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Discorsi della Società Nazionale per la Confederazione Italiana/Gioberti

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Vincenzo Gioberti

Idea, e scopo della Confederazione italiana ../Avvertimento ../Freschi IncludiIntestazione 1 febbraio 2011 100% Storia

Avvertimento Freschi


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DISCORSO

DI VINCENZO GIOBERTI


PRESIDENTE DEL COMITATO CENTRALE




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Signori,



Bello e straordinario spettacolo è quello della presente adunanza; e tale, se io non m’inganno, che dee riempiere d’insolita allegrezza e di viva fiducia il petto di ogni buono e magnanimo Italiano. Pochi mesi addietro in questa città medesima si apriva un altro consesso; il quale tanto sovrastava al presente di maestà e di pompa, quanto un privato assembramento soggiace a una dieta pubblica. Ma se la nostra assemblea non può agguagliarsi a quella per la natura del mandato, l’eminenza della giurisdizione e la solennità dell’apparecchio, essa le entra innanzi per l’idea che rappresenta; la quale nel parlamento subalpino non abbracciava che una parte della penisola; laddove lo scopo che qui ci adduce la riguarda tutta, ed è italico e nazionale. Sono intorno a sette secoli che un simile intento riuniva in un altro angolo d’Italia i dispersi suoi figli e insieme li costringeva in un patto iniziativo di fratellanza; e gli accordi di Pontida (tanta è l’efficacia delle idee) partorivano i miracoli di Legnano e la liberazione dell’Alta Italia dai barbari che l’opprimevano. Speriamo che l’augurio della somiglianza sia prospero, e che gli effetti del nostro assunto abbiano ad essere più duraturi; onde l’esempio dei nostri antichi padri ci giovi non meno per farci fuggire i loro errori, che per indurci a imitare le loro virtù. [p. 4 modifica]

Non crediate, o Signori, che facendo questi riscontri, io voglia ingrandire ed esagerare l’opera nostra. Io non mi dissimulo la tenuità dei nostri sforzi; ma noto pure che piccoli e poco osservabili son quasi sempre i principii delle cose; e che quanto più un lavoro di natura o d’arte è destinato a crescere e far effetti notevoli, tanto meno sogliono essere grandiose e appariscenti le sue origini. Perciò, non che dolermi di questa nostra condizione, io vorrei quasi rallegrarmene; come di fausta mallevadrice dell’avvenire; quando gl’inizii troppo vistosi e sfarzosi somigliano a quei torrenti che dopo breve romore si sperdono e si estinguono prima di giungere alla foce; dove che le imprese durevoli sono come i fiumi reali, che di piccola vena sorgendo e contenti a principio di un sottil filo di acqua, s’ingrossano di mano in mano fino a contendere di visibile ampiezza col mare che li riceve. Così giova sperare che questa nostra comunanza avrà un successo proporzionato al suo fine; imperocchè noi veggiamo che la vita delle consociazioni suol corrispondere all’idea che le informa. Or qual idea è più viva, più nobile, più atta ad allettare i generosi animi, più ricca di liete e ragionevoli speranze, che quella di una Lega, che dia alla nostra Italia l’unità politica e i privilegi delle nazioni?

La storia in universale c’insegna quei soli intenti e conati riuscire felicemente che hanno del reale e dell’ideale insieme; stante che nel concorso di queste due parti risiede il vital principio e l’intimo magistero di ogni forza creata. L’idea sola non può trionfare, perchè non appaga gli spiriti positivi e coloro in cui il senno pratico e il discorso prevalgono: la sola realtà non può aver lunga vita, perchè inetta a rapir le menti, infiammare i cuori e scuotere le immaginazioni degli uomini. Quindi è che i disegni avvalorati da un solo di tali moventi o non provano o non durano, e mostrano colla vanità e insussistenza loro il difetto intrinseco dello scopo proposto. Eccovi che la dottrina di chi vorrebbe ridurre la nostra penisola [p. 5 modifica] a unità rigorosa di stato, quanto è poetica e garba agli ingegni più fervidi che esperti, tanto è stimata impraticabile e derisa dagli uomini sperimentati, che non si pascono di utopie e di chimere. Per contro la politica municipale che accarezza la divisione assoluta e rifugge per falso amor del comune da ogni vincolo formativo della nazione, può appagare il gretto egoismo di molti, ma ripugna a chi è dotato di alti spiriti e sente vivamente la gloria di essere italiano. Il concetto della Confederazione tramezzando fra tali due estremi, serba il buono e il ragionevole di entrambi senza il reo e il chimerico che lo accompagna: pigliando dagli unitari l’unione, ma accomodandola ai dati effettivi per renderla possibile, e dai municipali la divisione, ma mitigandola cogli ordini federativi, viene ad accordare l’idea colla realtà, la teorica colla pratica, il desiderio di ciò che dovrebbe essere colla necessità di quello che è effettualmente; e con questo dialettico componimento satisfà all’universale degli uomini e viene accolto propiziamente da quella opinione pubblica, che oggi è padrona del mondo, e sovrana moderatrice degli eventi.

