Dal Trentino al Carso/Sul Carso/La Battaglia di Settembre/Il generale Tempo

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Il generale Tempo

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IL GENERALE TEMPO.

21 settembre.

«È un tempo austriaco!» — dicono i soldati. La battaglia cominciò in un temporale. Poi, come il furore degli assalti scemava per fondersi in una continuità di combattimento, la irruenza delle intemperie si calmava per finire nella eguaglianza del maltempo stabile. Noi si tratta più di giornate cattive ma di cattiva stagione. Siamo al brutto normale. La pioggia si è fatta costante, sottile, gelata, eguale.

I fiumi sono gonfi, i torrenti straripano, delle piane sono inondate, per tutto si affonda nella melma. Un cielo basso, plumbeo, immobile ed eguale come un cielo da neve, grava sui campi di battaglia. Le montagne immergono la vetta nelle nubi, le lontananze svaniscono in una foschia tenebrosa, tutto appare scolorato e spento nel velo dell’acqua che cade, nella fitta trama delle gocce, obliqua e tremula. Le boscaglie del Carso hanno da lontano l’apparenza di grandi nuvole nere adagiate sopra una desolazione di pietrame e di fango, fosca, incerta e vaporosa. Il panorama ha per sfondo dell’ombra; non si distingue più il monte Stol sulle cui brune pendici il campanile di Temnica metteva una lineetta sottile e bianca, e non si vedono più i [p. 239 modifica] lavori della seconda linea nemica, già pronta sui declivi del Fajti Hrib, un intreccio strano di linee chiare di scavo alternate a cineree strisce di reticolati. Il terreno delle avanzate future, la strada dell’avvenire, svanisce in un pallore crepuscolare. E le difese immediate che ci stanno di fronte, che si mostrano qua e là allo scoperto, appaiono confuse e complicate come uno schieramento di macerie.

L’acqua stormisce monotona nei boschi e sulle sterpaie, spande il suo mormorio strisciante sulle rocce, ruscella nei camminamenti, inonda qualche trincea, in fondo alla quale sono disposte ad intervalli delle grosse pietre per posare il passo. L’acqua che scorre e che gorgoglia empie tutto della sua voce liquida, e pare non ci sia che lei di mobile e di vivo sulle posizioni, fra quegli sterminati allineamenti di sassi ammonticchiati. Da distante si ha l’impressione che la battaglia non metta in rango che delle pietre, in formazioni sempre varie, sempre nuove. Giorno per giorno si vedono dei muricciuoli avanzare, delle schiere di blocchi prolungarsi, moltiplicarsi, come se insensibilmente manovrassero in una loro fantastica e solenne guerra di macigni.

Gli uomini in trincea si sono rannicchiati, si sono imbucati, si sono creati minuscoli ricoveri contro la pioggia. Hanno sospeso sulle loro teste le più svariate tettoie. Alcuni hanno [p. 240 modifica] disposto il loro telo da tenda a baldacchino, un lembo tenuto da sassi sul parapetto, il resto sorretto da bastoni. Altri hanno adoperato dei materiali austriaci, assi, tavole, pezzi di lamiera curvi e corrugati che formano delle piccole volte. La pioggia tamburella sui ripari come su delle ombrelle aperte. Sotto, nell’ombra, accoccolati, dormono profondamente quelli che sono stati di guardia la notte. Gli altri guardano dalle feritoie; o scrivono, la carta sulle ginocchia, con lunghe pause meditative durante le quali la punta del lapis gira e rigira fra le labbra dello scrittore come per cercarvi le parole; o fumano, seduti sopra un sacco a terra, contemplando ad ogni boccata la sigaretta che se ne va, e che è forse l’ultima.

Di tanto in tanto uno scoppiettìo improvviso di fucilate. Tutti si levano. Che è? È uscita una pattuglia. Ognuno torna alla sua occupazione. Le fucilate continuano per qualche tempo. È l’unico indice dei movimenti degli «arditi» che sono fuori. Quando una pattuglia è uscita neppure le vedette la scorgono dopo i suoi primi passi. Sparisce; sembra assorbita dalla paurosa zona di terra che separa gli avversari, da quella zona morta, tagliata fuori del mondo, che miriadi d’occhi spiano con diffidenza, come se si sentissero alla loro volta spiati da quel vuoto, guardati da qualche cosa di invisibile e aspettante. I soldati ci hanno [p. 241 modifica] confidenza. Quando il momento viene saltano i parapetti e le vanno incontro.


