Così mi pare/Chiose/Maternità

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Maternità


Per un’inchiesta.

Ricevo l’invito a rispondere a un’inchiesta il primo capo della quale suona così:

«Pensa Lei che la donna, nell’amore, debba mettere i riguardi sociali (riguardi verso i figli, il marito, la vita di famiglia) sopra i riguardi dovuti alla sua propria felicità, allo sviluppo della sua personalità libera? oppure che la donna debba, nell’amore, anteporre la propria felicità e lo sviluppo della sua personalità umana ai riguardi sociali?»

L’inchiesta prosegue ma trascura altri paragrafi che sono inferiori in importanza a questo primo. Inferiori anche in bellezza. Avete osservato quel «figli» messo a specificare insieme col marito e con la vita di famiglia i [p. 54 modifica] riguardi sociali? Ecco una cosa che nessuno di noi sapeva, che i figli rappresentassero dei riguardi sociali e non l'essenza di noi medesimi, non la nostra carne e il nostro sangue, non la vita nostra e la nostra più grande gioia e il dovere maggiore e la maggiore responsabilità. Dei riguardi sociali che si possono accettare o meno, riconoscere o non, subire o disprezzare secondo che rispondano o meno alle disposizioni personali, a un piano di vita, e anche agli incidenti di una vita rappresentati dalle complicazioni sentimentali che possono andare dal capriccio alla passione.

Sì, questa è la teoria moderna che ha le sue radici nell'individualismo anarchico che è la quintessenza dell'egoismo e il vertice nelle regioni della follia — e noi sdegneremmo parlarne se la teoria nuova penetrata più che non si pensi nella vita femminile attraverso la letteratura, discussa con desolante leggerezza, predicata con argomentazioni superficiali ma impressionanti, tutti i piccoli cervelli poveri di critica, non minacciasse di portare il turbamento in tante serene esistenze femminili.

L'origine della teoria e delle relative discussioni risale alla pubblicazione del volume di Sibilla AleramoUna donna — comparso [p. 55 modifica] anni fa e dove si narravano i casi di una piccola madame Bovary in edizione ridotta che presa dalla nostalgia d'na vita di libertà, di pensiero, di lavoro, abbandonava casa, marito e figli per andarsene a vivere lontano, sola, in una indipendenza assoluta che le permettesse di sviluppare intera la propria personalità.

Si trovarono dei critici — anche delle donne fra questi, purtroppo! — per difendere la protagonista del libro e una scrittrice norvegese, Rosalia Jacobsen, fece del diritto che il volume proclamava, il soggetto delle sue battaglie parlate e scritte. Anche l'inchiesta cui accennavo più sopra è stata originata dagli articoli della Jacobsen che trovarono larga eco nella stampa femminista italiana — larga eco e piena ammirazione.


Confesso che non mi sento di seguire nè le femministe italiane né la illustre scrittrice norvegese nelle conclusioni egotiste della teoria. Se il respingerle significa essere antiquate, reazionarie, vìeux jeu, voglio essere vieux jeu e reazionaria e antiquata e continuare a ritenere, come ritengo, che tutti i diritti della [p. 56 modifica] donna debbono infrangersi contro le mani fragili e onnipotenti d'un figlio.

Bisogna scegliere fra la maternità e il sogno d'indipendenza personale e di affermazione della propria personalità; fra la maternità e la felicità, se questa chiama con un miraggio lucente lontano dalle vie battute. Quando la conciliazione fra il diritto e il dovere non è possibile, bisogna scegliere ed è delitto sacrificare il figlio alla donna. La donna finisce là dove la madre incomincia: ella può aver sognato una felicità che la realtà non le ha dato, un palpito che nella vita non ha trovato, una dolcezza che è rimasta nostalgia e malinconia, che non sarà mai bene raggiunto — se per tutte le promesse mentite il destino le ha dato un figlio, ella ha il dovere di chiudere gli occhi sul sogno, di fare la grande rinunzia a tutto quello che potrebbe allontanarla dall'impegno assunto gettando nel mondo la piccola vita che non aveva chiesto di venirci e che vi è entrata armata di tutti i diritti formidabili annessi alla sua cara debolezza.

