Faust/Parte seconda/Atto terzo/Corte interna del castello

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Atto terzo - Corte interna del castello

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Johann Wolfgang von Goethe - Faust (1808)
Traduzione dal tedesco di Giovita Scalvini, Giuseppe Gazzino (1835-1857)
Atto terzo - Corte interna del castello
Atto terzo - Prospetto del palazzo di Menelao Atto quarto - Atto quarto
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CORTE INTERNA DEL CASTELLO

cinta da ricchi e fantastici edifizi, secondo il gusto del medio evo.

La Corifea. Pazze, balorde, vere femminucce! gioco a’ molti capricci della ventura e dello infortunio, inette a sortare impassibili nè questo nė quella! E’ debbe sempre esserci taluna in fra voi che ad un’altra si opponga; vo’ non siete mai e poi mai dello stesso parere; la gioia e l’affanno sono i soli che possano trarvi a ridere o a piangere tutte d’un modo. Silenzio! e attendasi con sommissione quello che la magnanima nostra sovrana si piaccia per sė e per noi deliberare!

Elena. Ove dunque se’ tu, o pitonessa? Qualunque sia il nome che ti fu imposto, esci, fuor esci dalle cupe volte di questo tetro ostello! Saresti tu per avventura ita ad annunciarmi al misterioso signore di codesti luoghi, e a prepararmi buona accoglienza? Allora io le ne rendo le debite grazie, e pregoli che al più tosto vêr lui mi conduca: perocchè io sospiro al termine de’ miei errori, nè altro più vivamente desidero che un po’ di riposo!

La Corifea. Avresti, o regina, un bel cercare [p. 381 modifica]intorno da te: lo schifoso fantasma è sparito; o tiensi forse nella nube in seno alla quale noi fummo qui condotte, non so come, ratto come lampo senza muovere un passo. Se pur non è ch’egli erri, smarrito nel labirinto di questo mirabile castello, di tanto varia e molteplice armonia, cercando, come dicevi, il padrone perdisporlo a prestarti l’omaggio a’ principi dovuto. Ma vedete lassù nelle gallerie, sui poggiuoli, sotto i porticati, agitarsi tutta affaccendata, una fila numerosa di paggi e valletti! ogni cosa ne porge indizio di un ricevimento nobile ed ospitale.1

Il Coro. Il mio spirito ripiglia lena e si dilata. Oh! mirate con quanta grazia, e con passi tardi e in cadenza, il dolce e giovane drappello conduce il ben ordinato corteggio! E come mai, e per cenno di chi, dassi egli a vedere così di buon’ora acconcio e disposto questo popolo regale di garzoncelli? Mal saprei dire qual cosa ecciti in me maggior meraviglia, se le mosse dignitose, o se le ciocche de’ lor biondi capegli che ne adornano la splendida fronte, o se le gotuzze incarnatine e sparse di morbida lanugine, sembianti a pèsche rosee vellutate. Che gusto mi darebbe il morsecchiarle un pocolino! ma non so decidermivi, sapendo che in tal caso, la bocca, orribile a dirsi! ti si riempie di cenere!2

Ma questi be’ garzoni s’avanzano; che portano essi mai? I gradini pel trono, i tappeti, il cuscino, [p. 382 modifica]le cortine e gli addobbi per la tenda; la quale si spiega a bei festoni in sul capo della nostra regina, chè già Elena, invitata, tiensi sul regal seggio assisa. Salite lassù, per ogni grado; e disponetevi in grande solennità! Oh benedetta, oh benedetta, oh per la terza e per la millesima volta giustamente benedetta una così dignitosa accoglienza! (Quanto va cantando il Coro appuntino si compie.)

FAUSTO, dopo che i giovinetti e gli scudieri ebbero sfilato, mostrasi allalto della scala, sfarzosamente vestito del cavalleresco abito di corte del medio evo, e discende lentamente e con dignità maestosa.