Il cannone non ha mai smesso di tuonare. Continua i suoi tiri un po’ per tutto. Batte ora le retrovie, ora le trincee, si esaspera se scorge un movimento, interdice, demolisce. Ha lunghe ore di stanchezza, poi riprende violento, sposta i suoi centri di furore. Sembra alle volte che rombi a battaglia, serra i suoi colpi, infuria: gli osservatori soltanto possono dire la ragione di questi accanimenti subitanei, che non sempre corrispondono a riprese della lotta. La battaglia si è placata. Dopo avere oscillato qua e là per tre giorni, la nuova fronte italiana si è fissata sul terreno conquistato del Carso, ha preso solidità definitiva. Si può tracciare la sua linea sulla carta e considerarla come la linea descrittiva di una fase conclusa.

Perchè è descrittiva la linea della nostra fronte. Essa dice la storia della lotta. La fronte di una battaglia è come una corda che avanza tesa, e che non si contorce, non serpeggia, non si agita che sugli ostacoli. Ogni spezzatura della linea indica un punto di maggiori contrasti, ogni ondulazione parla di alternative. Dove il combattimento ha avuto le più esasperate vicende, è rimasto qualche cosa di più agitato e vigoroso nel disegno della linea raggiunta. Ecco al nord della fronte carsica, alla [p. 242 modifica] sinistra della battaglia, l’arco di un’avanzata impetuosa, piena, profonda, eguale. È il profilo di uno slancio compatto, unico. Alla sinistra infatti l’assalto ha avuto la più bella continuità di movimento e di espansione. Non si è fermato nelle posizioni espugnate, oltre le pendici orientali del Nad Logem: è andato avanti, ondata dopo ondata, nutrito di forze fresche, tendendosi verso più vasti obbiettivi, attraverso boschi e spianate, fino ai limiti delle possibilità del momento. In due ore aveva percorso più di due chilometri. Le ferrovie erano ingombre di prigionieri, le forze della difesa erano distrutte. Le formidabili fortificazioni campali di San Grado, all’estrema ala operante, sorpassate, aggirate, cadevano il giorno dopo per manovra. Fermatosi, questo braccio sinistro dell’offensiva, se anche ha modificato lievemente la sua posizione per una sistemazione di sosta, imprime sul terreno una linea di conquista piena di fermezza.

L’arco rientra lievemente verso il centro, rimasto più indietro per l’avanzata più faticosa e più lenta. Al centro passa la grande arteria mediana dell’altipiano, la strada di Costanievica. Era più facile agli austriaci difendersi in una zona servita da buone comunicazioni, subito accessibile alle riserve; forse anche si aspettavano al centro il colpo di ariete. Contavano probabilmente sulle grandi difficoltà [p. 243 modifica] naturali che avrebbero chiuso il passo ai nostri sui fianchi montuosi, e, non potendo rafforzare l’argine per tutto, hanno portato subito sul centro pianeggiante i primi aiuti alla resistenza. Fra Villanova e Lokvica avevano creato uno di quei loro sistemi difensivi che sfruttano meravigliosamente le caratteristiche del terreno. Qui l’attacco non ha sfondato: ha respinto. Ha respinto il nemico a passo a passo, fra contrattacchi incessanti, e la fronte raggiunta traccia una linea tremula, quasi agitata, piena di una vibrazione di sforzo, rasenta le macerie di Lokvica, scende da dolina a muricciuolo fino alla strada di Costanievica. Da qui rientra con impeto.

Ha un serpeggiamento violento, come il grafico di una scossa di terremoto. Balza a sudovest, passa al di qua di Villanova, tocca in un punto la linea di partenza, e subito cambia nettamente direzione, si slancia a sud-ovest, abbraccia la Quota 208 sud, rientra un poco, si avventa sulla 144, e spegne le sue ondulazioni veementi nella immobilità della fronte ad oriente di Monfalcone. Questa linea agitata, tutta sobbalzi, che sembra scagliarsi su punti importanti di conquista, che vi si attacca col vertice penetrante di arditi salienti, ha un’eloquenza indicibile. Va e viene tempestosa, racconta vicissitudini di attacchi e contrattacchi, come quei segni sinuosi che le tempeste imprimono sulle [p. 244 modifica] spiagge del mare raccontano il passare e il ripassare dell’onda.