Io non imprenderò, o Signori, a tessere le lodi del governo federativo, nè a provarvi quanto esso convenga alla patria nostra; chè questo tema fu già trattato da molti, e sarà svolto in breve da valenti oratori. Non vi dirò che questa forma di reggimento ci è quasi connaturata, e che le sue tradizioni sono antichissime e gloriose nella penisola; giacchè dai tempi dell’Etruria, della prisca Roma e della Magna Grecia, fino a quelli della Lega Lombarda, l’anfizionato dei popoli italici segnò le epoche più virtuose e più chiare dei loro fasti. Non aggiungerò che la causa di un fatto così antico si vuol cercare nelle condizioni geografiche del nostro paese; le quali nei termini odierni della cultura male si assestano a un’assoluta unità di reggimento. Dal che si deduce che l’osservanza dei diritti de’ principi non è la sola nè la prima considerazione per cui [p. 6 modifica] anteponiamo l’unione federativa a una forma di unità più perfetta; come pensano certuni, i quali danno alla nostra risoluzione l’apparenza di un sacrificio. Il che tanto è falso, che se vari stati politici non si trovassero in Italia, oserei dire che noi dovremmo crearli. Benediciamo la Providenza che ci abbia tolta questa fatica; e riconosciamo che il fatto non è solo un giure speciale, ma una necessità comune; perchè io chieggo come possa darsi che una nazione avvezza a vivere divisa per tanti secoli, passi senza intervallo a condizione di stato unico? Non è ella una legge inviolabile e universale, che i cambiamenti per essere durevoli si facciano bel bello e per via di gradazione? Sovrattutto quando si hanno a vincere abitudini inveterate, profonde, e quasi tornate in natura? Chi non vede che se la penisola dovesse ridursi a unità perfetta, come la Francia, il solo punto della capitale basterebbe a suscitare discordie e forse guerre civili? Chi vorrà farsi a credere che tante illustri metropoli use da secoli a primeggiare consentirebbero di buon grado a essere città di provincia? E ancorchè l’assoluta centralità politica fosse possibile, sarebbe forse desiderabile? Io ne dubito nelle condizioni attuali del nostro incivilimento; il cui intento supremo è di procacciare al maggior numero degli uomini la maggiore felicità possibile. Il perchè difettuoso si dee riputare ogni stato, in cui i beni e gl’incrementi civili sovrabbondino agli uni con discapito degli altri; in vece di essere equabilmente diffusi come la luce per l’universo. Non invidiamo alla Francia la sua centralità eccessiva; la quale, se ha molti vantaggi, ha pure il vizio gravissimo di privilegiare la capitale a troppa spesa delle province; tanto che lo stato dei nostri vicini si potria definire a rigor di termini la prerogativa aristocratica e spesso la tirannide della metropoli sul resto della nazione. Nè da ciò io inferisco che la compiuta unità politica non sia conciliabile in sè stessa coll’equa distribuzione dei beni sociali; ma dico che tale accordo essendo difficile nello stato corrente della cultura, noi dobbiamo contentarci del reggimento [p. 7 modifica] federativo, come più favorevole al buon essere della patria nostra, e come opportuno apparecchio agli acquisti di una civiltà più squisita e matura che non è quella che possediamo.

La Confederazione è dunque lo scopo finale a cui mira la Società nostra colle sue presenti fatiche. Ma essa non ne è punto il fine immediato; come quello, che allorchè si tratta d’instituzioni le quali hanno ancora da nascere, dee versare nell’inchiesta e nella pratica dei mezzi acconci a effettuarle. Il che viene formalmente dichiarato nel nostro programma; e io ne fo espressa avvertenza affinchè niuno s’inganni intorno alle nostre intenzioni. Imperocchè se mentre il nemico occupa e strazia una parte notabile delle province italiche; se mentre Venezia e Messina sostengono a borea e ad ostro della penisola la gloria del nome patrio con prodigi di valore, e con eroica impareggiabile sofferenza; noi impiegassimo il nostro tempo a teorizzare tranquillamente sull’anfizionìa e sulla dieta italica; renderemmo imagine di quei Pompeiani, che partivano i consolati e le preture, e riordinavano la repubblica, prima di vincere a Farsaglia. L’opera nostra così intesa potrebbe di leggieri muovere a riso l’Europa assueta da gran tempo ad accusarci di esser buoni a parlare anzi che a fare; o al più avrebbe quella serietà che conviene ad un’accademia. Ora noi vogliam essere non accademici, ma cittadini; non aspiriamo alla lode di uomini speculativi, ma a quella di uomini pratici; il fine nostro non è di congegnare una bella teorica, ma di salvare e riordinare la patria scomposta e pericolante. Non vogliamo ideare soltanto una Lega italiana, ma effettuarla; e quindi ci è mestieri cercare e porre in opera tutti i mezzi atti a sortire l’effetto, e a combattere, a rimuovere, a vincere gli impedimenti che ci si attraversano.

