Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio (1824)/Libro primo/Capitolo 11

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[p. 58 modifica]morte li rende gloriosi; l'altra li fa vivere in continue angustie, e dopo la morte lasciare di sé una sempiterna infamia.


CAPITOLO XI


Della Religione de' Romani.


Ancorachè Roma avesse il primo suo ordinatore Romolo, e che da quello abbia a riconoscere come figliuola il nascimento e la educazione sua, nondimeno giudicando i cieli che gli ordini di Romolo non bastavano a tanto Imperio, messono nel petto del Senato romano di eleggere Numa Pompilio per successore di Romolo, acciocchè quelle cose che da lui fossero state lasciate in dietro, fossero da Numa ordinate. Il quale, trovando un Popolo ferocissimo, e volendolo ridurre nelle ubbidienze civili con le arti della pace, si volse alla Religione, come cosa al tutto necessaria a volere mantenere una civiltà, e la costituì in modo, che per più secoli non fu mai tanto timore di Dio quanto in quella Repubblica; il che facilitò qualunque impresa, che il Senato o quelli grandi uomini romani disegnassero fare. E chi discorrerà infinite azioni, e del Popolo di Roma tutto insieme, e di molti dei Romani da per sè, vedrà come quelli cittadini temevano più assai rompere il giuramento che le leggi; come coloro che stimavano più la potenza di Dio, che quella [p. 59 modifica]degli uomini: come si vede manifestamente per gli esempj di Scipione e di Manlio Torquato; perchè dopo la rotta che Annibale aveva dato a’ Romani a Canne, molti cittadini si erano adunati insieme, e sbigottiti e paurosi si erano convenuti abbandonare l’Italia , e girsene in Sicilia ; il che sentendo Scipione, gli andò a trovare, e col ferro ignudo in mano li costrinse a giurare di non abbandonare la Patria. Lucio Manlio, padre di Tito Manlio, che fu dipoi chiamato Torquato, era stato accusato da Marco Pomponio Tribuno della Plebe, e innanzi che venisse il dì del giudizio, Tito andò a trovar Marco, e minacciando d’ammazzarlo se non giurava di levare l’accusa al padre, lo costrinse al giuramento, e quello per timore, avendo giurato , gli levò l’accusa. E così quelli cittadini, i quali l’amore della patria e le leggi di quella non ritenevano in Italia, vi furon ritenuti da uno giuramento che furono forzati a pigliare; e quel Tribuno pose da parte l’odio che egli aveva col padre, la ingiuria che gli aveva fatta il figliuolo, e l’onore suo, per ubbidire al giuramento preso; il che non nacque da altro, che da quella Religione che Numa aveva introdotta in quella città. E vedesi, chi considera bene le Istorie romane, quanto serviva la Religione a comandare agli eserciti, a riunire la Plebe, a mantenere gli uomini buoni, a fare vergognare li tristi. Talchè se si avesse a disputare a quale principe Roma fusse più obbligata, o a Romolo o a Numa, credo che [p. 60 modifica]piuttosto Numa otterrebbe il primo grado; perchè dove è Religione facilmente si possono introdurre l’armi, e dove sono l’armi e non Religione, con difficultà si può introdurre quella. E si vede che a Romolo per ordinare il Senato, e per fare altri ordini civili e militari, non gli fu necessario dell’autorità di Dio, ma fu bene necessario a Numa, il quale simulò di avere congresso con una Ninfa, la quale lo consigliava di quello ch’egli avesse a consigliare il Popolo; e tutto nasceva, perchè voleva mettere ordini nuovi e inusitati in quella città, e dubitava che la sua autorità non bastasse. E veramente mai non fu alcuno ordinatore di leggi straordinarie in un Popolo, che non ricorresse a Dio, perchè altrimenti non sarebbero accettate; perchè sono molti beni, conosciuti da uno prudente, i quali non hanno in sè ragioni evidenti da poterli persuadere ad altri. Però gli uomini savj che vogliono torre questa difficultà, ricorrono a Dio. Così fece Licurgo, così Solone, così molti altri che hanno avuto il medesimo fine di loro. Ammirando adunque il Popolo romano la bontà e la prudenza sua, cedeva ad ogni sua deliberazione. Ben è vero che l’essere quelli tempi pieni di Religione, e quegli uomini con i quali egli aveva a travagliare grossi, gli dettono facilità grande a conseguire i disegni suoi, potendo imprimere in loro facilmente qualunque muova forma. E senza dubbio chi volesse ne’ presenti tempi fare una Repubblica, più facilità troverebbe negli uomini [p. 61 modifica]montanari, dove non è alcuna civiltà, che in quelli che sono usi a vivere nelle città, dove la civiltà è corrotta; ed uno scultore trarrà più facilmente una bella statua da un marmo rozzo, che da uno male abbozzato d’altrui. Considerato adunque tutto, conchiudo che la Religione introdotta da Numa fu tra le prime cagioni della felicità di quella città, perchè quella causò buoni ordini, i buoni ordini fanno buona fortuna, e dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle imprese. E come la osservanza del culto Divino è cagione della grandezza delle Repubbliche, così il dispregio di quello è cagione della rovina di esse. Perchè dove manca il timore di Dio, conviene che o quel Regno rovini, o che sia sostenuto dal timore d’un Principe, che supplisca a’ difetti della Religione. E perchè i Principi sono di corta vita, conviene che quel Regno manchi presto, secondo che manca la virtù d’esso. Donde nasce, che i Regni, i quali dipendono solo dalla virtù d’un uomo, sono poco durabili; perchè quella virtù manca con la vita di quello, e rade volte accade che la sia rinfrescata con la successione, come prudentemente Dante dice:

Rade volte discende per li rami
L’umana probitate, e questo vuole
Quel che la dà, perchè da lui si chiami.

Non è adunque la salute d’una Repubblica o d’un Regno avere un Principe che prudentemente [p. 62 modifica]governi mentre vive, ma uno che l’ordini in modo, che morendo ancora la si mantenga. E benchè agli uomini rozzi più facilmente si persuade un ordine e una opinione nuova, non è per questo impossibile persuaderla ancora agli uomini civili, e che presumono non essere rozzi. Al popolo di Firenze non pare essere nè ignorante nè rozzo; nondimeno da frate Girolamo Savonarola fu persuaso che parlava con Dio. Io non voglio giudicare s’egli era vero o no, perchè d’un tanto uomo se ne debbe parlare con riverenza. Ma io dico bene che infiniti lo credevano, senza avere visto cosa nessuna straordinaria da farlo loro credere; perchè la vita sua, la dottrina, il soggetto che prese, erano sufficienti a fargli prestare fede. Non sia pertanto nessuno che si sbigottisca di non potere conseguire quello che è stato conseguito da altri; perchè gli uomini (come nella prefazione nostra si disse) nacquero, vissero, e morirono sempre con medesimo ordine.