Coriolano/Atto primo

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Atto primo

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William Shakespeare - Coriolano (1608)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1858)
Atto primo
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CORIOLANO




ATTO PRIMO



SCENA I.

Roma — Una strada.

Entrano molti cittadini ammutinati, con mazze, bastoni, ed armi.

Citt. Anzi che più inoltriamo, uditemi.

Citt. Parla, parla (gridano molti in una volta).

Citt. Siete voi tutti risoluti piuttosto di morire, che di affamare?

Citt. Risoluti, risoluti.

Citt. Prima di tutto, sapete che Caio Marzio è il più gran nemico del popolo?

Citt. Lo sappiamo.

Citt. Uccidiamolo, ed avremo le grascie al prezzo che vorremo. È stabilito?

Citt. Non si parli più di ciò: si faccia; via, via.

Citt. Una parola, buoni cittadini.

Citt. Dite poveri cittadini; tal è il nostro titolo. Quello di buoni non appartiene che ai patrizi. I nostri tiranni tesoreggiano di ciò che ne solleverebbe; cedendone il superfluo, finchè in tempo ci giungesse, potremmo onorare la loro umanità. Ma essi estimano che quel che han di troppo, riescisse di troppo anche a noi. Lo squallore che ne copre, il quadro della nostra miseria, son per loro uno spettacolo giocondo, e che più cara rende ad essi l’opulenza di cui fruiscono. Vendichiamoci dunque; sfoghiamo [p. 102 modifica]con quest’armi il nostro furore, mentre ci rimangono forze per farlo. Gli Dei lo sanno, che la sola fame mi fa parlare così; che non è sangue, ma pane, che impetro e dimando.

Citt. Volete proceder, anzi tutto, contro Caio Marzio?

Citt. Contro lui prima; che è lupo del suo popolo.

Citt. Pensaste ai servigi ch’egli ha reso alla sua patria?

Citt. Bene sta, e glie ne terrem conto; ma se ne ricompensò troppo colla sua superbia.

Citt. Su, via, parlate senza sdegno.

Citt. Io vi dico che tutto ciò ch’egli ha fatto di grande, l’ha fatto per orgoglio. V’hanno alcuni semplici, i quali affermano che egli operò per la patria; ma io non dubito dire che si mosse solo per andare a versi di sua madre, e per illustrare il suo nome. Sì l’orgoglio suo è pari al suo valore.

Citt. Voi gli rimproverate come delitto un difetto di temperamento che non ha potuto correggere; ma d’avarizia almeno non lo potrete tassare.

Citt. Se va esente da tal rimprovero, glie ne potrei fare molti altri; e ne avrei stanchezza numerando tutti i suoi mancamenti. (grida di dentro) D’onde procedono questa grida? L’altro lato della città è insorto; e perchè stiam noi qui cianciando? Al Campidoglio!

Citt. Venite, venite.

Citt. Fermatevi; chi giunge?      (entra Menenio Agrippa)

2* Citt. Il degno Menenio Agrippa; uno che sempre amò il popolo.

Citt. Questi è buono abbastanza; fossero tutti i cittadini così!

Men. A qual’opra intendete, miei concittadini? dove andate con mazze e clave? perchè? parlate, ve ne prego.

Citt. Quel che chiediamo non è ignoto al Senato; glie ne diamo sentore già da quindici giorni, ed ora ci faremo conoscere coi fatti. E’ dicono che ai poveri chiedenti è dovizia di polmoni; or ora si vedrà come sia dovizia anche di braccia.

Men. Perchè, miei buoni amici, miei onesti vicini, volere andare incontro a perdita sicura?

Citt. Più nol possiamo, signore, chè perdemmo già tutto.

Men. Io vi dico, amici, che grandi e pie cure hanno i patrizi di voi. Pei vostri bisogni, pei patimenti a cui vi danna questa carestia, così potreste percuotere il cielo coi vostri bastoni come sollevarli contro lo Stato Romano, il cui corso continuerà per la via che gli fu assegnata, rompendo, ove occorra, dieci mila [p. 103 modifica]catene più forti dell’ostacolo che la resistenza vostra si accinge ad opporgli. Rispetto alla fame che patite, gli Dei, non i patrizi, ne son gli autori; ed è ginocchioni, supplichevoli, non armati, che convien intercedere il loro soccorso. Oimè, oimè! i vostri mali vi trascinano a mali anche maggiori. Voi insultate coloro che governano lo Stato, e che, mentre quali nemici li maledite, hanno per voi cuore di padre!

Citt. Cuore per noi! Sì, in verità! Non mai, non mai essi si curarono di noi. Lasciarne in preda alla fame, mentre i loro granai traboccano; emetter bandi sulle usure per afforzare gli usurai; abrogare ogni dì qualcuna delle leggi stabilite contro i ricchi, e far decreti di sangue per incatenare, e assoggettarsi ognor più i poveri. Se la guerra non ne divora, ben lo faranno essi; è tale, soltanto tale è l’amore che ci portano.

Men. È mestieri confessiate d’essere grandemente maliziosi, oppure che tolleriate nota di follia. Vo’ dirvi una breve favola, che forse avrete intesa, ma che, rispondendo al proposito, mi accingo a farvi minutamente comprendere.

Citt. Bene, l’udrò, signore; ma non crediate deludere i nostri mali, o spegnerne il sentimento col racconto d’una novella; dite ora.

Men. Vi fu un tempo, in cui tutte le membra d’un corpo, ribellatesi contro il ventre, l’accusavano che, simile ad una voragine, ei si rimanesse ozioso e inerte in mezzo al corpo, sempre assorbendo i cibi, senza patir mai disagi per procacciarseli; intantochè tutti gli altri organi affaticavano o per vedere, o per udire, o per sentire, o per mille altri uffici che mutuamente servivano ad essi, onde provvedere ai bisogni dell’intero corpo. Il ventre rispose...

Citt. Ebbene, signore, che rispose il ventre?

Men. Ora ve lo dirò. — Con una specie di sorriso amaro (perocchè badate che se fo parlare il ventre, lo posso anche far sorridere) rispose alle membra ammutinate e malcontente, che l’invidia ch’esse gli portavano per vederlo assorbir tutto, era così stolta come lo è quella che v’infiamma contro i patrizi, perchè non occupano nello Stato il posto che fu a voi assegnato.

