Della moneta/Libro II/Capo VI

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Capo VI - Della lega

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CAPO SESTO

della lega

Della lega — Lega nelle monete antiche — Disordine nelle monete italiane ne’ secoli barbari — Riflessioni sulla moneta infortiata — Che la lega non fa cattive le monete — Riflessioni sulla moneta di billon, e sua utilitá — Perché siasi introdotta la moneta di billon, detta «nigellorum» — Non è proprietá buona della moneta bassa il restar nello Stato.

I metalli preziosi, quando nelle naturali vene si generano, non solamente sono fra dure pietre racchiusi ed intralciati in esse con minutissime ramificazioni, ma nella stessa loro sustanza contengono sempre qualche parte di basso metallo incorporata, che dicesi «lega»; né, quando giú per le vene de’ fiumi corrono, da questa impuritá si purgano, ma solamente col fuoco e coll’arte se ne possono distaccare. Allora nell’oro si trova misto per lo piú l’argento, e tròvavisi anche il mercurio e il rame: nell’argento il piombo e il mercurio. Or questa puritá del metallo, nella quale la natura non lo produce e solo l’arte può dargli, è dagli orefici considerata come un tutto, che si divide in certe parti o gradi, secondo la proporzion de’ quali si misura la puritá. Nell’oro sono ventiquattro le parti, che diconsi tra noi «carati»; nell’argento dodici, dette «once», e sono suddivise in «sterlini». Questa lega, che ha naturalmente l’oro e l’argento, ha data origine a quella che le monete hanno e ricevono nel coniarsi. È questa una porzione di vile metallo, mista in uno piú prezioso, ma con tanta disuguaglianza, che non meriti il valore della lega esser considerato: perocché, quando fosse una metá della materia d’un metallo, e l’altra d’un altro, come sono i soldi di [p. 140 modifica] Francia e le basse monete di Venezia e di Turchia, in queste il rame non si chiama «lega», ma si dicono monete di due metalli.

La necessitá di quest’uso è nata da due primarie cagioni. Una è che il purgare il metallo da ogn’impuritá è una operazione che consuma gran tempo e fatica; onde nacque la risoluzione di trattare i metalli con quella lega che dalla natura avevano. Ma, conoscendosi poi che questa è varia e che, siccome il piú puro oro, che si scavi, appena è di ventitré carati, di grado in grado se ne trova di quello di sedici e talor anche di dodici (detto dagli antichi «electrum»,e che è forse la nostra «tombaca»), convenne ridurre tutta la pasta, che doveasi coniare, ad uno stesso grado, purgando la soverchio impura e aggiungendo lega alla pura piú del grado determinato; e cosí oggi si siegue a fare. Cosi al luigi d’oro di Francia è prefissa la bontá di ventidue carati, alle doppie di Spagna di ventuno e un quarto, ai zecchini veneziani di ventitré e tre quarti; la stessa ai fiorini e agli ungari, sebbene con non eguale tempra di metallo. E, quanto all’argento, i francesi, come noi usiamo, danno alla moneta undici once di fino ed una di lega. L’altra ragione, non meno considerabile, è stata questa, che l’oro purissimo è soverchio flessibile e colla lega s’indura tanto, che si è giunto fino all’arte di temperarlo: l’argento, per contrario, quando è purissimo, è piú fragile; e alla violenza del conio, che è grandissima, quello cedendo, questo spezzandosi, mal possono resistere. Perciò non è meraviglia che sia antichissimo l’uso della lega.

Le medaglie greche e le romane, le puniche e le spagnuole l’hanno, con questa differenza: che quelle d’argento, principalmente le romane, ne hanno piú delle presenti; quelle d’oro fino a’ tempi d’Alessandro Severo sono singolarmente pure. Le medaglie de’ re macedoni hanno ventitré carati e sedici grani di puro, e nelle romane s’osservò che una medaglia di Vespasiano d’oro non avea di lega piú d’una settecentottantottesima parte. Le consolari d’argento non oltrepassano dieci once di fino. Ma da Alessandro Severo in poi non si trova altro che disordine, frode e vile mescuglio di lega. Quelle d’oro non hanno [p. 141 modifica] quattro quinti di buono, e quelle d’argento un terzo; e cosí, declinando sempre, si trovano fino ai goti peggiorate nell’uno e nell’altro impero. Ne’ tempi seguenti, per la loro infelicitá meritamente chiamati «barbari», non può trovarsi regola o misura stabile alla bontá delle monete. È vero che Carlo magno e poi Federico secondo in un piú tollerabile stato le posero; ma da questo subito declinarono. Nella Francia quasi in ogni anno variarono con disordine e disuguaglianza incredibile. Dal 1302, dal qual anno abbiamo piú accurate notizie, non ebbero queste mai posa né regola alcuna. Fa meraviglia ed orrore il vedere quali mutazioni e quanto grandi sofferse il valore del fiorino riguardo allo scudo dal 1345 fino al 1357, sotto i regni di Filippo sesto e di Giovanni. Dalla pasqua del 1355 sino alla fine dell’anno, ventidue volte si cambiò prezzo alla moneta, e dal valore di sedici scudi si pervenne a quello di cinquantatré al primo di gennaro, ed al dí cinque di esso si calò a tredici scudi e quattro denari. Infine la Francia, la quale sopra ogni altra nazione ha piú spesso messa la mano alle monete e mutatele quasi con quella volubilitá istessa ch’ella fa de’ vestimenti, presenta agli occhi di tutti, nelle storie del Blanc e di altri, un monumento singolare di tempi miserabili e calamitosi A chi mancasse l’opera di questo dotto francese, può bastantemente supplire il Dizionario del Ducange, accresciuto da’ padri di San Mauro, alla voce «moneta».