Tutto si può discutere ma non il dovere della madre verso un figlio: — a tutto ci si può sottrarre ma non alla responsabilità enorme verso una esistenza determinata da un atto della nostra volontà. [p. 57 modifica]Procreare non è un obbligo, ma consacrare tutte le forze del nostro essere e tutte le energie del nostro spirito alla felicità della piccola vita chiamata dal nostro istinto, dai nostri sensi, dal sentimento nostro, sì; codesta piccola vita ha, rispetto a noi, tutti i diritti; rispetto a lei noi non abbiamo che dei doveri gravi e delle responsabilità enormi; essa può pretendere la salute, l'equilibrio, la bellezza, l'ingegno, tutti i doni che nella vita costituiscono le condizioni indispensabili di felicità e di vittoria; noi non possiamo garantirgliene alcuno ma appunto per questo dobbiamo tendere con tutte le nostre energie e con tutta la nostra volontà a conquistarglieli tutti.

Un giorno, quando l'avremo accompagnata per un buon tratto del cammino coscienziosamente, armandola per la lotta, illuminandola per le insidie, le parti invertiranno: quello ch’era il diritto della sua debolezza diventerà il dovere della sua forza, dovere di rispetto, di gratitudine, di affetto verso di noi, non per quello che noi avremo fatto chiamandola a vivere, ma per l'assistenza incessante e per l'amorosa cura e pel sacrifìcio a volte amarissimo col quale avremo pagato la nostra responsabilità. [p. 58 modifica]


Per fortuna, la linea retta del dovere è segnata qui da una facoltà superiore anche alla coscienza e più di questa imperiosa: l'istinto. Ogni madre sa quel che deve fare rispetto al suo nato perchè lo sente: la maternità non è teoria: è natura è sentimento, è religione, e rispetto a queste tre forze coalizzate anche le elocubrazioni egoistiche di qualche cerebralità d eccezione diventano anodine.

Rimane, invece, segno del tempo, del fermento di idee nuove cadute dal campo della filosofia astratta in quello della morale sociale, l'esaltazione dell'io, l'ubbriacatura di individualismo che fa proclamare il diritto alla soddisfazione d’ogni forma d’egoismo non solo contro le leggi fatte dagli uomini ma ancora contro quelle eterne segnate dalla natura.

Per tornare all'inchiesta, la rivendicazione di personalità che ne forma l'argomento, è un’altra dimostrazione di codesta tendenza a far l'apoteosi dell’egoismo più feroce. Affermare la propria personalità significa, qui, avere il diritto di abbandonare la casa e i figli per seguire un sogno o un miraggio d’amore, chiudere gli occhi e il cuore sullo strazio di chi [p. 59 modifica] resta, sulla miseria dei piccoli creati e abbandonati, per vivere soltanto la vita delle proprie labbra e del proprio palpito. Questa follia suprema che è una così grande sventura, si verifica talvolta per qualche infelicissima; osar mutare codesta infelicissima in una eroina e far assurgere codesta sventura ad affermazione di diritto — neppure come eccezione, ma come norma, è tale aberrazione da diventare incomprensibile. Esistono le travolte dalla catastrofe, sì; vada ad esse tutta l'indulgenza di chi ha avuto un destino migliore, di chi ha ricevuto in dono maggior forza e un equilibrio più perfetto — ma non assurgano, le travolte, a segnacolo di rivendicazioni pazzesche e delittuose.

Perchè non viene dalle femministe più autorevoli la reazione contro codeste deviazioni di tutto quanto è senso di rettitudine e di onestà? Perchè non entra nel compito nuovo la parte bella e degna di esortatrici e di consigliere? Chi ha vissuto e sa, insegni l’arte di superare le tempeste; dica l'inanità di tante follie, l'amaro che è in fondo a tutti i calici, la dolcezza triste eppur profonda della rinunzia, la dignità e la pace soave di un tramonto sereno; dissipi il miraggio che troppi poveri [p. 60 modifica] occhi abbaglia, chi ha vissuto e pianto e magari errato.

Non si faccia alla donna il male gravissimo di strapparla dalla sua casa, dai suoi figli — dai suoi figli!! — per farla diventare la preda d’una febbre breve — sempre breve anche se duratura — perchè destinata a cadere col sopraggiungere del primo annunzio della vecchiaia, lasciando soltanto i brividi della solitudine spirituale assoluta e disperante.

L'amore non è tutta la vita — non è lo scopo della vita — non è neppure il cammino sincero della felicità. Lo sappiano le donne e dal femminismo sano e forte imparino a disprezzarlo un poco, a considerarlo un episodio e non tutta la ragione d’essere di un esistenza, a respingerlo poi sempre quando esiga sacrifici che diventano delitti.

Tutto questo insegnava una volta la virtù: adesso la parola è passata di moda come è passata di moda la cosa: in sua vece parli almeno il buon senso — e sia ascoltato!