Sulla fronte del massiccio carsico, il terreno si eleva anche a destra culminandosi con due vette gemelle e vicine: la Quota 208 nord, sopra Villanova, la Quota 208 sud, i cui fianchi precipitano a sperone verso i terreni più bassi sulle cui ondulazioni corrono le trincee del settore di Monfalcone. Fra le due vette gemelle, una selletta. Fu su questa sella che vedemmo salire trionfalmente il primo assalto, un turbine d’uomini, alle tre pomeridiane del giorno 14. I prigionieri calavano giù a mandrie. In sei minuti la posizione fortissima era espugnata. La vasta cattura indicava lo sfondamento della linea di resistenza.

Di tutte le posizioni austriache nessuna aveva il valore di quelle due alture dominanti. La Quota 208 sud, che sovrasta il Vallone, che si erge sulla zona delle retrovie nemiche, che sta lì in un angolo come un mastio di fortezza, che torreggia sulla Quota 144, che scopre ogni strada verso Jamiano, verso Selo, verso Brestovica, verso San Giovanni e Duino, aveva specialmente una importanza capitale per la difesa. Evitato lo sfasciamento della fronte al centro, ma non l’arretramento, il nemico ha diretto immediatamente i suoi sforzi sulla destra, alla riconquista delle alture. Nella notte, sotto [p. 245 modifica] un diluvio di pioggia, dopo una furibonda concentrazione di artiglierie, sferrò il contrattacco con grandi forze sulle trincee espugnate dai nostri che vi si stavano fortificando. Tre volte in tre giorni quelle posizioni furono perdute e riprese. La lotta accanita, varia, tenace, si andò localizzando sulla Quota 208 sud, la più importante. Nella mattina del 16 la facevamo definitivamente nostra.

Il lento attacco sistematico della Quota 144, più al sud, era influenzato dalle alternative di questi combattimenti. Stabilitici sulla 208 sud, il giorno stesso potemmo occupare la vetta della 144. Su tutte e due le alture i contrattacchi hanno continuato ad abbattersi, ma la reazione nemica si è andata affievolendo. Due grandi cardini della difesa sono così nelle nostre mani.

La battaglia vittoriosa, nel suo complesso, ha presentato finora tre fasi distinte. Prima fase: attacco generale, sfondamento immediato della fronte nemica alle ali, avanzata della nostra sinistra. Seconda fase: resistenza del nemico su linee arretrate alla nostra sinistra e al centro (resistenza caratterizzata da numerosi contrattacchi dimostrativi) e controffensiva vigorosa contro la nostra destra. Terza fase: alternative di lotta alla nostra destra, conquista definitiva degli obbiettivi contrastati. Ora è la stasi. Il tempo cattivo concorre ad imporla.

I russi si vantano di avere il «Generale [p. 246 modifica] Inverno», eterno difensore delle loro terre. Noi dobbiamo accorgerci che la guerra moderna deve piegarsi ai comandi di un generale Tempo. Il genio dei più grandi capi può creare i piani d’azione più perfetti, ma per l’esecuzione si dipende dai capricci della meteorologia. Con i grandi calibri sensibili alle varie densità dell’aria, con la necessità di misurare al cronometro la durata di certi assalti, le condizioni del terreno e dell’atmosfera diventano essenziali. Un po’ di fango può raddoppiare o triplicare il tempo necessario ad un’avanzata e renderla impossibile. Il vento stesso può affievolire o impedire un’offensiva. Se è contrario riporta le bombarde a casa. Esse ritornano come un boomerang. Partono, fanno un giro e vengono a scoppiare imperterrite verso la linea di partenza. I tedeschi, peggio ancora, hanno visto più di una volta i loro gas velenosi tornare indietro spinti da un soffio incostante. Le ingerenze del generale Tempo diventano sempre più numerose e complicate. Egli entrerà certamente nelle decisioni future.

Intanto piove.