La Corifea osservandolo con attenzione. Se gli Dei, come usano spesso di fare, non diedero in prestanza a costui per breve tempo quel mirabile e dignitoso aspetto, quell’aria sublime, e quell’amabile contegno, tutto quanto fia da esso intrapreso avrà il suo buon effetto, sia ch’ei mova guerra agli uomini, sia ch’entri in lievi lotte amorose colle belle e galanti femmine. Confesso ch’e’ mi pare dappiù di tanti altri che a’ miei occhi davansi a vedere come pregevoli in sommo grado. Ed eccolo avanzarsi con passo grave e solenne che ti astringe alla venerazione. Volgiti a lui, o regina!

Fausto s’innoltra, avendo da fianco un uomo in catene. Invece di riverentemente salutarti qual si converrebbe, invece di dirti con voce solenne la benvenuta, traggoti innanzi, carico di ferri, codesto servo indegno, che mancando al suo debito, di compiere il mio m’impediva. — Cadi ora appiè dell’augusta signora, e a lei ti confessa colpevole qual sei [p. 383 modifica]veramente. Eccoti, o eccelsa principessa, l’uomo dall’occhio di lince incaricato di tenersi dal comignolo dell’erta torre, alla vedetta: gli è suo uffizio il mandare di lassú intorno intorno il vigile sguardo, esplorando per l’immensurata distesa de’ cieli e della terra, quanto si riveli o si muova da’ colli vicini e nella valle ond’è la nostra rocca da tutte parti cinta e difesa. Appare talvolta un branco di agnelli, tal altra una legione d’armati; e noi proteggiamo i primi, e piombiamo addosso ai secondi. Ed ora, o trascuraggine fatale! tu vieni in mezzo a noi, nè egli ti annunzia, di che l’accoglienza vien manco per ospite così degna, quell’accoglienza che appo noi suol essere la più sacra e solenne. Egli ha temerariamente posta a gioco la vita, e già dovrebbe essere colpito della meritata morte, e nel proprio sangue riverso; ma tu, tu sola hai da punire o far grazia secondo il tuo beneplacito.

Elena. Per quanto grande sia la dignità da te conferitami, dignità di giudice, e di sovrana, e tutto che fosse tuo solo pensiere quello di provarmi, non vo’ per questo mancare al primo debito del giudice, che è di sentire l’accusato. Parla dunque!

Il Custode della torre, Linceo.3 Lascia che [p. 384 modifica]ginocchi, — ch’io la contempli, — lasciami morire, vivere chè omai son tutto, anima e corpo, di questa donna da’ cieli discesa.

Aspettava io il chiaror mattinale; spiava dall’oriente lo spuntar dell’alba, quand’ecco, oh prodigio! veggomi di tratto raggiare il Sole sorgente dal mezzodì.

Mi volsi tosto da quella parte per affissarmi in costei, nulla più corando nè di valli nè di montagne, nè di quanti sono gli spazi in fra la terra ed il cielo. Ho, gli è vero, gli occhi di lince in agguato sulla cima di una pianta; ma in tal punto mi convenne lottare a gran forza per uscire da una visione profonda.

Come poter’io me in me riconoscere? E piattaforma, e torre, e porta sbarrata, e vaganti vapori, tutto, tutto dileguasi, e sola questa Dea mi sta salda dinanzi!

Colla pupilla e col cuore rapiti in essalei, io aspirava per le nari e per la bocca il dolce anelito di lei: questa sfolgorante bellezza beava ogni minima fibra di me povero e sciagurato!

Così il debito del guardiano, e il corno, e i fatti giuramenti, mi venne posta in dimenticanza ogni cosa! Or va, minaccia pure di annientarmi; la beltà doma qual sia impeto di furore.

Elena. Al male ch’io feci non saprei assegnare un castigo. Misera a me! Qual destino fatale mi persegue, ch’io porto ovunque lo scompiglio infra gli uomini, sino a far ch’e’ non tengano più verun conto nè di sè nè di nulla al mondo! Per via di rapimenti, di seduzioni, di guerre i semidei, gli eroi, [p. 385 modifica]i numi, sì, gli stessi numi e i demoni m’hanno forviata qua e colà per le tenebre. Unica e semplice forma, posi a soqquadro il mondo; sotto duplice aspetto fei peggio ancora; ed ora sotto una triplice ed una quadrupla sembianza, danni arreco su danni.4 Ch’ei s’allontani, e sia libero; nè alcuna vergogna pesi in sul capo all’uomo allucinato dagli Dei!