Non minore è il disordine in que’ tempi nelle monete italiane, avendo la quantitá di diversi principi fra noi cagionato quello stesso che in Francia operava il cattivo governo d’un solo. Perché egli è da sapersí che niuna, quantunque piccola cittá, è in Italia, che nelle varie vicende sue non abbia goduto in qualche spazio di tempo un’ombra di libertá o indipendenza, ed in questo tempo non abbia voluto battere moneta. Nel nostro Regno i principi beneventani, che dopo la distruzione del regno longobardo rimasero sovrani, i salernitani, i consoli e dogi napoletani fecero proprie monete. Indi, poiché da’ Normanni fu in un solo Regno ridotto, né mai da questo stato s’è tratto, egli solo in tutta Italia, quasi in compenso della [p. 142 modifica] libertá perduta, ha goduto d’una sola moneta. Sono state perciò queste le piú ordinate; e da’ Normanni in Sicilia, dagli Svevi in Messina e in Brindisi1, poi in Napoli, che sede regia cominciò ad essere, si sono battute. Ma nel restante d’Italia (che, tutta divisa in piccolissime cittá, e queste ora sotto tirannetti, ora in una spezie di libertá, da diversi umori di fazioni miseramente lacerata, fino al decimoquinto secolo visse) non vi fu cittá o signore, che non battesse moneta, e, quel ch’è peggio, che diversa dall’altre in peso ed in bontá non la facesse. Nel solo Stato, che oggi è della Chiesa, han battuto moneta i papi, il senato romano, Ravenna (sotto i goti, gli esarchi e i vescovi suoi), Rimini, Bologna, Ferrara, Forlí, Pesaro, Sinigaglia, Ancona, Spoleti, Ascoli, Gubbio, Camerino, Macerata, Fermo; e sulla guisa istessa è tutto il restante d’Italia. Quel, che una tanta confusione cagionasse, è facile l’indovinarlo. La tirannia de’ principi è congiunta sempre colla stupiditá de’ sudditi. Quel danno, che colla lega e coll’alzamento tentavano i superiori di fare, questi, non lo sentendo e quasi non se ne accorgendo, lo minoravano; finattanto che le turbolenze delle armi, come sempre avviene, fecero girare la povertá e la ricchezza con diverso movimento da quello che con queste arti si sperava dar loro, conducendo il commercio le ricchezze piú lentamente che non lo fa la guerra e la rapina. Non è però che di alcune monete non fosse maggiore il credito, e che per lo piú non si usasse d’appoire ne’ contratti che la moneta da pagarsi dovesse esser la tale o la tal altra, e vi si aggiungessero le qualitá di «purum», «dominicum», «probatum», «obrizatum», «optimum», «pensantem», «expendivilem», o altro. Fra le monete piú accreditate furono i denari di Pavia e di Lucca, detti «papienses» e «lucenses», di cui frequenti memorie troviamo; finché, avendo battuto i fiorentini il loro fiorino d’una dramma d’oro puro, da questa restarono tutte l’altre oscurate e vinte. In que’ secoli, per la varietá delle monete, nacquero i nomi di moneta «fortis» e «debilis» ad esprimere la maggiore o minor quantitá della [p. 143 modifica] lega; e da queste, indi a poco, nacque l’altra moneta «infortiata» o «infortiatorum». Perché, siccome altamente si querelarono i popoli degli alzamenti e della lega, spesso dovettero i principi ristorare quella moneta, che aveano cosí bruttata; il che fu detto in que’ secoli «infortiare» e «moneta infortiatorum». Di questi denari trovasi fatta menzione fin dal 1146.