Quali sono questi impedimenti? Sono due, o Signori, cioè la dominazione esterna e la debolezza interna della [p. 8 modifica] penisola. Egli è impossibile il fare una vera Lega italiana, finchè il barbaro alberga e comanda in casa nostra; egli è impossibile l’instituire una Lega durevole e forte, senza un regno potente che la protegga. Rispetto alla necessita dell’autonomia tutti o quasi tutti oggi siamo d’accordo; e anche coloro che ne farebbero senza volentieri, non osano dismetterla e rinunziarla palesemente. Il Regno dell’Alta Italia è men fortunato; e non mancano i prudenti che lo chiamano un bel sogno e reputano vano ogni sforzo per rimetterlo in piede. Capirei questa foggia di discorrere, se le due cose fossero separabili; se l’unione fosse manco richiesta dell’indipendenza al bene d’Italia, o riuscisse di acquisto più malagevole, o paresse men sacra e inviolabile per sè medesima. Ma la necessità è pari, anzi maggiore; perchè mediante un forte stato boreale, le contrade italiane saranno in perpetuo affrancate dallo straniero; dove che il riscatto sarebbe sempre precario, se le province più esposte agli insulti barbarici fossero divise e quinci deboli ed inferme. Nè giova il ricorrere alla Lega; la quale basta all’effetto proposto, se è munita e convalidata da un Regno italico; non basta senza di esso; imperocchè il concorso delle forze federali non è efficace, se i piccoli stati non convergono e non si appuntano ad uno che maggioreggi. Coloro che sequestrano la Lega dal suo presidio legittimano le obbiezioni degli unitari assoluti; i quali accusano gli ordini federativi di debolezza, e hanno ragione, se quelli non si raccolgono intorno ad un centro vivo e gagliardo che supplisca ai difetti inseparabili dalla loro natura. Io l’ho già detto altrove, ma giova il ripeterlo: non le divisioni della media e della bassa Italia, ma quelle delle province nordiche furono la causa precipua delle nostre sventure; perchè in vece di dare il passo a ogni oste che venga a assalirci, come facciamo da molti secoli, saremmo sempre stati inespugnabili, se Torino, Genova, Milano e Venezia avessero ubbidito a un solo signore. La Confederazione italiana insomma è come un magnifico edifizio da innalzare in un campo occupato in gran parte dagl’inimici. [p. 9 modifica] Uopo è dunque cacciarli; uopo è fare che il suolo sia netto e atto a servir di pianta al monumento che si disegna; e affinchè non ritornino e sturbino i lavoratori o demoliscano l’opera, è mestieri munirla di forte, di baluardo, di propugnacolo. Ora questo propugnacolo, questo palladio dell’autonomia e dell’unione italiana non può essere che il Regno dell’Alta Italia; il quale, appoggiandosi da un canto alla trincea delle Alpi, cinto dall’altro quasi con fossa e vallo naturale dalle riviere eridaniche e collegando insieme i due mari, segga per così dire a cavaliere e vegli a guardia della penisola.