Citt. Ma qual era su quel proposito la risposta del ventre? qual era la sua risposta? Ah! se la testa maestosa è fatta per la corona, se l’occhio che veglia, se il cuor che consiglia, se il braccio guerriero, se la gamba corridor nostro, se la lingua banditrice de’ nostri pensieri, se tutti gli altri minuti membri, che sostengono e conservano la nostra costituzione, avessero... [p. 104 modifica]

Men. Che dunque?... Anzi me costui parla!.. Che dunque? che dunque?

Citt. Ebbene, se tutti vedendo il ventre, avoltoio dell’uman corpo, voler loro dar legge, si fossero...

Men. Ebbene, ebbene?

Citt. Se tutti si fossero lagnati con lui, che avrebbe ei potuto opporre a tali rimostranze?

Men. Ve lo dirò, se pur vorrete accordarmi un po’ di quello che in sì piccola dose avete, cioè la pazienza.

Citt. È già lung’ora che ciò ne promettete.

Men. Notate bene, mio buon amico, che il ventre era pensator profondo e placido, non avventato, come i suoi accusatori; onde così rispose: Vero è, miei consorti e compagni di corpo, che io assorbo tutto il nutrimento che vi comunica la vita. Ma non è altresì vero ch’io sono l’economo e il massaio dell’intera macchina? Non dimenticate dunque ch’io vi restituisco tutto quel che ricevo, e che in vivificatrice sostanza lo trasfondo entro le vene che alimentano il cuore, e di là rimontano al cervello, e circolano per mille canali, pei bisogni e le funzioni dell’uomo; onde non vi è nervo che non mi debba la sua forza, non vena che non tragga da me argomento di esistenza; e voi, amiche membra, voi, sebbene veder non possiate... Porgete qui attento ascolto a quello che dice il ventre.

Citt. Sì, signore; bene sta.

Men. Sebbene voi veder non possiate quel che a ciascuno in particolare io do; pur, dietro esatto computo, concluder posso che a voi restituisco la parte più pura della farina, riservando a me la rozza crusca. Che dite di ciò?

Citt. Fu una strana risposta; ma come l’applichereste?

Men. I senatori di Roma sono quel buon ventre, e voi le ammutinate membra. Esaminate i loro provvedimenti, attendete alle cure che li premono, riguardate con imparzialità, sopr’equa bilancia pesate gl’interessi comuni dello Stato; e vedrete che tutto il ben pubblico, al quale avete parte, procede dal Senato, e non da voi. Che ne pensi or tu, gran pollice1 di questa ragunata?

Citt. Io gran pollice? perchè gran pollice?

Men. Perchè essendo uno dei più umili, dei più abbietti, dei più poveri di questa savissima ribellione, te ne vai pel primo innanzi. Tu, sciagurato, in cui più tepido che in ogni altro scorre il sangue, tu guidi costoro ad opere pazze, bramoso solo del tuo [p. 105 modifica]vantaggio. Ma orsù, apprestate i vostri bastoni e le vostre clave; Roma combatterà contro i topi che la dilaniano. Una delle parti inghiottirà il tosco. — Salute, nobile Marzio. (entra Caio Marzio)

Marz. Vi ringrazio. — Quali nuovi torbidi son questi, insensati plebei, cui rode incessante una scabbia d’inferno?

Citt. E’ sempre ne rivolge detti cortesi.

Marz. Colui che detti cortesi ti rivolgesse, sarebbe adulatore al disotto d’ogni abborrimento. Che chiedete voi, disprezzevole razza, cui nè guerra, nè pace contenta? L’una vi atterrisce, l’altra vi fa ribelli. Chi di voi può fidarsi? Lioni vi si crede, e non siete che timidi daini: volpi vi si immagina e non siete che paperi. Voi non offrite maggior sicurezza, no, d’un carbone acceso sul ghiaccio, o d’un granello di grandine al sole. La vostra virtù sta nell’innalzare chi si sottomise al delitto, nel deprimere quegli che amò la giustizia. Chi merita onori si cattiva il vostro odio; e le vostre affezioni rassomigliano agli appetiti inordinati di un infermo, che desidera sol quello che vale ad accrescere il suo tormento. Colui che riposa sul vostro favore, nuota con pinne di piombo, o fa opra d’abbattere la quercia coi giunchi. Razza sciagurata! fidare in voi? Ogni minuto vi cangia, e ad ogni minuto vi si vede esaltar colui che aborrivate, deprimere quegli di cui vi facevate ghirlanda. — Qual è il motivo che vi fa gridare, in varie parti della città, contro il nobile Senato, che, dopo gli Dei, dovrebbe inspirarvi riverenza, e senza di cui vi divorereste gli uni cogli altri?... (a Men.) Che cosa chiedono?

Men. E’ chieggono grano al prezzo che loro piace, perocchè essi dicono che la città n’è provvista.

Marz. Morte li colga!2 Essi dicono? E dalla predella del loro focolare presumono sapere quel che accade in Campidoglio? chi sorge a grandezza, e chi declina? e congetturare le nostre alleanze, i nostri maritaggi, e far trionfare, come lor meglio talenta, le parti che amano, o abbatter quelle che loro spiacciono fino al disotto delle loro scarpe rattoppate? Dicono vi è grano abbastanza? Dimenticassero una volta i nobili la loro bontà, mi lasciassero usar la spada; e vorrei far coi cadaveri d’alcune migliaia di questi schiavi tal catasta; che potesse appena raggiungerne la cima la punta della mia lancia.

Men. Costoro son pressochè contriti; e sebbene sia grande la loro insolenza, pure vedete come vi passano vilmente dinanzi. Ma ve ne chieggo, che dimandano gli altri ammutinati? [p. 106 modifica]

Marz. E’ sono dispersi. Morte se li pigli! Dicevano che la fame li tormentava, e gemevano sospiri e adagi: La fame rompe le pietre; i cani convien che mangino; il cibo è fatto per la bocca, gli Dei non dànno il grano solo pei ricchi. Con tali frasi interrotte esalavano i loro lamenti; a cui essendosi risposto, e concesso loro il diritto di petizione, una se ne ricevè, atta a far scoppiare un cuor generoso, e a far tremare la più salda autorità. Allora gli avresti veduti gettare all’aria i loro berretti, come se avessero voluto appiccarli ai corni della luna, e ululare sconciamente emulandosi.

