Etica/Libro Secondo/VII

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VII. - La possibilità della conoscenza vera

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Baruch Spinoza - Etica (1677)
Traduzione dal latino di Piero Martinetti (1928)
VII. - La possibilità della conoscenza vera
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VII. — La possibilità della conoscenza vera.


Nelle prop. 37-47 Spinoza tratta della conoscenza vera e della sua possibilità nell’uomo. Se tutte le idee fossero tali da poter essere isolate dalla concatenazione divina e perciò esser rese mutile e confuse, non vi sa­rebbe per noi speranza di salute: donde avrebbe inizio per noi la conoscenza della verità? Ma vi sono idee tali che nemmeno la nostra radicale imperfezione può tra­sformare inadequate e queste sono le idee che non possono venir ristrette ad un’essenza particolare e perciò non possono venir isolate dalla concatenazione divina: le idee degli attributi e della sostanza divina, che sono il fondamento di tutte le idee particolari.

Prop. 38. Quello che è comune a tutte le cose e si trova in maniera uguale nella parte e nel tutto non può venir concepito che in modo adequato.

Dimostrazione. Sia A qualche cosa che è comune a tutti i corpi e che si trovi egualmente nel tutto e nella parte d’un corpo qualunque. Io dico che A non può essere concepito che adequatamente. Infatti l’idea sua sarà necessariamente ade­quata in Dio, sia in quanto Dio ha l’idea del corpo umano, sia in quanto ha le idee delle affezioni del corpo, le quali involgono [p. 61 modifica]parzialmente tanto la natura del corpo umano quanto quella dei corpi esterni: cioè quest’idea sarà necessariamente adequata in Dio sia in quanto costituisce la mente umana, sia in quanto ha idee che sono nella mente umana; pertanto la mente perce­pisce necessariamente A in modo adequato e ciò sia in quanto percepisce sè, sia in quanto percepisce il suo corpo o qualunque corpo esterno; nè A può essere concepito in altro modo. Q. E. D.

Spinoza parla di queste idee comuni, come se fos­sero indeterminatamente molte (prop. 38, coroll.): ma in realtà si riducono alle idee di Dio e dei suoi attributi. Anche qui Spinoza, fedele al suo parallelismo, vede anzitutto queste idee comuni sotto il loro aspetto fisico; se vi sono idee comuni a tutte le idee delle es­senze singole, vi devono essere realtà fisiche comuni a tutti gli esseri fisici particolari: sono queste realtà fi­siche universali che, sotto l’aspetto spirituale, costitui­scono le idee universali (prop. 39). Queste idee univer­sali sono le vere idee innate, notiones communes: esse sono idee di entità universali sì, ma individuali e con­crete e perciò sono ben da distinguersi dalle idee generali, astratte (le notiones secundæ), le quali non sono che rappresentazioni generiche confuse.

