Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio (1824)/Libro terzo/Capitolo 14

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Libro terzo

Capitolo 14

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Le invenzioni nuove,
che appariscono nel mezzo della zuffa,
e le voci nuove che si odino,
quali effetti facciano.

Di quanto momento sia ne’ conflitti e nelle zuffe uno nuovo accidente che nasca per cosa che di nuovo si vegga o oda, si dimostra in assai luoghi: e massime per questo esemplo che occorse nella zuffa che i Romani fecero con i Volsci: dove Quinzio, veggendo inclinare uno de’ corni del suo esercito, cominciò a gridare forte, che gli stessono saldi perché l’altro corno dello esercito era vittorioso: con la quale parola avendo dato animo ai suoi e sbigottimento a’ nimici, vinse. E se tali voci in uno esercito bene ordinato fanno effetti grandi, in uno tumultuario e male ordinato gli fanno grandissimi, perché il tutto è mosso da simile vento. Io ne voglio addurre uno esemplo notabile, occorso ne’ tempi nostri. Era la città di Perugia, pochi anni sono, divisa in due parti, Oddi e Baglioni. Questi regnavano; quelli altri erano esuli: i quali avendo, mediante loro amici, ragunato esercito, e ridottisi in alcuna loro terra propinqua a Perugia, con il favore della parte, una notte entrarono in quella città, e, sanza essere iscoperti, se ne venivano per pigliare la piazza. E perché quella città in su tutti i canti delle vie ha [p. 139 modifica]catene che la tengono sbarrata, avevano le genti oddesche, davanti, uno che con una mazza di ferro rompea i serrami di quelle, acciocché i cavagli potessero passare; e restandogli a rompere solo quella che sboccava in piazza, ed essendo già levato il romore all’armi, ed essendo colui che rompeva oppresso dalla turba che gli veniva dietro, né potendo per questo alzare bene le braccia per rompere; per potersi maneggiare, gli venne detto: - Fatevi indietro! - la quale voce andando di grado in grado dicendo «addietro!», cominciò a fare fuggire gli ultimi, e di mano in mano gli altri, con tanta furia, che per loro medesimi si ruppono: e così restò vano il disegno degli Oddi, per cagione di sì debole accidente.

Dove è da considerare che, non tanto gli ordini in uno esercito sono necessari per potere ordinatamente combattere quanto perché ogni minimo accidenti non ti disordini. Perché, non per altro le moltitudini popolari sono disutili per la guerra, se non perché ogni romore ogni voce, ogni strepito, gli altera e fagli fuggire. E però uno buono capitano in tra gli altri suoi ordini debbe ordinare chi sono quegli che abbino a pigliare la sua voce e rimetterla ad altri, ed assuefare gli suoi soldati che non credino se non a quelli; e gli suoi capitani, che non dichino se non quel che da lui è commesso; perché, non osservata bene questa parte, si è visto molte volte avere fatti disordini grandissimi.

Quanto al vedere cose nuove, debbe ogni capitano ingegnarsi di farne apparire [p. 140 modifica]alcuna, mentre che gli eserciti sono alle mani, che dia animo a’ suoi e tolgalo agli inimici; perché, intra gli accidenti che ti diano la vittoria, questo è efficacissimo. Di che se ne può addurre per testimone Caio Sulpizio, dittatore romano; il quale venendo a giornata con i Franciosi, armò tutti i saccomanni e gente vile del campo; e quegli fatti salire sopra i muli ed altri somieri con armi ed insegne da parere gente a cavallo, gli messe sotto le insegne, dietro ad uno colle, e comandò che, ad uno segno dato, nel tempo che la zuffa fosse più gagliarda, si scoprissono e mostrassinsi a’ nimici. La quale cosa così ordinata e fatta, dette tanto terrore ai Franciosi, che perderono la giornata. E però uno buono capitano debbe fare due cose: l’una, di vedere, con alcune di queste nuove invenzioni, di sbigottire il nimico; l’altra, di stare preparato che, essendo fatte dal nimico contro di lui, le possa scoprire, e fargliene tornare vane. Come fece il re d’India a Semiramis; la quale, veggendo come quel re aveva buono numero di elefanti, per isbigottirlo, e per mostrargli che ancora essa n’era copiosa, ne formò assai con cuoia di bufoli e di vacche, e, quegli messi sopra i cammegli, gli mandò davanti; ma conosciuto da il re lo inganno, le tornò quel suo disegno, non solamente vano, ma dannoso. Era Mamerco, dittatore, contro ai Fidenati, i quali, per isbigottire lo esercito romano, ordinarono che, in su l’ardore della zuffa, uscisse fuori di Fidene numero di soldati con fuochi in su le lance, acciocché i Romani, [p. 141 modifica]occupati dalla novità della cosa, rompessono intra loro gli ordini. Sopra che è da notare, che, quando tali invenzioni hanno più del vero che del fitto, si può bene allora rappresentarle agli uomini, perché, avendo assai del gagliardo, non si può scoprire così presto la debolezza loro: ma quando le hanno più del fitto che del vero, è bene, o non le fare o, faccendole, tenerle discosto, di qualità che le non possino essere così presto scoperte; come fece Caio Sulpizio de’ mulattieri. Perché, quando vi è dentro debolezza, appressandosi, le si scuoprono tosto, e ti fanno danno, e non favore; come fero gli elefanti a Semiramis, e ai Fidenati i fuochi: i quali benché nel principio turbassono un poco lo esercito, nondimeno, come e’ sopravenne il Dittatore, e cominciò a gridargli, dicendo che non si vergognavano a fuggire il fumo come le pecchie, e che dovessono rivoltarsi a loro; gridando: «Suis flammis delete Fidenas, quas vestris beneficiis placare non potuistis»; tornò quello trovato ai Fidenati inutile, e restarono perditori della zuffa.