Benché non s’appartenga al mio istituto, mi rincresce trapassar tacendo una mia congettura, che per la singolaritá e novitá sua potrebbe esser gradita. Io credo che dal nome di questa moneta venga quello che ha la seconda parte de’ Digesti, che dicesi Infortiatum. La moneta inforziata occupava il luogo di mezzo tra la moneta vecchia buona e la nuova abbassata: questa corrispondenza potè fare che, poiché fu dato il nome al Digesto vecchio e al Nuovo, e per quel di mezzo non se ne trovava alcuno, il sovvenire di questa moneta, allora celebrata, le avesse procurato un tal nome. Per istrana che sembri questa etimologia, certamente, se si riguardano le altre due, non si crederá indegna della loro compagnia. L’una viene dal frontispizio del titolo: Digestorum... ex omni veteri iure collecti, l’altra da quello De operis novi nuntiatione. Cose cosí mal intese e goffe non debbono promettere al nome «infortiatum» una piú ragionevole etimologia, e tutto all’infelicitá de’ tempi sará perdonato.

Ritornando ora al mio proposito, stimo necessario dileguare dagli animi quell’errore, per cui si crede poter nuocere la lega alla moneta; onde di moneta buona e cattiva spesso si ragiona. Tutta la moneta è ugualmente buona; e quella, che avesse dieci carati di lega, è buona tanto quanto quella che n’ha un solo. La ragione è che non si valuta la moneta secondo il suo peso totale, ma secondo la quantitá di quella parte di buon metallo che v’è. Quindi, se una libbra di moneta d’oro, che ha ventiquattro carati di buono, valerá quanto una libbra e un quarto di moneta di diciotto carati, ognuno comprende che, in tanta diversitá di lega, sono egualmente buone le monete, giacché il metallo di lega si può sempre segregare dal prezioso. Perché dunque, chiederanno molti, si dicono, le monete di molta lega, cattive? Nasce questo, perché molte volte la frode o la forza della [p. 144 modifica] legge fa prendere la moneta di molta lega per quel valore che avrebbe, se tutto il suo peso e la materia fosse di metallo puro. Così è quando ad una libbra d’oro di ventiquattro carati equivale una libbra di diciotto, in cui solo tre quarti di oro vi sono, l’altro quarto è di lega. È adunque la legge che fa cattive le monete, e non la lega. Chi vuole che in uno Stato sieno tutte buone le monete, non ne valuti alcuna, né dia loro prezzo: perché, se sono disuguali, nell’apprezzarsi l’una coll’altra, saranno ragguagliate dalla moltitudine, misuratrice giustissima e fedele; se sono tutte del pari basse di lega, coll’incarire apparente d’ogni cosa sará aggiustata la loro proporzione a’ prezzi delle merci, secondo quella porzione di buon metallo che contengono.

Che questo, ch’io dico, sia verissimo, appare, oltre alle altre ragioni, dal vedersi usare dal piú delle nazioni una moneta di tanta lega, che diviene composta per metá d’un metallo prezioso e d’uno vile, detta da’ francesi «billon» e dagli spagnuoli «vellon»; e questa non v’è chi ricusi prenderla, perché è valutata e corre per quel di buono che ha in sé. E di questa, secondo ho promesso, entro a ragionare prima di finir questo libro.

Molti e gravi scrittori e le meglio ordinate repubbliche coll’autoritá e coll’uso esaltano e pregiano queste monete di due metalli, e come una istituzione utilissima e maravigliosa la custodiscono; dall’esempio e voci de’ quali sonosi molti governi mossi ad usarla, come un rimedio d’ogni gran male, quasi con quella speranza ed esito stesso che degli elixir negli estremi morbi si suole. Le utilitá vere di questa spezie di moneta, come le numera il Broggia, sono:

I. Che la moneta d’argento piccola si consuma assai; e, s’ella è tutta di buon argento, il danno è piú grave che s’è di bassa lega.

II. Che si dá uso a quegli argenti, che pervenissero nella zecca, di piú basso carato delle monete grosse che vi si zeccano: il quale argento, se si dovesse raffinare, richiede piú spesa che a fonderle con maggior lega ed abbassarlo.

III. Che facilita il minuto commercio.

Sono queste utilitá tutte giudiziose e vere; ma sono piccole assai in confronto d’un tutto, qual è uno Stato. E, quanto al [p. 145 modifica] consumo, io dimostrerò al seguente libro che questo risparmio, se nel nostro Regno si fosse fatto, non monterebbe a piú di ventimila ducati in cinquantanni, o sia a quattrocento ducati l’anno; economia per un regno intero cosí meschina e misera, che fa mancare il fiato. Questa veritá è dimostrata da un calcolo tutto tirato da principi certi e conosciuti: tanta differenza v’è tra raffirmare all’ingrosso e l’esaminare sui numeri le cose.