Questi termini [i termini cosidetti trascendentali della scolastica, come essere, cosa, qualche cosa, ecc.] nascono da ciò che il corpo umano, essendo limitato, è capace di formare di­stintamente in se stesso solo un certo numero d’immagini ad un tempo: se questo numero è sorpassato, queste immagini cominciano a confondersi; e se il numero delle immagini di­stinte che il corpo è capace di formare in se stesso ad un tempo, è sorpassato di gran lunga, esse si confondono intieramente fra loro. Così essendo, è evidente che la mente umana potrà imma­ginare distintamente ad un tempo tanti corpi quante sono le immagini che possono simultaneamente formarsi nel suo corpo. Ma appena le immagini nel corpo si confondono del tutto, anche la mente immaginerà senza distinzione tutti i corpi confusamente e li abbraccerà in certo modo sotto un unico predicato, dell’ente, della cosa, ecc. Questo può anche derivare da ciò che [p. 62 modifica]non sempre le immagini hanno la stessa forza e da altre cause simili, che qui non è necessario esplicare. Tutte infatti riescono a ciò che questi termini significano delle idee in sommo grado confuse. Da cause simili sono nate anche quelle nozioni che si chiamano universali, come uomo, cavallo, cane, ecc.; in quanto nel corpo umano si sono formate ad un tempo tante immagini, per es., di uomini, che superano la potenza immaginativa, non del tutto invero, ma abbastanza perchè la mente non possa rappresentarci nè le piccole differenze dei singoli (e cioè il colore di ciascuno, la grandezza, ecc.), nè il loro numero determinato e si rappresenti distintamente soltanto ciò in cui tutti coincidono, in quanto affettano il corpo; perchè questo elemento comune è quello che ha impressionato più vivamente il corpo, ritrovandosi in tutti gli esseri singoli; ed è questo elemento che la mente dice «uomo», predicandolo degli infiniti esseri singoli. Ma bisogna notare che queste nozioni non sono formate da tutti alla stessa maniera; esse variano in ciascuno secondo la cosa da cui il corpo è stato più spesso affetto e che la mente si rappresenta e ricorda più facilmente. Quelli, per es., che hanno più spesso con meraviglia considerato la statura degli uomini intenderanno sotto il nome di uomo un animale dalla statura diritta; coloro invece che sono abituati a considerare altro si formeranno degli uomini un’altra immagine comune e cioè diranno l’uomo essere un animale che ride, un bipede implume, un animale razionale; e così per gli altri oggetti ciascuno si formerà, secondo la disposizione del suo corpo, diverse immagini generali delle cose. Onde non è meraviglia che tra i filosofi, i quali vollero spiegare la natura per mezzo delle sole immagini delle cose, siano sorte tante controversie. (Et., II, 40, scol. 1).


Le idee innate, che sono sempre necessariamente vere, diventano poi l’origine di altre idee vere.

Prop. 40. Tutte le idee che conseguono nella mente da idee, che sono in essa adequate, sono anch’esse adequate.

Il passaggio alla conoscenza adequata della realtà ha luogo così per un grado intermedio: la conoscenza [p. 63 modifica]adequata dei principii universali. Quindi si hanno tre gradi nella conoscenza. Il primo è dato dalla conoscenza inadequata, dall’imaginatio (che Spinoza distingue ancora in conoscenza derivante dall’esperienza e dalla tradizione). Il secondo è la conoscenza dei principii universali, che contengono ancora solo in potenza, in astratto, la conoscenza adequata della realtà. Il terzo è la conoscenza adequata immediata, intuitiva.

Da tutto ciò che si è detto appare chiaramente che le nostre rappresentazioni e le nostre nozioni generali derivano: 1° dalle cose singole che il senso ci rappresenta in modo mutilo, confuso e senza ordine in rapporto all’intelletto; perciò ho solitamente chiamato queste rappresentazioni conoscenze per esperienza vaga; 2° dai segni, per es., da ciò che, avendo udito o letto certe parole, ci ricordiamo delle cose e ce ne formiamo certe idee simili a quelle che ci dà il senso. Io chiamerò l’uno e l’altro modo di conoscere d’ora innanzi cognizione di primo genere, opinione o immaginazione; 3° Infine da ciò che noi abbiamo delle nozioni comuni e delle idee adequate delle proprietà delle cose: io chiamerò questo modo di conoscere ragione o conoscenza di secondo genere. Oltre questi due generi di conoscenza ve n’è ancora un terzo, come lo mostrerò in seguito, che diremo scienza intuitiva. E questo genere di conoscenza procede dall’idea adequata dell’essenza formale di certi attributi di Dio alla conoscenza adequata dell’essenza delle cose. — Spiegherò tutto questo con un solo esempio. Dati, per es., tre numeri, se ne può ottenere un quarto che stia al terzo, come il secondo al primo. Dei mercanti non esiteranno a moltiplicare il secondo per il terzo ed a dividere il prodotto per il primo; o perchè non hanno ancora dimenticato ciò che hanno imparato dai loro maestri senza alcuna dimostrazione o perchè spesso hanno esperimentato questo procedimento su numeri molto semplici o per forza della dimostrazione della prop. 19 del lib. VII d’Euclide, cioè per la proprietà comune dei numeri proporzionali. Ma per i numeri più semplici niente di tutto ciò è necessario. Dati, per es., i numeri 1, 2, 3 non vi è alcuno che non veda che il quarto proporzionale è 6 e questo molto più chiaramente, perchè dal rapporto stesso, che noi per un atto di [p. 64 modifica]intuizione vediamo avere il primo col secondo, concludiamo senz’altro il quarto. (Et., II, 40, scol. 2).