Men. Che cosa fu loro concesso?

Marz. Cinque tribuni per difendere i loro vili privilegi, e questi a scelta loro. L’un d’essi è Giunio Bruto, l’altro Sicinio Veluto, nè so chi altri... Siano maledetti! La ciurma avrebbe scoperchiate tutte le case della città, prima che io le avessi accordato tanto. Col tempo ella usurperà il potere supremo, e formerà disegni più vasti per giustificare le sue rivolte.

Men. Strano avvenimento!

Marz. Ite (al popolo), itene alle vostre case, vestigi vili di questa sedizione!     (entra un messaggiero)

Mess. Dov’è Caio Marzio?

Marz. Qui. Che accadde egli?

Mess. La novella è, signore, che i Volsci han riprese le armi.

Marz. Ne son lieto: ciò ne darà mezzo di purgare lo Stato de’ suoi umori superflui. Ecco i migliori dei padri. (entrano Cominio, Tito Larzio, ed altri Senatori; poi Giunio Bruto e Sicinio Veluto)

Sen. Marzio, quel che non ha molto ne diceste, è vero; i Volsci sono in armi.

Marz. Ed hanno a duce Tullo Aufidio, che vi darà da pensare. Confesso il mio peccato: sono geloso della sua gloria; e se non fossi quel che sono, vorrei essere lui soltanto.

Com. Voi combatteste insieme.

Marz. Se la metà del mondo guerreggiasse coll’altra metà, ed ei fosse del mio partito, vorrei disdirmi per combattere contro di lui: egli è un leone, di cui vo superbo d’essere il cacciatore.

Sen. Allora, degno Marzio, seguite Cominio a questa guerra.

Com. Questa fu la vostra prima promessa.

Marz. Signore, fu, e la manterrò. — Tu, Tito Larzio, mi vedrai anche una volta vibrare i miei colpi al volto di Tulio. Che! sei tu irrigidito? varcò forse i limiti della ragione il tuo pensiero? [p. 107 modifica]

Tit. No, Caio Marzio; appoggiato sopra una gruccia, combatterei coll’altra, anzichè rimanermi spettatore in simile lotta.

Men. Oh generoso!

Sen. Accompagnatene al Campidoglio, dove so che i nostri amici ci aspettano.

Tit. Ite avanti; seguavi Cominio; noi verrem dopo. Onesto e meritato è questo vostro onore.

Com. Nobile Larzio!

Sen. Via di qui! (ai cittadini) alle vostre case! sgombrate!

Marz. No, lasciate che ci seguano; i Volsci han grano a dovizia; guidiam questi sorci appo loro, onde ne rodan le vettovaglie. Ammutinati onorandi, il vostro valore fu in tempo spiegato; pregovi, seguiteci.     (escono i senatori, Cominio, Marzio, Tito e Menenio; i cittadini si disperdono)

Sic. Vedesti mai uomo più superbo di quel Marzio?

Br. Niuno: ei non ha chi l’uguagli.

Sic. Allorchè fummo scelti tribuni del popolo...

Br. Osservasti le sue labbra, gli occhi suoi?

Sic. No; ma udii i suoi motti.

Br. Sdegnato, egli schernirebbe anche gli Dei!

Sic. Farebbe cencio della castissima luna.

Br. Possa in questa guerra trovar morte; egli è fatto troppo superbo del suo valore.

Sic. Una tal tempra d’uomo, inorgoglita de’ suoi buoni successi, disprezza l’ombra sotto cui cammina a mezzodì. Ma stupisco che, con tanta protervia, possa patir d’essere secondo a Cominio.

Br. La fama a cui intende... e di cui è già sì splendente..... non può essere meglio conservata o accresciuta, che col riempiere un posto al disotto del primo; perocchè l’onta degli errori ricadrà tutta sul generale, ove questi abbia anche fatto quanto un uomo può fare; e la demente censura griderà parlando di Marzio: Oh! s’ei fosse stato duce dell’impresa!

Sic. Oltrechè, se la cosa a ben riesce, l’opinione a lui propizia toglierà ogni merito a Cominio.

Br. Venite: la metà degli onori di Cominio son di Marzio, sebbene Marzio guadagnati non li abbia: e tutti i falli del generale diverranno glorie per Caio, quand’anche, ad ottener queste, nulla abbia operato.

Sic. Andiamo ad udire il decreto del Senato, e veggiamo in qual guisa andrà Marzio a questa guerra, se non va solo duce.

Br. Andiamo.                                   (escono) [p. 108 modifica]

SCENA II.

Corioli. — Il palazzo del Senato.

Entrano Tullo Aufidio e alcuni Senatori.

Sen. Onde è vostra credenza, Aufidio, che i Romani abbiano penetrati i nostri consigli, e siano istrutti del nostro proposito?

Auf. Nol pensate voi egualmente? S’accinse mai questo Stato ad un colpo ardito, che Roma non ne fosse consapevole? Ebbi una lettera, non son quattro giorni, esposta così... ma credo averla ancora... sì, eccola... (legge) Tengono un esercito pronto, ma s’ignora ove sia indirizzato: la fame è grande; il popolo si solleva. Dicesi che Cominio, Marzio, il vostro antico nemico, anche più odiato in Roma che non lo è da voi, e Tito Larzio, il prode dei prodi, saran tutti e tre preposti a quest’esercito, che ignoro ove debbasi condurre, ma che parmi verrà contro di voi. Siate cauti.

Sen. Il nostro esercito è in campo, nè mai dubitammo che Roma potesse esitare a risponderci.

Auf. Ma non eravate voi che reputavate follia il celare i nostri gran disegni finchè il momento dell’esecuzione dovesse necessariamente disvelarli? Or vedete che Roma sembra avere assistito fino alle nostre prime deliberazioni. I disegni nostri, così scoperti, non ghigneranno più al termine loro, ch’era di prendere molte città prima che Roma sapesse che eravamo in armi.