Fausto. Con mio non lieve stupore, veggo, regina, star quivi insieme il vincitore ed il vinto; l’arco osservo donde partiva lo strale a ferir l’uomo; di codesti strali l’uno all’altro succede, e mi colpiscono, e già gli odo fischiare intorno intorno, per entro al castello, e all’aperto. Che son io per divenire? Tu mi ribelli i vassalli, e rendi impotenti codesti bastioni: e già io temo che la mia armata non traggasi ad obbedire alla donna trionfante ed invincibile. Che altro più m’avanza se non ch’io rassegni in mano a te la mia sorte, e tutto quanto ebbi fidanza di possedere? Permetti che prostrato a’ tuoi [p. 386 modifica]piedi, libero e fedele, te riconosca per mia sovrana, te che al primo mostrarti sapesti renderti donna del paese e del trono.

Linceo, di rilorno con in mano un cofano, seguito da uomini che recano de’ presenti. Vengoti innanzi un’altra volta, o regina! L’uom dovizioso va mendicando una tua occhiata; ei ti contempla, e tosto pargli essere povero come un accattone, e ricco al pari di un principe.

Chi er’io da prima? Che son io adesso? Che s’ha da volere? Che s’ha da fare? Il lampo delle pupille si ammorza presso al tuo soglio.

Noi movemmo da Oriente, e le contrade dell’Occaso furono per noi sottomesse. Lungo codazzo di popoli vinti era quello: sterminato così che il primo nulla sapea del sezzaio.

Cadde il primo, restò in piedi il secondo; un terzo si tenne colla lancia in resta. Ognuno di essi n’avea cento dietro alle spalle; e le migliaia mordettero inosservati la polve.

Scagliandoci noi, precipitandoci sovra il nemico, eravamo in ogn’incontro sempre mai vincenti e padroni. Là dov’io m’era a comandar oggi, un altro, domani, saccheggiava, rubava.

La rassegna del bottino era tosto fatta: e chi s’impadroniva della femmina più avvenente; e chi dava di piglio ad un loro ben saldo in sulle zampe; e chi menavasi dietro i cavalli.

Quanto a me, era ghiotto di cose rare e preziose; e tutto ch’altri s’era appropriato, io l’aveva in conto di un pugno di fieno.

Andava io in cerca di tesori; e mercè lo sguardo [p. 387 modifica]fino e penetrante, vedea chiaro nelle tasche di tutti, e tutti i forzieri mi riuscivano trasparenti e diafani.

Ebbi quindi oro a macca, e pietre preziose in buondato: ma lo smeraldo solo è degno di verdeggiare sul tuo petto.

Ora poi, che fra’ tuoi orecchi e la bocca vedasi tremolare la goccia cristallina che in fondo al mar si rapprende! I rubini vanno confusi, chè il vivo colore delle tue gote li vince.

Pertanto, dinanzi a te ricchezze io depongo al tutto inestimabili, e poso a’ tuoi piedi il bottino di tante sanguinose battaglie.

E per numerosi che sieno i forzieri che trascino dopo di me, io n’ho altrettanti e più; soffri ch’io muova sulle tue orme, e colmerotti con essi le volte sotterranee della tua reggia.

Perocchè non prima hai posto il piede sui gradini del trono, che a te pronti s’inchinano la intelligenza, la ricchezza e la forza, umiliandosi al cospetto della beltà unica e sola.

Questi tesori che prima d’ora mi stavano sotto chiave riposti, io gli abbandono in tua mano; essi ti appartengono. Quell’io che reputavali preziosi, rari, veraci, m’accorgo adesso com’ei son nulla.