2) La conoscenza vera introduce anche nell’anima la certezza della verità, quel senso di evidenza che nella scuola cartesiana era considerato come il criterio infallibile della verità. E questo non perchè si accorda con il suo oggetto (l’ideato), ma perchè è una realtà intrinsecamente perfetta, laddove l’idea falsa è, anche come idea, una realtà mutila. L’evidenza è la coscienza che il vero conoscere ha di se stesso. La falsa certezza che può talora accompagnare l’errore non può essere con fusa con l’evidenza, perchè non è che assenza di riflessione e di critica.

Prop. 43. Chi ha un’idea vera sa nello stesso tempo di avere un’idea vera nè può dubitare della verità della cosa.

Nessuno che ha un’idea vera ignora che l’idea vera involge la più alta certezza: aver un’idea vera non significa infatti altro se non conoscere una cosa perfettamente o il meglio possibile; nè alcuno potrà dubitare di questo a meno di credere che l’idea sia qualche cosa di muto come una pittura su d’una tavola e non un modo del pensiero, cioè l’atto medesimo del conoscere. Io chiedo infatti: chi può sapere che conosce una cosa, se non conosce prima la cosa? Cioè a dire, chi può sapere di aver la certezza su qualche cosa, se prima non ha questa certezza? D’altra parte che cosa può esservi di più evidente e di più certo dell’idea vera come norma della verità? Come la luce fa conoscere sè e fa conoscere le tenebre, così la verità è norma di sè e del falso. (Et., II, 43, scol.).

Abbiamo mostrato che la falsità consiste nella sola privazione che involgono le idee mutile e confuse. Perciò l’idea falsa, in quanto falsa, non implica la certezza. Quando dunque noi diciamo che un uomo trova la quiete nel falso e non ne dubita, noi non diciamo che possiede la certezza, ma solo che non dubita o che si acquieta nel falso perchè non vi sono cause le quali facciano sì che la sua rappresentazione diventi fluttuante. Per quanto fortemente dunque si voglia supporre che un uomo [p. 65 modifica]aderisca al falso, noi non diremo mai che è certo. Perchè per certezza noi intendiamo qualche cosa di positivo, non la privazione del dubbio. ('Et., II, 49, scol.)


3) Come la conoscenza mutila e confusa aveva per effetto di farci apparir le cose come mutevoli e contingenti, di trasformare il mondo delle essenze eterne in un mondo di cose soggette al tempo, così per contro la conoscenza che partendo dalle idee universali adequate, procede alla ricostruzione del sistema delle idee vere ci apprende le cose nel loro ordine e nella loro necessità. Essa è ciò che Spinoza chiama ragione.

Prop. 44. Appartiene alla natura della ragione il contemplare le cose non come contingenti, ma come necessarie.

Essa è un processo, non un semplice atto e non ci pone senz’altro dinanzi al regno dell’eternità: ma ce ne apre la possibilità, riverbera sulle cose contemplate la luce delle cose eterne: perciò Spinoza dice che essa ci fa apprendere le cose sotto un certo aspetto dell’eternità (sub quadam æternitatis specie)1.


4) Nelle prop. 45-47 Spinoza tratta infine dell’idea universale suprema che è sempre in noi perfetta ed adequata, che è la sola e la vera idea innata — dell’idea di Dio. Come Dio è il fondamento immutabile di tutte [p. 66 modifica]le cose, così l’idea di Dio è necessariamente implicata in tutte le altre idee: ed essendo il loro principio universale e comune, non può mai diventare mutila e confusa. Il principio, da cui sorge in noi la conoscenza vera, il germe incorruttibile che ciascuno porta in sè e che può diventare il principio della liberazione, è dunque veramente l’ idea innata di Dio, la presenza immediata di Dio nell’anima.