La malagevolezza milita del pari contro l’autonomia anzi che contro l’instituzione del Regno settentrionale. Chi non vede infatti che il nodo difficile è quello di cacciare il Tedesco colla forza o d’indurlo colle pratiche ad abbandonare un paese posseduto per molti anni e ripigliato testè colle armi? Chi non vede che vinta questa ardua prova, gli altri ostacoli si appianeranno? Qual è la politica che insegni esser fattibile il più e impossibile il meno? Coloro che la professano somigliano a chi ci appunta perchè nel fatto dell’autonomia non vogliam cedere un palmo di territorio; come se sia plausibile che chi fosse costretto a cedere le intere province si ostinasse a difendere un palmo o ci riuscisse efficacemente. O si dirà che le potenze mediatrici veggono di mal occhio la fondazione di un regno forte in Italia? Ma se con tutta la loro mala voglia esse permettevano al re di Sardegna di crearlo colle armi; se dopo gli ultimi disastri la Francia si teneva obbligata dal proprio onore ad aiutarci per riconquistarlo (del che io posso essere buon testimonio); chi vorrà credere che oggi abbiano mutato parere in modo irrevocabile? Le loro disposizioni (io non dubito di affermarlo) dipendono in ultimo costrutto dalla risoluzione, dalla fermezza, dall’energia di coloro che ci governano. Gli esterni c’indurranno a patti indegni, ci daranno facilmente la legge, se noi siamo disposti a riceverla: cederanno per contro alla [p. 10 modifica] giustizia e alla ragionevolezza delle nostra domande, se con forte animo ed intrepido le manterremo. Farebbe ingiuria alla Francia e all’Inghilterra chi pensasse di loro altrimenti: farebbe ingiuria a noi chi ci stimasse capaci di rinunziare agli uni quell’autonomia che vogliamo conservar verso gli altri; come se fosse più onorevole il darsi in balìa all’arte che alla forza di estranei padroni, e il cedere ai raggiri diplomatici anzi che al ferro tedesco.

Restano finalmente le considerazioni dedotte dal buon diritto e dalla giustizia; delle quali non paiono far gran caso i docili rinunziatori del Regno dell’Alta Italia. I quali fermano male lo stato della quistione; perchè prima di chiedere se la rinunzia sia opportuna, dovrebbero domandare se sia lecita, e se si trovi potenza in terra autorizzata a farla onestamente. Ora io mantengo che niuno il può; non il governo nè il parlamento piemontese; non i popoli delle province che col Piemonte si affratellarono. Il governo non può certo rompere un patto sancito dai deputati del Regno; e questi intervenendo per una sola parte nel mutuo contratto, non hanno di per sè soli facoltà di annullarlo. O forse i popoli avranno un arbitrio maggiore? Certo sì, se il capriccio e non la ragione dee legittimare le deliberazioni umane; in nessun modo, se v’ha una legge superiore alla volontà degli uomini; e se irrito e nullo di sua natura è ogni atto contrario al bene della nazione e della patria. Ora se l’unione è parte essenziale della nazionalità dei popoli, se ogni accrescimento di essa è un progresso nella vita civile, il disfare un passo rilevantissimo fatto verso l’unità e il retrocedere verso le divisioni antiche, è opera contronazionale e regressiva, che non può essere conceduta ai popoli meglio che agl’individui, quando il peggioramento e il suicidio sieno delitti di umanità offesa non solo nei particolari uomini; ma eziandio nelle nazioni.

Ma ancorchè si desse ai popoli il poter singolare di [p. 11 modifica] ridurre al peggio la nazionalità propria, ognun dee concedere che senza il loro concorso e quello del parlamento la rinunzia del Regno italico sarebbe illegale ed iniqua. O si dirà che i ministri possono farle condizionatamente? Cioè riservando ai rappresentanti della nazione il ratificarla o no a loro talento? Ma tal riserva sarebbe illusoria; quando variati i tempi, e mutate le circostanze, può darsi che l’elezione divenga impossibile o almeno difficilissima. E in tal caso il parlamento potrà dire ai ministri: «Voi avete trapassato il vostro potere, e usurpato il mio, poichè voi foste liberi nel patteggiare e io più nol sono per rompere i vostri patti. Quando voi entraste al maneggio degli affari era agevole il rifar l’esercito e il ripigliare ben tosto la guerra; ora questo è divenuto stranamente difficile e forse impossibile per l’avvicinarsi del verno, e dopo il letargo e il dispendio di parecchi mesi. Allora la Francia era impegnata a sussidiarci colle sue armi: ora voi l’avete sciolta da questo impegno, accettando una mediazione ordita in termini lesivi dell’unione contratta. Voi dunque ci riservate in apparenza la balìa di decidere; in sostanza l’avete preoccupata; e per compiere l’usurpazione, e rendere più impossibile il rimedio, ci aggiugneste la proroga delle tornate parlamentari. Perciò, non che essere in grado di giustificarvi per aver rotta l’unione giurata e solenne, voi aggiungeste a questa un’altra colpa che non è punto minore; cioè quella di violentare il parlamento, costringendolo a sancire l’atto vituperoso ed iniquo con cui violaste i diritti, offendeste gl’interessi e macchiaste il nome della nazione».