Sen. Nobile Aufidio, ricevete gli ordini, e volate alle vostre schiere. Lasciatene soli per difender Corioli. Se i Romani oseranno accamparsi sotto queste mura, riconducete l’esercito per toglierne l’assedio; ma vedrete che quei grandi apparecchi non furono fatti contro di noi.

Auf. Non dubitate di quanto vi dissi; ben ne sono istrutto. Di più aggiungerò, che già varii corpi dell’oste romana campeggiano, e s’avanzano contro di noi. Venerabili signori, io vi lascio. Se Caio Marzio ed io ci scontriamo, abbiamo giurato di combattere finchè uno dei due sia fuor di stato per sempre di nuocere.

Tutti. Gli Dei vi assistano!

Auf. E voi, venerandi, proteggano!

Sen. Addio.

2* Sen. Addio.

Tutti. Addio.                                   (escono) [p. 109 modifica]

SCENA III.

Roma. — Un appartamento nella casa di Marzio.

Entrano Volunnia e Virgilia; si assidono sopra due bassi scanni, e cuciono.

Vol. Io vi prego, figlia, cantate; o favellate in modo più lieto. Se mio figlio fosse mio marito, sarei più contenta di questa sua assenza, a lui feconda d’onori, che di godere nel letto i più caldi amplessi dell’amor suo. Quando egli era fanciullo, e unico frutto del mio seno; quando la sua puerizia, piena di grazie, attirava a sè tutti gli sguardi; quando, per godere un dì intero degli omaggi d’un re, sua madre non l’avrebbe voluto da sè allontanare per un’ora sola; allora io..... considerando come la gloria avrebbe resa più leggiadra la sua persona, e come senza di essa fosse simile ad uno di quegli inanimati ritratti che pendono dalle pareti..... sentii che bello sarebbe stato il mandarlo in cerca di quel pericolo che gli potea fruttar fama. Ad una crudel guerra perciò lo spedii, da cui tornò cinto la fronte colla corona di quercia; e ti dico, figlia, che non maggior gioia m’ebbi al sapere d’aver dato in luce un figliuol maschio, che al vederlo così per la prima volta far fede che un uomo era.

Virg. Ma se morto fosse in quello scontro, allora...

Vol. Allora l’onorato suo nome mi sarebbe divenuto figlio, e m’avrebbe tenuto vece d’ogni posterità. Odi sincere parole: avessi io una dozzina di figliuoli, ognuno da me amato, nè meno caro che mi sia il tuo e mio buon Marzio..... e avrei voluto piuttosto vederne morir undici generosamente pel loro paese, che un solo evitare il campo di battaglia per isprofondarsi nelle voluttà.     (entra una Matrona)

Matr. Madonna, la signora Valeria è venuta per visitarvi.

Virg. Vi prego, concedetemi per ora di ritirarmi.

Vol. No, nol dovete. E’ parmi d’intendere lo squillo delle trombe3, che accompagna vostro marito: parmi vederlo trascinar pei capelli Aufidio nella polvere, mentre i Volsci fuggono atterriti come fanciulli inseguiti da un orso feroce. In mezzo alla carica sua odo le parole ch’ei volge ai Romani. Vili, retrocedete; sebbene nati nel seno di Roma, voi foste generati nella paura. E quindi asciugandosi colle mani, coperte di ferro, il [p. 110 modifica]sangue che versa dalla fronte, incede qual mietitore minacciato di perdere il suo salario, se una sola arista gli sfugge.

Virg. Il sangue che versa dalla fronte! Oh Giove, non sangue!

Vol. Insensata! il versar sangue meglio s’addice all’uomo che l’oro ai trofei. Il seno di Ecuba, allorch’ella allattava Ettore, non fu mai così bello, come la fronte di Ettore cruenta per le spade de’ Greci incontro a Troia. — Dite a Valeria che siamo parate a riceverla.     (esce la Matrona)

Virg. Il Cielo protegga il mio signore dal crudele Aufidio!

Vol. Ei troncherà il capo d’Aufidio sotto le sue ginocchia, e camminerà sul suo cadavere.     (rientra la gentildonna insieme con Valeria e il suo bracciere)4

Val. Signore, buon giorno a voi.

Vol. Dolce Madonna...

Virg. Vo lieta di vedere vossignoria.

Val. Come state voi? Veggo che siete ottime massaie. Che cucite costà? Un bel lavoro, in mia fè! Qual vita vive il vostro picciolo figlio?

Virg. Ringrazio vossignoria: aitante è della persona.

Vol. Ei meglio amerebbe veder spade e udir trombe, che assistere alle letture del suo pedagogo.

Val. Oh! sull’onor mio, ch’è in tutto figliuolo di suo padre: faccio fede ch’è un bel fanciullo. In verità, io il riguardai per ben mezz’ora lo scorso mercoldì, e generoso è il suo aspetto. Correr lo vedeva dietro ad una farfalla dorata; e presa che l’ebbe la ripose in libertà; poi la riprese, e rilasciolla; e la riprese ancora; finchè, dopo mille giri, per avventura cadendo, entrò in furore, digrignò i denti, e lacerò quel misero insetto! Ah! vi dico che era ben tremendo quel suo furore!

Vol. Uno de’ modi di suo padre.

Val. In verità, è un nobile fanciullo.

Virg. Un tristerello, madonna.

Val. Venite; deponete il vostro lavoro; convien che vi solleviate oggi con me dalle cure del vostro governo domestico.

Virg. No, buona signora; non uscirò.

Val. Non uscirete!

Vol. Uscirà, uscirà.

Virg. In verità, no; così il sopportiate pazienti. Non muoverò passo al di là della mia soglia, finchè il mio signore non ritorni dalla guerra. [p. 111 modifica]

Val. Vergogna! voi vi riducete a prigionia irragionevole. Venite, dovete visitar la buona signora che giace in letto.

Virg. Le auguro di guarire e la visiterò colle mie preghiere; ma non posso andare da lei.

Vol. Perchè? ve ne prego.

Virg. Non per pigrizia, o per mancanza di amore.