Prop. 45. Ogni idea di qualsivoglia corpo o con singolare attualmente esistente involge necessariamente l’eterna ed infinita essenza di Dio.

Prop. 46. La conoscenza dell’infinita ed eterna essenza di Dio, che ogni idea involge, è adequata e perfetta.

Prop. 47. La mente umana ha una conoscenza adequata dell’infinita ed eterna essenza di Dio.

Che l’uomo abbia almeno un principio della vera conoscenza di Dio, per Spinoza non è dubbio. Le controversie e gli errori che sorgono in questo campo nascono da ciò che gli uomini vi uniscono spesso immagini incongrue e non esprimono con chiarezza e precisione il proprio pensiero: gran parte delle dispute teologiche sono dispute verbali.

Alla tua questione se io abbia di Dio un’idea così chiara come del triangolo, rispondo affermando. Ma se mi interroghi se io abbia un’immagine così chiara di Dio come del triangolo, risponderò negando: perchè non possiamo rappresentarci Dio, ma possiamo ben pensarlo. Ed ancora è da notare che io non dico di conoscere Dio a fondo, ma di conoscere alcuni dei suoi attributi, non tutti e nemmeno la massima parte: ed è certo che l’ignoranza nella massima parte dei punti non impedisce di avere conoscenza di alcuni di essi. Quando io studiava gli Elementi d’Euclide, ho compreso tra le prime cose che i tre angoli d’un triangolo sono pari a due retti; io comprendeva allora chiaramente questa proprietà del triangolo, sebbene ne ignorassi molte altre. (Lett. 56).

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Di qui vediamo che l’essenza infinita e l’eternità di Dio sono da tutti conosciute. E poiché tutte le cose sono in Dio e sono concepite per mezzo di Dio, ne segue che noi da questa conoscenza potremo dedurre moltissime altre conoscenze ade­quate e formare così quel terzo genere di cognizione del quale dicemmo nello scolio 2 della prop. 40 e della cui eccellenza ed utilità tratteremo nel quinto libro. Che poi gli uomini non ab­biano di Dio una conoscenza così chiara come delle nozioni co­muni, viene da ciò che non possono rappresentarsi Dio come si rappresentano i corpi e che hanno associato il nome di Dio alle immagini delle cose che sono soliti a vedere; ciò che difficil­mente gli uomini possono evitare in quanto sono continuamente affetti dalle cose corporee. E in realtà la maggior parte degli errori consistono solo in questo, che non applichiamo giusta­mente i nomi alle cose. Quando alcuno dice che le linee con­dotte dal centro del circolo alla circonferenza sono disuguali, certo egli intende, almeno allora, per circolo altra cosa da quella che intendono i matematici. Così quando gli uomini er­rano in un calcolo, hanno nel pensiero altri numeri da quelli che hanno sulla carta... E di qui nascono la maggior parte delle controversie, ossia da ciò che gli uomini non spiegano corret­tamente il loro pensiero o interpretano male l’altrui. In realtà, quando massimamente si contraddicono, o pensano le stesse cose o pensano diversamente ma di cose diverse, sì che gli errori e gli assurdi, che si imputano, non sussistono. (Et., II, 47, scol.).

Note

  1. Le osservazioni del Baensch (Spinoza’s Ethik, p. 284) contro l’interpretazione usuale dell’espressione «sub æternitatis specie» mi sembrano un’innovazione assai infelice. La frase «sub specie» nel senso qui adottato ricorre già nella scolastica. Non è nemmeno vero, del resto, quello che il B. asserisce, e cioè che in Spinoza species significhi sempre falsa apparenza. Ciò è vero solo in due dei tre esempi da lui citati: e cioè in Eth., IV, cap. XVI (quamvis pietatis speciem prae se ferre videatur) e il cap. XXIV (quamvis indìgnatio æquitatis speciem prae se ferve videatur); ma nell’altro es. citato e cioè Eth., V, 10, schol. (falsa liberatis specie gaudere) ed altrove, come, p. es., Eth., IV, cap. XXII (falsa pietatis et religionis species) la falsa apparenza è detta falsa species; ciò che presuppone species = vera species.