Quant’io possedeva è ito in fumo: direbbesi essere un po’ d’erba falciata e avvizzita. Oh! sola tu, con un sereno sguardo, varresti a rendere a tutto ciò l’antico pregio!

Fausto. Portati via tosto quella roba arditamente acquistata; portala via senza biasimo, ma pur senza guiderdone. Costei possiede oggimai quanto ha di prezioso dentro da sè il castello, e volernele dare [p. 388 modifica]una parte è superfluo ed inutile. Va! ammonta tesoro su tesoro con bella simmetria! Fanne concepire una idea sublime di magnificenza inaudita; scintillino le volte siccome il puro firmamento! Disponi un paradiso di vita inanimata! stendi dinanzi a lei tappeti tempestati di fiori! offra a’ suoi piedi un molle strato la terra le s’immerga lo sguardo in così vivi splendori che i soli Dei non facciano abbarbagliare!

Linceo. Quanto m’ordina il padrone gli è poca cosa; e il servo a un batter d’occhi la compie. Ma chi dispone a grado suo delle nostre facoltà, e del sangue che ne scorre entro alle vene, la è codesta imponente bellezza. Già l’armata n’è doma; e lance e giavellotti arrugginiscono: appetto alla sublime sembianza, il Sole stesso smorto e freddo addiviene; in confronto colla ricchezza di quel volto, ogni ricchezza al mondo è fango e nulla. (Exit.)

Elena a Fausto. Io vo’ parlarti; e però vieni, ascendi quassù accanto a me! Questo posto vuoto dimanda il padrone, e mi fa certa del mio.

Fausto. Lascia prima, o donna sublime, che ai piè mi ti prostri, e degnati accettare i miei fedeli omaggi: nė ricusarmi ch’io possa un bacio stampare su quella destra che a le presso m’innalza. Entra meco a parte del governo dello sterminato tuo regno; ed abbiti così in un sol uomo, l’amante, il servo, il guardiano.

Elena. Quanto veggo, quanto ascolto, tutto è prodigio. Lo stupore mi sorprende, le quistioni s’incalzano: ma, anzi tutto, spiegami ciò: ond’avviene che le parole di colui mi parvero inusitate e dolci cotanto? Il suono si disposava al suono; e non [p. 389 modifica]ma una voce feriva l’orecchio, che un’altra le tenea dietro a blandirlo.5

Fausto. Se grato già tanto riesce per te l’idioma de’ nostri popoli, oh! il loro canto varrebbe certo a sedurti, e a rapire il tuo orecchio, e l’anima tua con diletto mille volte più grande. E per viemmeglio convincertene, facciamne pur ora la prova; il dialogo attira cosiffatte cadenze, e le provoca:

Elena. Quel grato favellar come far mio?

Fausto. Farai pago il desio, — se a mezzo il core

     S’informi l’armonía; quando nel petto
     Si desta arcano un sentimento, un moto,
     Allor la mente a rintracciar si guida...

Elena. Chi le gioie, i piacer con noi divida.

Fausto. Passato ed avvenir! Tutto, un istante

     Comprenda, questo che in parlar mi fugge....

Elena. E d’estasi beata il cor ne strugge!

Fausto. Tesoro, gioia n’è il presente, e certa

     Felicitade; ma la man qual fia
     Che m’assecuri un tanto ben?
Elena. La mia.

Il Coro. Chi oserebbe dar biasimo alla nostra principessa, s’ella cortese e amabile si dimostra verso il padrone del castello? Però che sia da confessare essere noi prigioniere pur sempre siccome non cessammo di esserlo dopo la caduta fatale di [p. 390 modifica]Troia, e le vaganti nostre avventure. Le femmine use ad essere dagli uomini corteggiate, pigliano quale si affaccia hanno però buon discernimento; e come a’ biondi pastorelli, così a’ fauni di colore abbronzato e di crespo vello, a tempo e luogo, consentono senza riserbo un eguale diritto sulle membra loro palpitanti. Come poi sieno uniti, più e più si raccostano, e l’uno all’altro poggiati omero ad omero, mano a mano, ginocchio a ginocchio vanno commovendosi nello splendor molle del trono. Nè la maestà loro fa che si trattengano dal manifestare in cospetto della moltitudine l’arditezza delle segrete lor gioie.

