Faust/Parte seconda/Atto quinto/Un palazzo

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Atto quinto - Un palazzo

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Atto quinto - Nel giardinetto Atto quinto - Notte oscura e profonda
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UN PALAZZO.

Parco spazioso; canale navigabile.


FAUSTO, cadente per età va passeggiando sovrappensieri.

Linceo, guardiano della torre, parla colla tromba marina. Tramonta il Sole, e gli ultimi navigli entrano a corsa nel porto. Un lancione sta per imboccare il canale; i pennoncelli di vario colore ondeggiano al vento scherzosamente; gli alberi s’ergono in tutta la loro magnificenza; il pilota giubila pensando a te, [p. 459 modifica]cui voglion tutti per molti e molt’anni avventurato e contento. (S’odono i rintocchi della campanella, sulla duna.)

Fausto infuriato. Maledetto scampanio, che mi ferisce nel cuore vergognosamente come un colpo di fucile nelle prunaie! Stammi dinanzi un regno senza confine, e dovrò io patire che mi sorga il nemico dalle spalle a deridermi, e a rimembrarmi ad ogni tanto con questa squilla invidiosa la illegittimità del vasto mio territorio? Il tratto occupato da’ tigli, quella nereggiante capannuccia, e la cappella di muschio coverta, ah! tutto ciò non è mio. Se a svagarmi un tratto, movo il piè da quella parte, è indicibile da che strano orrore mi senta cogliere. Dure spine mi dan negli occhi, e spine mi trafiggono ad ogni passo le piante. Ah! foss’io ben lungi da qui!1 [p. 460 modifica]

Il Guardiano della torre, parlando colla tromba marina come sopra. Oh! come il variopinto lancione vien lesto alla nostra volta col favore della brezza vespertina! Oh! come tutto è stipato di casse, di forzieri, di sacchi! (Compare una lancia magnifica ed elegante, con carico ricco e svariato di prodotti de’ lontani paesi.)

MEFISTOFELE e i TRE CAMPIONI suoi compari.

Coro. Già presso è la riva;

                  Sul lido scendiam.
                  Di salve, d’evviva
                  Al donno e signore
                  Onore — rendiam!

(Scendono dal lancione, e sbarcano tutte quelle ricchezze.)

Mefistofele. Ci siamo diportati da prodi; beati noi se n’avremo l’approvazione del padrone! Due soli erano al partire i navigli, e adesso entriamo in porto con una ventina: che s’è fatto, operato un mondo di cose grandi, rilevar puossi dal nostro carico. Il libero oceano emancipa lo spirito: chi è che sappia, mentre si vanno solcando le onde, che diavolo sia la calcolatrice prudenza? Là poca gente ma ardita è quanto occorre per fare fortuna: adesso un pesce, poco stante ti vien presa una nave: e come ti riesca d’averne tre, ti dà in mano la quarta; quanto alla quinta, guai per essa! chi ha forza ha diritto — la è spacciata in brev’ora. Domandasi il perchè, e nessuno s’imbarazza del come. Ch’io punto punto non m’intenda di nautica, se la guerra, il commercio, e la pirateria non sono una terna indivisibile. [p. 461 modifica]

I tre Campioni compari. Nè grazie nè buondi, nè buondi nè grazie! quasi fossimo portatori di concime! Ei ne fa un brullo cipiglio; del regio bottino non si mostra gran che soddisfatto.

Mefistofele. Non v’aspettate per questo ricompensa veruna; ma pigliatela da per voi senza meno.

I Compari. Non foss’altro che per l’incomodo, noi pretendiamo tutti un’eguale porzione.

Mefistofele. Ponete all’ordine, sala per sala, quanto di prezioso avete con voi, e com’egli sia venuto a godersi la magnifica mostra, e a contemplare uno ad uno codesti oggetti vistosi, vi so dir io che nol vedrete far da pitocco, sibbene regaleravvi egli a ufo. Gli augelli di manto variopinto verranno domani; sarà mia cura ch’e’ sieno provveduti nel miglior modo. (Il carico è interamente trasportato.)