L’altra utilitá è anche meno sensibile di questa. Appena essa monta in una coniata d’un milione di ducati a duemilacinquecento ducati, perché non cade che sugli argenti di piú bassa lega, e non importa altro che il risparmio dell’affinamento. Nella nostra zecca si valuta la spesa a trentadue grana per libbra d’argento, e la libbra ne vale quasi milleseicento. Questo risparmio non giunge a quattro grana a libbra: dunque in un milione di ducati (ch’io suppongo che tutto s’abbia da raffinare) v’è la spesa di ventimila ducati, e, su questi, millecinquecento di guadagno. Questo conto ha tutte le agevolezze possibili. Ora avvertasí che in un regno, quanto è il nostro, non vi deve essere piú d’un milione di ducati di moneta di billon; e il coniarne tanta succede almeno in un secolo. Aggiungasí che il coniare il billon costa quasi il doppio dell’argento; aggiungasi il valor del rame, che quasi vi si perde dentro; e ognuno vedrá che o vi è perdita o non vi è guadagno affatto.

Che se si loda la maggior facilitá del commercio, questa cura conveniva piú a’ secoli passati che al nostro. S’introdusse la moneta bassa, per lo scemamento dell’argento, nell’imperio romano, come da Nicolò Oresmio, vescovo di Lexovio, è detto2:

Et quoniam aliquoties in aliqua regione non satis competenter habetur de argento, imo portiuncula argenti, quae iuste dati debet pro libra panis, esset minus bene palpabilis propter nimiam parvitatem, ideo facta fuit mixtio de minus bona materia cum argento; et inde habuit ortum nigra moneta, quae est congrua pro minutis mercaturis. [p. 146 modifica] Questa moneta è la stessa che la «moneta nigellorum», di cui si trova frequente menzione nelle carte di que’ secoli. Nel nostro secolo adunque, abbondante tanto d’oro e d’argento, che si cominciano a dismettere le piú basse monete di rame, come noi abbiamo fatto del cavallo e de’ duecavalli, è piú tosto da dismettersi la moneta di cui ragioniamo, che da desiderarsi e promuoversi ove ella non è. Il non aver noi moneta mezza fra la pubblica ed il carlino è noto che non ci arreca incommodo nessuno; e, quando ce lo dasse, sarebbe meglio medicarlo con monete di buon argento, framezze tra il carlino e i duecarlini, come facciamo noi colle dodici grana e tredici grana e i loro doppi, che con moneta di lega. E che questa, non ostante i suoi piccoli comodi, non s’abbia da introdurre ove non è, lo convince questa grande e potentissima ragione: che ogni nuovo, quando non è utilissimo, perché egli è nuovo, è cattivo.

Che se la bassa moneta avesse la virtú di restare in un paese e non fuggire, come molti se ne persuadono, sarebbe molto bella cosa e non altro che questa dovrebbe coniarsi. Ma questo uscire delle monete e scappare, e per contrario venire e correre, sono frenesie. Le monete non fuggono, né la loro rotonditá e leggerezza le lascia ruzzolare o portar via dal vento. Io m’offro garante a tutti che, purché non si tocchino, se se ne vanno, sará in danno mio. Sono gli uomini che ne portano le monete, e questi lo fanno o per necessitá o per utilitá.

Se è per necessitá, quando non possono mandar la moneta a sanare le sventure e i bisogni, vanno essi via; e, sebbene l’uomo con moneta vaglia piú di chi n’è senza, la moneta senz’uomo non val nulla affatto. Dunque alle necessitá s’ha da soccorrere con fare uscir la moneta, non col ritenerla: perché o l’uomo caccia essa, o essa l’uomo.

Alla utilitá, per cui esce anche la moneta, s’ha da aver questo principio per fermo: che la moneta cattiva scaccia la buona. Cattiva è quella ch’è mal valutata sulla proporzion de’ metalli ed ha meno metallo che prezzo estrinseco dalla legge. Perciò non è vero che il billon mal valutato abbia virtú di restare. Esso ha la virtú di mandar via l’argento e l’oro; e se [p. 147 modifica] ciò sia desiderabile, è manifesto. Il peggio è che all’ultimo comincia ad andarsene anch’esso, avendo cagionata mendicitá nello Stato. Che se è ben valutato, allora mai non usciranno le monete per difetto intrinseco che sia in loro; ma la piaga sará in altra parte, e lá, non sulle monete, conviene applicar le medicine. E che la sproporzione di valuta sia il solo difetto, per cui escono le monete da uno Stato, sará dimostrato nel libro che siegue.




  1. Come narra Riccardo da San Germano, nella sua Cronica, all’anno 1231.
  2. De mutatione monetarum, cap. 3.