Elena. Sento ch’io son così lungi, e pure mi veggo stare così presso, e non fo che dire con tutta l’anima: Sì, oh sì, ch’io sto qui veramente.

Fausto. Respiro appena; la mia voce esce tremula e titubante; gli è sogno il mio: tempo e luogo disparvero!

Elena. Egli mi pare d’aver vissuto, e di rivivere in questo punto, immedesimata con te, e fedele a chi pria non conobbi.

Fausto. Non ridurre all’analisi un destino unico al mondo: l’esistenza sta nel vedere, fosse pure per un istante e non più.

La Forcide, entra a passi precipitosi. Voi compitate nell’alfabeto dell’amore, sfiorate i sentimenti, e vi perdete in codeste fanciullaggini: ma non è ora da ciò. Non sentite dunque l’uragano appressarsi? Non vi rintrona gli orecchi lo squillar delle trombe? La rovina vostra è imminente. Ecco, ecco Menelao in mezzo ad immensa turba di popolo: [p. 391 modifica]prestatevi a sostenere un fiero assalto! Cinto da uno stuolo di vincitori, mutilato siccome già un tempo Deifobo, pagherai ta a caro costo i vezzi prodigati alle femmine! E poichè penzoloni vedrassi tutta codesta folle genìa, fia presto in sull’ara il coltello per la loro signora.

Fausto. Temeraria! così sul più bello la schifosa m’interrompe! Nell’istesso pericolo mi ributta l’impeto impronto e villano. Qual è più grazioso messaggiero, s’ei porti novella di sciagure ti move a nausea; e tu, sciaurata, ti piaci solo a recare annunzi ingrati e tristi. Ma questa fiata, la ti saprò ricacciare in gola. Riempi a tua posta l’aria de’ tuoi vani stridori; perocchè nessuno periglia qui, e l’istesso pericolo andrebbe a finire in una minaccia vana ed inutile. (Segnali, esplosioni dalle torri; squillo di trombe e romor di timballi; musica militare; vedesi passare un imponente esercito.)

Fausto. No! Ti si daranno a vedere in un battere di ciglia raunate le falangi invincibili de’ miei prodi: quegli soltanto merita i favori del sesso gentile, che sa, all’occasione, gagliardamente proteggerlo. (Ai capi che uscendo dagli squadroni, vanno appressandosi.) Voi a’ quali forza fermezza e valore fa la vittoria sicura, voi fiore di nordica gioventù, voi nerbo simpatico dell’Oriente;

Coperti dal capo a’ piedi di ferro, di lucid’arme forniti; militi che riduceste in polvere imperi sopra imperi! Eglino s’avanzano e ne trema la terra; passano, e lasciansi dietro il copo fremito delle gravi orme loro.

Tocchiamo appena le rive di Pilo, e il vecchio [p. 392 modifica]Nestore già non è più. Tutte codeste misere alleanze di regi, furono fino all’ultima dall’indomita nostra armata rotte e disperse.

Respingete di tratto Menelao da queste mura, e cacciatelo verso la marina! Ch’ei vada errando e saccheggiando da verace corsaro! Tale fu sempre il suo piacimento, tale il suo fato.

La regina di Sparta m’impone di salutarvi per duchi; sia dessa la sovrana della valle e del monte, e vostra gloria e letizia vostra ch’ella qui regni!

Tu, o Germano, vanne a difendere, afforzandolo, il golfo di Corinto; a te, o Goto, sia commessa la salute dell’Acaia dalle cento voragini.

L’esercito de’ Franchi si avvii alla volta di Elide; Messene vo’ a’ Sassoni affidata; purghi il mare il Normanno, e investa l’Argolide!

Ciascuno allora avrà il proprio regno, e potrà al di fuori le sue forze e i suoi fulmini indirizzare. Nulladimeno Sparta dominerà sempre su voi, Sparta la città antica della regina.