Val. Volete dunque essere un’altra Penelope? Nullameno e’ dicono che tutto lo stame che quella filò in assenza di Ulisse, non fece altro che empire Itaca di tignuole. Venite: io vorrei che la vostra tela fosse sensibile come il vostro dito, onde per compassione desisteste dal pungerla. Venite, venite con noi.

Virg. No, buona signora, perdonatemi: io non uscirò.

Val. Oh affè che uscirete! ed io vi darò eccellenti novelle del vostro sposo.

Virg. Cortese madonna, non ve ne può essere alcuna.

Val. In verità, io non celio con voi; giunsero novelle la scorsa notte.

Virg. In verità diceste?

Val. In pura verità; e udii un senatore che ne parlava. Ecco la voce corsa. I Volsci hanno un esercito in campo, contro cui Cominio è andato con una parte de’ suoi, mentre lo sposo vostro e Tito Larzio han posto assedio a Corioli. Essi stanno fidenti di quella espugnazione, che debbe abbreviar la guerra. — Questo è vero sul mio onore; onde, vi prego, uscite con noi.

Virg. Compatitemi, gentile signora, e credete che in ogni altra cosa v’obbedirò.

Vol. Lasciamola sola, madonna; tal quale ella è ora, varrebbe soltanto a intorbidare la nostra allegria.

Val. Così pure io credo... Addio dunque... Venite, signora... Pregoti, Virgilia, abbandona la tua tristezza, e vieni con noi.

Virg. No, in una parola, madonna, nol debbo. Vi desidero mille gioie.

Val. Bene, sta dunque; addio.                                   (escono)

SCENA IV.

Dinnanzi a Corioli.

Entrano a suon di trombe e a vessilli inalberati Marzio, Tito Larzio, Uffiziali e soldati. A questi si fa incontro un Messaggiero.

Marz. Giungono novelle. Scommetto che i generali si sono abboccati. [p. 112 modifica]

Tit. Il mio cavallo contro il vostro, e dico di no.

Marz. È andato.

Tit. Così sia.

Marz. Di’, ha il nostro generale incontrato il nemico?

Mess. Stanno in presenza l’uno dell’altro, ma non favellarono per anco insieme.

Tit. Onde il vostro buon cavallo è mio.

Marz. Lo comprerò da voi.

Tit. No, nè il venderò, nè voglio farne dono; intendo però prestarvelo per una cinquantina di lustri. — Chiamate a parlamento la città.

Marz. A quale distanza sono gli eserciti?

Mess. Dentro il raggio d’un miglio e mezzo.

Marz. Allora, potremo udir le loro grida, come essi le nostre. Marte, ti prego, fanne solerti all’opera, onde con le spade fumanti possiamo volare in soccorso dei nostri amici. — Su, fa la chiamata. (squilla una tromba; compariscono sulle mura di Corioli parecchi Senatori ed altri) Tullo Aufidio è dentro le vostre mura?

Sen. No; ma non è un sol uomo qui, che, come lui, non vi sprezzi senza timore. Udite come i nostri strumenti (allarme lontano) incitano ad uscire la nostra gioventù? abbatterem le nostre mura, piuttostochè patire di star qui rinchiusi; le nostre porte, che sembranvi serrate a puntelli, non hanno che fragili giunchi, e s’apriranno di per loro. Intendete queste grida lontane? (altro allarme) colà è Aufidio, che manomette e insanguina il vostro esercito.

Marz. Oh! essi vennero a battaglia.

Tit. Il rumor loro ne sia maestro. — Olà le scale!

(i Volsci escono dalla città e si accampano)

Marz. E’ non temono, e vengono fuori dalla loro città. Su, su; ponete gli scudi dinanzi ai vostri cuori, e combattete con cuori più saldi degli scudi. Ite innanzi, valoroso Tito. Costoro ne disprezzano oltre ogni nostro credere; ed è ciò che mi fa sudar di furore. Venite, venite, compagni; colui che retrocede lo avrò in conto di volsco, e proverà il fendente della mia daga.

(allarme; s’incomincia la zuffa fra i Romani ed i Volsci; i Romani sono respinti alle loro trincee; rientra Marzio)

Marz. Tutti i contagi del mezzodì v’infestino, obbrobrii di Roma! Tutto il corteo delle ulceri e delle pesti vi divori, o infami, onde siate abborriti tostochè veduti, e l’uno e l’altro infetti, finchè uno di voi rimanga! Anime codarde, che vestite le [p. 113 modifica]sembianze dell’uomo, come fuggir poteste dinanzi a schiavi che un esercito di scimmie avrebbe sbaragliato? Pluto e Inferno! tutti feriti di dietro! coi dorsi rossi e le faccie allibite volgere le calcagna così, sospinti da tanto timor febbrile! Riparate l’onta vostra; ite alla carica di nuovo; o, pei fuochi del cielo, io lascierò il nemico, e guerreggierò contro di voi: ve ne fo consci. Venite: se sarete fermi, li respingeremo sin fra le braccia delle loro mogli, concessi ne perseguirono fino alle nostre trincee. (altro allarme; si rinnova il combattimento; i Volsci fuggono in Corioli, e Marzio gl’insegue fino alle porte) Ora le porte si aprono, ora da generosi assecondatemi. È pei vincitori, non pei fuggiaschi, che la fortuna spalanca quelle porte: guardatemi, e imitate il mio esempio.

(s’avventa entro le porte, che si chiudono dietro di lui)

Sold. Pazzo ardire; nol seguirò.

Sold. Nè io tampoco.

Sold. Vedi, l’han chiuso dentro.     (l’allarme continua)

Tutti. Ei sarà morto; non se ne può dubitare.

(entra Tito Larzio)

Tit. Che avvenne di Marzio?

Tutti. Ucciso, signore, indubitatamente.

Sold. Inseguendo i fuggiaschi dappresso, entrò con loro nella città; le porte gli furon chiuse alle spalle; onde ei contende solo adesso contro un popolo intero.

Tit. Oh mio prode compagno, più prode dell’insensibile acciaio della tua spada! allorchè essa piega, tu resisti e trionfi. Tu fosti abbandonato, Marzio; un diamante della tua grandezza, sarebbe di minor prezzo di te. Guerriero sovrano eri, nè potevasene immaginare un più valente. Non coi soli colpi ti mostravi tremendo e formidabile; il tuo sguardo, il tuo solo sguardo, e il folgore della tua voce minacciante, sbaragliava il nemico, che fremeva come se inteso avesse vacillar la terra sotto i suoi piedi.