Mefistofele a Fausto. Colla fronte accigliata, con guardo cupo e melanconico, accogli tu dunque la nuova della suprema felicità? L’Altezza tua s’è cinta la corona; la spiaggia s’è rappacificata col mare, che di buon grado accoglie dalla sponda i pavigli onde seco portarseli celeremente pel lungo ondoso cammino. Ti è d’uopo quindi confessare che, da questo tuo palagio, costringi fra le braccia a tua posta intero il mondo. Da qui ebbe ogni cosa cominciamento; là venne la prima nave costrutta, e un fossatello poco oltre scavavasi dove oggidì il remo faticoso rompe le acque profonde e spumanti. L’eccelso tuo senno e l’operosità de’ tuoi seppero far conquisto della terra e dei mari. Da qui...

Fausto. Ecco il maladetto! donde procede in me questo grave peso che mi opprime. A te, essere cui [p. 462 modifica]spedienti non mancano, debbo dir chiaro e tondo, ch’io ne ho l’anima d’ora in ora più stizzita ed esulcerata, talchè oggimai il durarla così mi riesce insopportabile! Solo a parlarne, ne provo confusione e rossore. Converrebbe che i due vecchi laggiù pigliassero il puleggio, vorrei di que’ tigli che vedi far la mia residenza; que’ pochi e miseri tigli che non m’appartengono, mi attossicano il possesso di un mondo. Vorrei colaggiù, perchè nulla all’ingiro m’impedisse la vista, appiccare il fuoco a quegli arbusti, e schiudermi così un ampio orizzonte per contemplare quanto feci sinora, e per abbracciare con sola un’occhiata il capolavoro dello spirito umano, popolando, nel mio pensiero, tutti quest’immensi dominii.

Non la è forse questa la più aspra tortura: conoscere, nella strabocchevole dovizia, che pur qualche cosa ti manca? Il tintinnío della campanella, l’odor di que’ tigli, mi serrano il cuore com’io fossi entro la chiesa o già in sepoltura. Il volere dell’Onnipotente si fa strada persino su questi sabbioni: ho un bel farmi cuore, la piccola campana manda un suono, e io do nelle furie.

Mefistofele. È chiaro come la luce del sole che un fastidio mortale li avvelena la vita. Chi potrebbe negarlo? A qualsia orecchio dilicato, il rintocco delle campane è noioso e ripugnante. E questo maladetto din dan din dirin don che gravita continuo il sereno aere del vespero, si frappone ad ogni accidente, dalla prima abluzione fino alle esequie, quasi che fra din e don tutta quanta la vita altro non fosse che un sogno inutile e vano. [p. 463 modifica]

Fausto. La resistenza, la caparbieria, amareggiano la più vistosa e ricca facoltà, e solo per tuo danno e disgusto ti vai affannando a metterti sul cammino della giustizia.

Mefistofele. E ciò l’imbarazza? Non hai tu fra’ tuoi progetti quello di stabilire delle colonie?

Fausto. Vanne dunque, e fa in guisa che sgombrino! Ben sai tu che bel poderello abbia destinato a questi vecchi barbogi.

Mefistofele. Si tolgono via di qui, si posano laggiù; e prima che abbiano il tempo di pur volgersi indietro, sono al loro posto. Se la violenza li trarrà sulle prime a indispettirsi, la bellezza del nuovo soggiorno non fia tarda a pacificarli. (Manda un fischio forte e acuto. I Tre si avanzano.) Movetevi a prendere gli ordini del padrone, e domani ci avrà baldoria in sulle navi.

I Tre. Il vecchio signore n’accolse poco bene; converrà che in compenso diaci una festa co’ fiocchi e co’ festoni.

