De mulieribus claris/XXIV

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Capitolo XXIV. Amaltea, chiamata Deifoba

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Giovanni Boccaccio - De mulieribus claris (1361)
Traduzione dal latino di Donato Albanzani (1397)
Capitolo XXIV. Amaltea, chiamata Deifoba
XXIII XXV


AMALTEA, chiamata Deifoba, dicono, che ella fu figliuola di Glauco1. Credono che fusse l’origine di quella da Cuma di Calcis, antica terra di Campagna. Ed essendo stata quella una delle Sibille, credasi, che ella fosse al tempo del guasto di Troja, e che ella vivesse sì lungo tempo, che alcuni pensano che ella arrivasse insino al tempo di Tarquiqio Prisco. E fu la verginità appresso di questa di tanto pregio, per la testimonianza d’alcuni, che in lungo spazio di tempo non comportò essere toccata d’alcuno uomo. E benchè le scritture dei poeti dicano, quella essere stata amata da Febo, e per dono di quello avere ottenuto di vivere lungo tempo, e avere saputo indovinare, io certamente penso, che per merito della verginità ella abbia ricevuto il lume, per lo quale ella predisse, e scrisse molte cose future, da quel Sole vero, il quale allumina ogni uomo, che viene in questo mondo. E dicesi che ella sopra lo lido di Baia presso Averno ha uno maraviglioso tempio, lo quale io ho vedutole ho udito che da lei serva il nome insino a questo tempo. Il tempio, benchè sia consumato per lunga vecchiezza, e per negligenza sia mezzo caduto, eziandio così rovinato conserva l’antica maestà, e fa maravigliare quegli che guardano la sua grandezza. Sono alcuni che dicono, che fuggendo Enea, ella gl’insegnò la via, e fu sua guida allo ’nferno; la qual cosa io non credo: ma di questo diremo altra volta. Quegli che dicono che ella visse per molti secoli, affermano che ella venne a Roma a Tarquinio Prisco, e portogli nove libri, de’ qnali ne arse tre in sua presenza, non volendogliene dare il pregio che ella gli domandava; e domandogli il dì seguente quel pregio che prima aveva voluto di nove, affermandogli che se non glielo desse subito, arderebbene tre, e lo dì seguente, gli altri tre; di che egli diede lo dimandato pregio. Gli quali libri dappoi conservati furono trovati tutte contenere le fatiche de’ Romani. Per la qual cagione dappoi i Romani servarono quegli con gran diligenza, e secondo che richiedeva lo bisogno di consigliare di cose future, correvano a quegli come ad un tempio. E non è infatti cosa a credere che questa e Deifoba fosse una medesima cosa: e quella, abbiamo letto, che morì in Cicilia, e in quel luogo per lungo tempo fu mostrata la sepoltura per gli abitanti. Dunque per istudio e divina grazia diventiamo famosi, la quale non è negata2 ad alcuno che se ne faccia degno; e se noi stiamo pigri e accidiosi dopo nostra natura, eziandio vecchi andiamo ignoranti alla sepoltura. E finalmente se le femmine sollecite per ingegno o per industria o per divinità sono valenti, che si dea pensare delli miseri uomini li quali hanno attitudine a tutte le cose? se eglino cacciano la viltà dell’animo, certamente arrivano a quella Deità. Piangano dunque e avviliscano quegli i quali per la pigrizia perdono si gran bene; e confessino, sè essere pietre animate tra gli uomini; la qual cosa sarà, confessando3 egli senza lingua lo suo peccato.


Note

  1. Cod. Cass. figliuola di ghaucho della chui anticha terra dicanpiglia credono che fusse lorigine quegli dichalcis. Test. Lat. Ex Cumis Chalcidensium veteri oppido originau duxisse creditur.
  2. Cod. Cass. non e legata ad alcuno. Test. Lat. qiae nemini... denegata sunt.
  3. Test. Lat. quod fiet dum suum crimen confitebuntur elingues.