(rientra Marzio ferito e perseguitato dai nemici)

Sold. Guardate, signore.

Tit. È Marzio: corriamo a salvarlo, o a morir tutti con lui.

(combattono ed entrano nella città)

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SCENA V.

Una strada di Corioli.

Entrano alcuni Romani cartelli di bottino.

1* Rom. Questo porterò a Roma.

Rom. Ed io questo.

Rom. La moría li colga! Aveva creduto argento questo metallo. (l’allarme e le grida lontane continuano sempre; entrano Marzio e Tito Larzio preceduti da un trombetto)

Marz. Mirate que’ depredatori a quale vil prezzo pongono la loro fama! Miserabili arnesi di ferro e piombo, stromenti logori, indegne spoglie che un carnefice spregerebbe, tal è il bottino di cui questi vili si caricano prima ancora che il combattimento sia finito. Avventiamci su di loro... Ma udite quale strepito si fa intorno al generale nemico? Corriamo da lui!... Là è quell’uomo che il mio cuore odia! là è quell’Aufidio che atterra le nostre schiere! Su, su, valente Tito; scegliete un numero di soldati atto a difendere la città, mentr’io coi più prodi andrò a soccorrere Cominio.

Tit. Valoroso Romano, il tuo sangue sgorga; tu operasti troppo in questo primo assalto, per imprendere un’altra battaglia.

Marz. Non mi encomiare, amico; l’opera che feci non m’ha per anco infiammato. Ti lascio; addio. Questo sangue che spargo m’alleggerisce, anzichè infiacchirmi. È in questa guisa che voglio mostrarmi ad Aufidio per combatterlo.

Tit. Ora la bella Dea, Fortuna, s’innamori di te, e acciechi i tuoi nemici! Intrepido uomo, la prosperità ti sia compagna.

Marz. Tuo amico, non meno tenero di quelli ch’essa pone ai supremi gradi. Addio.

Tit. Onore di Roma, glorioso Marzio! (Marzio esce) Ite, or voi; ragunate sulla piazza a suon di tromba tutti gli ufficiali della città, ond’io faccia loro conoscere i miei intendimenti. Ite.     (escono)

SCENA VI.

Vicino al campo di Cominio.

Entra Cominio con buon numero de’ suoi, ritirandosi.

Com. Riposatevi, amici; ben combatteste! Da Romani, da Romani veri abbandoniamo il campo di battaglia, senza folle ardire nella resistenza, senza viltà nella ritirata. Credetelo, amici, sarem di nuovo investiti. Nell’ardor della zuffa udimmo talvolta [p. 115 modifica]le grida de’ nostri amici recate dai venti: essi pur combattevano. Dei di Roma, accordate loro quel successo che desideriamo per noi medesimi! Fate che i nostri due eserciti si ricongiungano, col sorriso della vittoria sulle labbra, e possano offerirvi insieme un sagrifizio di riconoscenza! (entra un messaggiero) Quali novelle?

Mess. Gli abitanti di Corioli han fatto una sortita, ed ingaggiata battaglia contro Tito e Marzio. Vidi l’esercito nostro respinto fino alle trincee, e tosto partii.

Com. Quand’anche tu dicessi il vero, il tuo racconto mi parrebbe sospetto. Da quanto è che sei partito?

Mess. Da più d’un’ora, signore.

Com. Un miglio solo v’ha di distanza, e testè udivamo ancora le loro grida. Come potesti mettere un’ora a percorrere lo spazio d’un miglio per recarmi sì tarde notizie?

Mess. Le spie de’ Volsci m’han dato la caccia, e fui costretto a divertir dalla via; senza di ciò, signore, m’avreste udito mezz’ora prima col mio messaggio.      (entra Marzio)

Com. Chi è quel guerriero che s’avanza tutto tinto di sangue? Oh Dei! l’aspetto e il portamento ha di Marzio; nè la prima volta è questa che lo vedo in tale stato!

Marz. Venn’io troppo tardi?

Com. Il pastore non discerne meglio il fragor del tuono da ogni altro fragore, ch’io non discerna la voce tua da quella di ogni altro uomo più volgare.

Marz. Venn’io troppo tardi?

Com. Sì, se veniste non tinto del sangue degli altri, ma del vostro.

Marz. Oh! concedetemi di abbracciarvi con tanta tenerezza, quanta ne ponevo negli amplessi maritali; concedete ch’io vi stringa contro questo cuore giulivo come la prima sera delle mie nozze, allorchè la face d’Imeneo splendeva presso il mio letto.

Com. Fior de’ prodi, che fa Tito Larzio?

Marz. Intende a giudicare, e condanna a morte e all’esiglio; riscatta l’uno, e fa grazia all’altro; spaventa il resto colle sue minaccie, e regge Corioli in nome di Roma, governandola come un veltro al guinzaglio, a cui si allentano o si stringono i nodi a proprio piacere.

Com. Dov’è lo sciagurato che venne ad annunziarmi che i Volsci v’aveano respinto fino alle trincee? dov’è? Si faccia venire.

Marz. A lui non pensate, chè egli vi disse il vero. Quei vili [p. 116 modifica]plebei... (e tribuni essi avranno?... Peste li colga!...) topo non evitò mai gatto con tanto ardore, com’essi fuggivano dinanzi a ciurme volsce, e più vili anche di loro.

Com. E come poteste trionfare?

Marz. Tempo è questo da racconti? Nol credo... Ov’è il nemico? Siete voi sicuri del campo di battaglia? Se poi nol siete, perchè restarvi inoperosi prima di divenirlo?

Com. Marzio, combattemmo con isvantaggio, e ci ritirammo con prudenza, onde assicurare l’esito del nostro disegno.

Marz. Qual è l’ordine della battaglia? Sapete da qual lato sieno poste le loro schiere elette?

Com. Credo che il loro avanguardo si componga d’Anziati, i migliori dei loro gregarii: questi guida Aufidio, su cui riposano le speranze del nemico.