Mefistofele ad spectatores. Interviene qui ciò che da lunga pezza è intravvenuto: la vigna di Naboth già esisteva.2 [p. 464 modifica]

Note

  1. La campanella della chiesuola riesce importuna a Fausto: lo strepito di codesta voce metallica acuta e penetrante ne lo mette di mal umore, e ripugna al suo temperamento: ecco un fatto idiosincratico ben poco dissimile dall’antipatia di Wallenstein pel cantare del gallo. Qui pure si rivela Goethe, che avversava ogni esteriore manifestazione della Chiesa, e non poteva soffrire le campane e le piccole croci di legno sparse per le campagne. In questi tocchi particolari del suo carattere, possiamo, assai meglio che non altrove, rilevare fino a qual segno la persona del Poeta siasi riflessa nell’indole del suo protagonista; in cui troveresti persino le antipatie, e le triviali superstizioni di lui. Col divario per altro, che ogni cosa ha qui il suo perchè, e la finzione viene dal centro medesimo dove ti si mostra quasi imponente realtà: e ciò ch’era debolezza, superstizione, pazzia dell’uomo vecchio, e non altro, per l’effetto del dramma cangiasi in moralità ed in allegoria. Chi è che non comprenda il senso di questa campana, cui Filemone e Bauci, la virtù dell’età primitiva, la beatitudine nell’ignoranza e dell’amore, fan risuonare presso a confini de’ vasti dominii di Fausto, e il cui squillo importuno l’assedia ad ogni poco, e lo persegue fin nella pienezza dell’esistenza e della fortuna, e fra gl’immensi tesori che i flutti tributari depongono continuo a’ suoi piedi?
  2. Mefistofele, da vero diavolo che sa la Bibbia a menadito, cita qui il fatto della vigna di Nabot, sempre in appoggio della sentenza sua favorita, che, cioè, nulla di nuovo accade quaggiù. — «Naboth Jezzahelita avea in Jezzahel una vigna presso al palazzo di Achab re di Samaria. Achab adunque parlò a Naboth, e dissegli: Dammi la tua vigna, di cui vo’ farmi un orto di erbaggi, perchè ella è vicina e contigua alla mia casa, e darotti in sua vece una vigna migliore; o, se lo credi più utile per te, quel prezzo che ella merita, in denaro. Rispose a lui Naboth: Così m’aiuti il Signore, com’io non darò a te l’eredità de’ padri miei. Achab pertanto si ritirò a casa sua sdegnato.... e non prese cibo. Or Jezabele, sua moglie scrisse una lettera a nome di Achab, e la sigillò col sigillo di lui, e la mandò a’ seniori e a’ magnati che stavano in quella città, e abitavano insieme con Naboth. E la sostanza della lettera ell’era questa: Intimate il digiuno, e fate sedere Naboth tra i principali del popolo, E mandate sottomano due uomini figliuoli di Belial, i quali rendano falso testimonio contro di lui, e dicano: Egli ha bestemmiato contro Dio e contro il re; e voi conducetelo fuora e lapidatelo, e cosi muoia.» — L’ordine di Jezabele fu eseguito; ma l’occupazione della vigna riuscì fatale ad Achab. (Dei Re, III, 21.) Mefistofele, che sa l’avventura di Naboth, alla quale senza verun dubbio avrà, qualche migliaio d’anni prima contribuito, trova che Fausto nella colpevole sua cupidigia altro non è che un misero plagiario del re di Samaria. Le umane passioni, eziandio ne’ più strani loro traviamenti, nulla inventano di nuovo: mirabile punto di vista, che se da un lato serve alla causa di Mefistofele nel processo ironico da lui intentato contro l’umanità, giova dall’altro al bene. Tolgasi al delitto la parte che vi hanno la boria e la mala propensione, che n’avanza? Del resto, l’amare i proverbi e le sentenze, e lo spacciarne fin quando v’ha rischio di predicare con quelli il bene, la è qualità tutta particolare al personaggio di Mefistofele. In fondo il vecchio diavolo non è poi tanto tristo quanto s’immagina; se la natura demoniaca trapela ancora, ciò avviene per intervalli, e quasi a non perderne l’abitudine: ma la sua individualità si cancella, e prende più dell’umano. V’ha in ciò che lo riguarda un tocco di panteismo.