori 820, delle donne 2,652, il numero complessivo delle anime di Busto nel detto anno era di 4,916.
    Il resto a formare il numero di 5,847 era sparso nelle 48 dipendenti cascine qui nominate.
    1. La Cavalchina — 2. del Canonico Custodi — 3. Bosone — 4. Habolino — 5. Boneggio in Basilica — 6. Sordina — 7. Brusoli — 8. Collegio 9. alla Madonna delle Grazie — 10. Pusterlino alla Madonna — 11. Mariotto alla Madonna — 12. di Custodi Carlo Genesio — 13. di Custodi Ambrogio — 14. Pusterlina in Campagna — 15. Boneggio in Savico — 16. Cello 17. Marcora Alessandro — 18. Armiraglio — 19. di Andréa Porro — 20. Altra Cascina Porro — 21. Castiglioni — 22. del Marchese — 23. di Guidi Curato — 24. di Malino in Prato — 25. del Marchesino — 26. de’ Ferrari — 27. Masera — 28. Badona — 29. di Desiderio Canonico — 30. Turati — 31. del Mariotto in Prato — 32. di Azimonti Michele — 33. Canavesa — 34. Bossi — 35. Tololo — 36. La Mal pensa — 37. Il Campaccio — 38. Tosi — 59. Cascina a S. Alò — 40. del Bonsciorino — 41. Cascina Grande — 42. de’ Bonsignori — 43. La Vignazza — 44. La Cattabrega — 45. Il Vignone — 46. Brazello — 47. La Cascinetta — 48. Cascina dei Poveri.
    A rendere meno incomplete le notizie su la topografia del borgo soggiungo le denominazioni dell’odierno sistema delle vie e delle cascine.
    Piazzali tre — della Pretura Vecchia — dei Curati — di S. Carlo,
    Piazze cinque — di S. Maria — di S. Giovanni — Vittorio Emanuele, anticamente del Conte, degli Offici — di Garibaldi — di S. Gregorio.
    Corsie sei — di Basilica — di porta Novara detta di Sciorgnago — di S. Michele detta contrada di Sopra — del Mercato — di porta Ticino - Savico.
    Contrade diciassette. — 1. della Finanza — 2. di S. Gregorio — 3. S. Barnaba — 4. del Campanile — 5. del Riale — 6. del Canton Santo — 7. di S. Ambrogio — 8. Contrada Nuova — 9. della Colombaia — 10. del Mangano — 11. de’ Ratti — 12. di S. Filippo — 13. della Machina — 14. di S. Croce — 15. di S. Antonio — 16. Prandoni — 17. de’ Magnani. E quì non posso tacere che trovansi ancora tre vie senza nome.
    Vicoli ventitre. — 1. Della Costa — 2. Corto — 3. Marchesi — 4. Visconti — 5. Gallazzi — 6. S. Rocco — 7. Fassj — 8. Crespi — 9. del Colonnello - 10. dell’Aja grande — 11. del Livello — 12. del Rovè — 13. Custodi — 14. Lupi — 15. Reguzzone — 16. Oscuro — 17. Bottigelli — 18. Provasoli — 19. Tosi — 20. Bellotti — 21. Vecchio — 22. delle Caserme — 23. de’ Massari.
    Ponte de re Magi — Prato di S. Gregorio — Prato di S. Michele. — Prato Savico.
    Cascine trenta — 1. Bosona — 2. Malpensa — 3. Campacelo — 4. Borglietto — 5. Cavalchina — 6. Sopranina — 7. Bellingera — 8. Martignona — 9. Magentina — 10. alla Piscina — 11. Tilina — 12. Porotta — 13. Rossa — 14. Brusora — 15. Borgora in via Olgiate — 16. Pusterlina — 17. Palazzetta — 18. Malavita — 19. Cascinetta — 20. Carlinetta — 21. Codina — 22. Mascazzina — 23. Maseretta — 24. Badona — 25. Canavesa — 26. Panzina 27. Collarina — 28. Tintoria — 29. del Fico — 30. Ballarati.
  11. Consisteva in uno stajo di granaglie per parte de’ principali abitanti e massaj e di tre quartaj per ciascun focolare dagli altri di minor conto, non che in metrete due di vino ogni anno, o sia quaranta brente. La metreta era una misura di 60 staja.
  12. Oltre questo dazio detto della Dogana corta, vi era Dogana lunga che variò a seconda de’ tempi. Negli anni 1761, 1762 e 1763, parecchi contratti di bestiami furono pagati ne’ giorni di mercato co’l tenue dazio di soldi tre e mezzo per ogni capo, dove negli altri giorni si dovettero sborsare soldi 32 e 1/2 per ogni cavallo ed altretanti per ogni bue, soldi 22 1/2 per ogni vacca, e soldi 12 e 1/2 per ogni majale, che era affranto l’importo del dazio solito esigersi a titolo di Dogana lunga. Nel libro della Dogana esatta in Busto esistente presso il Regolatore generale dell’Impresa della Dogana della città e ducato di Milano nel 1748 ne’ giorni di mercato e negli altri furono registrali 225 contratti di bestiame
  13. Cavallata, ciò che può portare un cavallo su’l dorso.
  14. Vedi La vita del conte Bartolomeo Arese scritta da Gregorio Leti, edizione curata dal Tabi, (Milano — 1854) a pag. 206.
  15. In un’istanza del Commune di Varese contro i mercanti di Gallarate, i quali nel 1749 si rifiutavano di sottostare alla tassa stata loro ultimamente imposta per ogni braccio di terra che avessero occupato nei mercati dello stesso Commune, leggesi «Habet Commmunitas Varisi ius, quod vocant Terraticum, erigendi scilicet certam ac determina tam quantitatem ab iis qui in viis ac plateis publicis merces vendendas exponunt. V. Statuta Burgi et castellantiae de l’aristo. (Mediolani, ex officina Francisci Vallardi, MDCCCLXIV, pag. 82, a cura del prof. Francesco Berlan.)