Marz. Ve ne scongiuro in nome di tutte le guerre da noi guerreggiate, in nome del sangue che versammo insieme, in nome dei voti che abbiamo fatto d’esser sempre amici, mandatemi tosto contro Aufidio e i suoi Anziati, e non sperdiam l’occasione fra indugi inutili. Empiamo l’aria di dardi, e di baleni di spade; non trascuriamo quest’ora, che i Numi ci porgono.

Com. Meglio amerei veder condurvi a un bagno salutifero, e veder fasciar le vostre ferite; ma non mai vi ricuserò quel che mi dimandate. Scegliete voi stesso fra questi prodi quelli che potranno meglio assecondarvi.

Marz. Io scelgo coloro, che son più volonterosi. Se alcuno è fra di voi (e colpa sarebbe il dubitarne), che ami sul suo volto il rossore di cui è tinto il mio; che tema meno pe’ suoi dì, che pel suo onore; che reputi una bella morte preferibile ad una vita vergognosa, e diliga più la patria che se stesso; un tal soldato solo, o insiem con altri, se consorti ha in sì nobili sentimenti, brandisca come me la sua spada, e segua Marzio (grido generale; tutti alzano le spade) Oh! di me, di me solo fatevi arma: se queste mostre son vere, chi è fra di voi che non valga quattro Volsci? non alcuno che oppor non possa al prode Aufidio scudo fermo come il suo. Vi ringrazio tutti, amici; ma non debbo scegliere che un picciol numero; gli altri serbino il loro coraggio pei combattimenti che sorverranno. Andiamo; venite con me: quattro dei più ardenti di voi riceveran tosto un mio comando.

Com. Ite, valorosi compagni; non obbliate quanto ora prometteste, e dividerete con noi i frutti di questa guerra. (escono) [p. 117 modifica]

SCENA VII.

Le porte di Corioli.

Tito Larzio avendo posto presidio in Corioli, s’avvia al suono di musica militare verso Cominio e Caio Marzio; un luogotenente, una parte della soldatesca, e una spia.

Tit. Vegliate alla custodia delle porte; obbedite a’ miei comandi; stia ognuno al posto che gli assegnai. Alla mia prima chiamata parte di voi venga in nostro soccorso; il resto opporrà solo una breve resistenza: se non potremo mantenerci sul campo, meno lo potremo in città.

Luog. Fidatevi di noi, signore.

Tit. Rientrate, e chiudete dietro di noi le porte. Guida, innanzi; conducine all’esercito romano.     (escono)

SCENA VIII.

Campo di battaglia fra i due eserciti.

Allarme. Entrano Marzio e Aufidio.

Marz. Te solo io vo’ combattere, perchè t’odio più che non odio chi viola le proprie promesse.

Auf. Del pari ci abboniamo: l’Africa non ha mostro che mi sia più esoso della tua gloria; io non posso sopportarla. Affrancati sui piedi.

Marz. Il primo che rinculerà muoia schiavo dell’altro; e gli Dei lo puniscano anche nella seconda vita!

Auf. Se mi vedi fuggir, Marzio, feriscimi come il timido daino che corre per la pianura.

Marz. Tullo, per tre ore ho combattuto solo fra le mura di Corioli, e sfogata v’ho la mia ira. Questo sangue, di cui mi vedi asperso, non è mio; per esorarlo invoca e spiega tutte le tue forze.

Auf. Fossi tu Ettore, quel folgore de’ vostri avi troiani, tanto esaltato in Roma, di qui non usciresti. (combattono, e parecchi Volsci accorrono in ajuto d’Aufidio) Ufficiosi e non prodi, voi m’avete coperto d’ignominia volendo secondarmi.

(escono combattendo, incalzati da Marzio)

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SCENA IX.

Il campo romano.

Allarme; suonasi a raccolta; squillo di trombe; entra da un lato Cominio coi Romani; dall’altro Marzio con un braccio in ciarpa, e seguito.

Com. Se volessi narrarti ad una ad una tutte le geste di cui hai illustrato questo dì, tu stesso ricuseresti fede alle tue opere. Ma riserbo un tale racconto per Roma; ed è là che i senatori col sorriso sulle labbra piangeranno di gioia; che gl’illustri patrizi attenti e stupiti fremeranno in principio di quello che saran costretti d’ammirare; che le nostre matrone tremeran di spavento e di giubilo; che quegli stolti tribuni, cui lega amore pei vili plebei, e che abborrono la tua gloria, saran costretti di gridare col cuore pien di cruccio: Ringraziamo gli Dei d’aver concesso a Roma un tal guerriero. E nullameno prima anche della festa di questo dì, a cui ha voluto prender parte, la tua gloria era già luminosa. (entra Tito Larzio colle sue schiere, reduce dalla persecuzione de’ vinti).

Tit. Oh generale! ecco la spada di Roma (indicando Marzio); noi non ne siam che il fodero5. Vedesti...

Marz. Pregovi, non più: mia madre, che gode in celebrare il suo sangue, allorchè mi prodiga lodi mi contrista. Feci quel che voi avete fatto, cioè quel che poteva, e pel motivo stesso che vi anima, vai dire l’amor della patria. Chiunque ha operato tutto che voleva, ha operato più di me.

Com. Voi non sarete sepolcro al vostro merito; è giusto che Roma sappia tutti i pregi di uno de’ figli suoi. Nasconder le vostre azioni, sarebbe maggior delitto del furto, sarebbe silenzio vile e calunniatore. Esaltarle si possono, colmarle di lodi, senza varcare i limiti della moderazione. Onde, ve ne scongiuro, disponetevi ad udirmi parlar di voi dinanzi a tutto l’esercito; con ciò non intendo ricompensarvi di quanto avete compiuto, ma solo far fede di quel che siete.

Marz. Ho sul mio corpo alcune ferite, ed il dolore che mi cagionano divien più acre quando ne sento discorrere.

Com. Non favellarne sarebbe ingratitudine che potrebbe [p. 119 modifica]invelenirle, e renderle mortali. Di tutti i cavalli di cui facemmo ampia preda, di tutti i tesori da noi accumulati in Corioli e nei campi, a voi offeriamo la decima parte: scegliete dall’intero bottino questo tributo, prima del ripartimento generale.