Ma ciò sia detto per mero presupposto; giacchè farebbe torto ai nostri ministri chi dopo le loro proteste li giudicasse capaci di tal eccesso; tanto più che alle ragioni sovrane del giusto e dell’onesto si aggiungono quelle dell’utilità pubblica. Quel gran vero che l’utile non si scompagna dall’onesto non apparve mai così chiaro come al dì d’oggi; e senza cercare esempi dalla lunga, ce ne porgono una prova i fatti che abbiam per le mani. La [p. 12 modifica] mediazione fu sostituita al sussidio francese dai maneggi dei diplomatici, avvalorati dalla fazione municipale. I diplomatici voleano con questo partito pacificare l’Italia; i municipali provvedere al ben del Piemonte. Ora quanto abbiano gli uni e gli altri sortito l’intento loro, lo dicono i fatti. Lo dicono la Lombardia straziata dal ferro barbarico e teatro d’inaudite fierezze; lo dicono Genova inquieta, Livorno in rivolta, l’altra Toscana in tempesta; quella Toscana, a cui invece del primato di gentilezza per cui si alza gloriosa su tutte le province italiche, talun vorrebbe conferire altri titoli; come se per uno stato a cui è difficile il mantenere l’antico dominio fosse un acquisto anzi che un peso l’ampliazione del territorio e l’aggiunta di un ducato. Tal è il grado di cecità a cui giunge il municipalismo; il quale a che termine sia per condurre il Piemonte ciascun sel vede. Coloro che un mese e mezzo fa gridavano pace, l’hanno forse ottenuta? Oh sì; ma che pace? Dio immortale! Qual è la guerra che non le sia da anteporre? L’erario esausto, le spese accresciute e divenute incomportabili, l’esercito languente e distrutto dall’ozio, dai disagi e dal morbo, il nemico imbaldanzito e minacciante, e la prospettiva di un avvenire più orribile del passato. Se la funesta mediazione non fosse prevalsa, a quest’ora Italiani e Francesi uniti in una sola schiera combatterebbero l’ultima guerra e intonerebbero già forse il canto della vittoria. Ma invece di ammazzare i Tedeschi, i nostri soldati sono spinti dalla disperazione a uccidere se medesimi; e ciò per la sapienza di coloro che volevano risparmiare il sangue cittadino e credevano di salvare il Piemonte antiponendolo alla nazione.

Voi vedete, o Signori, che la Società nostra professando di essere nazionale e mirando a stabilire su salde basi la nazionalità italiana, è per ciò solo sollecita dei veri interessi particolari; e dee quindi esser cara a tutte le nostre province e specialmente al Piemonte. Già i giornali liberi e indipendenti di questo paese l’hanno onorata [p. 13 modifica] dei loro suffragi; e altrettanto fecero i fogli di altri stati nostrali, a cui giunse notizia della sua instituzione. Essa può dunque vantarsi di esprimere l’opinione pubblica, e sperare da questa la forza e l’autorità valevole a sortire il suo proponimento. Ma ad assicurare la piena consecuzione di questo si richieggono principalmente tre cose; cioè la costanza, il senno pratico, e l’unione dei membri che la compongono. La fermezza nei proprii principii è necessaria a far cose degne di considerazione; e solo riesce nel suo proposito chi vi tende incessantemente, senza spaventarsi delle difficoltà che si frappongono, anzi traendone animo e coraggio per proseguire gagliardamente l’impresa. Il senno pratico consiste nel mirare dirittamente allo scopo effettivo, nell’attendere più ai fatti che alle parole, e nell’adoperare con attiva solerzia quegli spedienti che il corso naturale degli eventi e spesso i casi fortuiti ne somministrano. L’unione finalmente richiede che si mettano da canto tutte le dispute inutili e atte a disgiunger gli animi più che ad amicarli. Oh guardiamoci dal perdere in vani e discordevoli piati un tempo prezioso; rannodiamoci intorno a quell’idea che per la sua ampiezza e grandezza risponde a ogni voto ragionevole dei nostri cuori. Il programma della società nazionale ha di che appagare tutte le opinioni politiche; purchè i fautori di esse rechino saviezza e moderazione nelle proprie brame. I monarchici troveranno negli ordini liberi e federativi il più saldo sostegno della regia potenza. Gli amatori dello stato democratico ci rinverranno l’alleanza della monarchia col popolo e con quelle istituzioni protettrici delle classi misere che mirano a informare col genio del tribunato antico il principato moderno. Gli unitari avranno nella Lega presidiata dal Regno dell’Alta Italia quell’unità potente che è l’oggetto dei loro voti. Finalmente gli stessi stranieri che sono teneri e zelanti dei progressi civili non potranno avversare la Società nostra, come amica della libertà universale, pegno di fraterna alleanza tra i popoli, augurio e arra di pace per l’Italia e per tutta Europa.