Marz. Vi ringrazio, mio duce; ma il mio cuore non può acconsentire a ricevere alcun prezzo per ciò che compiè la mia spada: ricuso la vostra offerta; e non voglio che una parte uguale a quella di coloro che mi videro combattere.

(un lungo squillo di trombe; tutti gridano Marzio! Marzio! gettano in alto i berretti, e scuotono le lancie; Cominio e Tito si scuoprono il capo)

Marz. Possano que’ nobili strumenti, che profanate, perder per sempre i loro suoni bellicosi. Ah! se le trombe nostre si cambiano in organi piaggiatori sul vallo guerresco, i campi degenerati non offrono più, come le città, che gli apparecchi e le mostre ingannatrici dell’adulazione. Se il ferro del soldato piega mollemente dinanzi alla vil lode come la veste del cortigiano, si apprestino canti effeminati per preludii di battaglia. Basta, vi dico, basta. — Perchè vedete sul mio volto qualche stilla di sangue che non ebbi ancor tempo di detergere; perchè atterrai qualche debole nemico, opera che fecero mille altri soldati che stanno qui, e a cui non si porge attenzione, voi m’assordate di plausi senza fine e misura, come se amassi che il mio poco merito fosse pasciuto di lodi, amplificate fino alla menzogna?

Com. Siete troppo modesto, troppo nemico di vostra gloria, e troppo poco riconoscente verso di noi, che vi porgiamo un omaggio sincero. Se vi sdegnate così contro voi stesso, ci permetterete d’incatenarvi come un demente che cerca d’uccidersi colle proprie mani, e allora vi persuaderete del vostro merito. — Tutta la terra, come noi sappia dunque che è Caio Marzio che ottiene la palma in questa guerra; per pegno io gliene do il mio superbo corridore, conosciuto da tutto il campo, insieme agli ornamenti suoi; e fin da questo momento, in ricompensa di quanto fece dinanzi a Corioli, lo acclamo fra le grida e gli applausi dell’intero esercito Caio Marzio Coriolano. Porta sempre con onore tal nome! (altissimo squillo di trombe, e grido generale di Caio Marzio Coriolano)

Marz. Andrò a lavarmi il volto, e allora vedrete s’io arrossisca, o no. — Non vale; vi ringrazio. Salirò il vostro corridore e farò sempre ogni sforzo per sostenere con onore il bel titolo di cui mi avete illustrato.

Com. Venite; entriam nella tenda; e prima d’abbandonarci [p. 120 modifica]al riposo scriviamo, onde far consapevole la patria de’ nostri successi. Voi, Larzio, ritornate a Corioli; e mandate a Roma il cittadino più atto a ricevere le condizioni che meglio convengano ai vincitori e ai vinti.

Tit. Così farò, signore.

Marz. La fortuna comincia a farsi giuoco di me: io che rifiutai dianzi il più ricco dei doni, mi veggo costretto adesso a chiedere una grazia al mio generale.

Com. V’è già accordata. Qual è?

Marz. Ho passato qualche tempo in Corioli presso un povero cittadino, che come amico adoperò meco. Durante il combattimento ei mi chiamò con un grido; e lo vidi far prigioniero. Ma allora Aufidio attirava i miei sguardi, e il furore soffocò la compassione. Vi chieggo la libertà del mio infelice ospite.

Com. Oh dimanda degna di Marzio! M’avesse egli ucciso il figlio, e’ diverrebbe libero come l’aria. Tito, scioglietene i ceppi.

Tit. Marzio, il suo nome?

Marz. Per Giove, l’ho obbliato... Soccombo di stanchezza, e la mia memoria è confusa. Non avreste una stilla di vino?

Com. Entriamo nella tenda; il sangue vi si rapprende sul viso; è tempo che prendiate cura delle vostre ferite. Andiamo.

(escono)


SCENA X.

Il campo dei Volsci.

Squillo di trombe. Entra Tullo Aufidio ferito, con due o tre gregarii.

Auf. La città è presa.

Sold. Sarà restituita a buoni patti.

Auf. A buoni patti? Vorrei esser Romano... perchè Volsco essendo, non posso mostrarmi qual sono. A buoni patti? Ve ne possono essere di tali allorchè una delle parti è in balía dell’altra? Marzio, cinque volte ho combattuto contro di te, e cinque volte m’hai vinto; e sempre mi vinceresti, credo, quand’anche i nostri combattimenti si rinnovassero così spesso come i nostri banchetti. Ma lo giuro agli elementi, se anche una volta mi abbatto in lui, ei diverrà mio signore, od io il suo. La mia emulazione rinunzia all’onore da lei ambito fin qui; e anzichè sperar d’atterrarlo, come lo volli sempre, lottando da generoso ferro contro ferro, gli tenderò un agguato; mestieri è che soccomba o sotto il mio furore, o sotto la mia malizia. [p. 121 modifica]

Sold. Egli è un demonio.

Auf. Più audace d’un demonio, ma non sì astuto. Il mio valore, inasprito dalle ingiurie ricevute da lui, rinunzia alla sua pura e nobile delicatezza. Addormentato entro un tempio, nudo e disarmato, sano o infermo, nel santuario degli Dei, nel Campidoglio istesso, fra le preghiere de’ sacerdoti, nel momento del sagrifizio, nulla arresterà il mio sdegno; l’odio mio dispregerà i costumi più santi, i privilegi più rispettati. Dovunque lo troverò, entro i miei stessi lari, tra le braccia di mio fratello, violando le leggi dell’ospitalità tufferò con delizia nel suo cuore il mio ferro. — Voi itene alla città; osservate come i Romani vi comandino, quali ostaggi abbian chiesto.

Sold. Non ci verrete voi pure?

Auf. Sono atteso al bosco de’ cipressi, presso ai mulini. Vi prego, qualcuno di voi si mostri colà per dirmi qual corso segua la fortuna, ond’io conformi il mio andare a quello degli eventi.

Sold. Così farò, signore.                                   (escono)







Note

  1. Toe, dito grosso del piede.
  2. Hang’em! Appiccateli.
  3. Drum ha il testo, cioè tamburo.
  4. Usher
  5. Here is the steed, we the cavarison. Qui è il cavallo; noi ne siam la gualdrappa.