Ed ella esulterà in veggendovi gli uni come gli altri godervi quella contrada che di niun bene che al mondo sia sente difetto. Traete di buon animo a chiedere a’ piè di lei la investitura e il dritto e la luce! (Fausto discende; e i capi lo accerchiano onde pigliare i suoi ordini, e udirne i consigli e le istruzioni.)

Il Coro. Chi pretende di possedere la più bella, s’avvisi anzi tutto di tenersi, come vuol prudenza, in armi; la cortesia di costui ebbegli dato in pugno il più dolce tesoro che fosse mai, non può per altro godersi in pace la propria conquista; gli adulator [p. 393 modifica]sono a contendergliela colle piacenterie, i rapitori colla violenza; guardisi egli adesso dagli uni e dagli altri!

Così noi cantiamo al nostro principe, lui senza pari estimando, lui che seppe cingersi di alleati così forti e imponenti, che gli stessi potentati attendono rispettosi i suoi cenni; e gli eseguiscono fedelmente e con loro gran pro; chè non solo ne hanno la riconoscenza, ma nella gloria di lui entrano a parte.

Imperocchè chi oserebbe fraudarne un padrone di tanta possa? Essa gli appartiene, e noi di buon grado gliela consentiamo; confessando doversi doppiamente a colui il quale valse a porre sè e la sua bella in salvo, difeso internamente da alti e spessi bastioni, e al di fuori mercè una formidabile armata.

Fausto. I beni di cui fummo larghi con essi una ricca provincia per ciascuno sono, parmi, sontuosi e magnifici. Partano dunque, e noi al centro rimarremo de’ nostri stati.

Ed eglino li proteggono a gara, o penisola cui baciano i flutti da ogni parte, e vai per una svelta catena di colline digradanti, agli ultimi rami granitici d’Europa, congiunta!

Oh sieno codeste contrade, che sovra tutte hanno il primato, sieno, dico, in perpetuo avventurate per ciascun popolo, contrade il cui dominio ebbe testè la mia regina, che l’hanno al nascere contemplata.

In quell’ora, che dentro ai canneli dell’Eurota usciva ella sfolgorante di bellezza dall’uovo di Leda, abbagliando col vivo suo lume la nobile madre e i fratelli! [p. 394 modifica]

Codesta contrada, fisa in te sola, ti porge i suoi più ricchi presenti. Ah! sia da te anteposta la patria ai regni che ti appartengono!

Fa che un freddo raggio di Sole schiari appena l’aspra vetta del monte, fa che un sol filo d’erba si apra la via tra le rocce, e vedrai tosto l’ingorda camozza inerpicarvisi in cerca di quella misera pastura.

La sorgiva zampilla, e i ruscelli divallano frangendosi in cascatelle. Oggimai i borroni, i declivi ed i prati verdeggiano; e lungo la pianura interrotta qua e colà da cento poggetti, puoi mirare sparpagliate le gregge di bella e morbida lana coperte.

L’un dall’altro disgiunti, circospetti, e con passo lento e misurato, vanno i cornuti tori fin sull’orlo ai dirapi; colà un asilo è preparato a chicchessia, che in mille caverne vedesi scavata e fessa la rupe.

E Pane le protegge, e le Ninfe della vita abitano fra gli spazi freschi e dal lume protetti di que’ chiomati crepacci; e levandosi verso le sublimi regioni, ogni albero di contro agli altri stende e allarga i suoi rami.

O foreste antiche! Ergesi la quercia a tutta possa, e i rami nodosi intrecciansi a’ rami capricciosamente, e l’acero svelto e leggero, pieno di dolce succo, levasi in alto superbo, e scherza co’ venti.

E nell’ombra tacita cola dalle poppe della madre un latte tiepido e saporoso onde se n’alimenti il bambolo e l’agnellino. Son poco lunge le frutta, cibo grato e soave della pianura, e fuor de’ cavi tronchi va stillando il mele.

Il vivere gaio e contento è costì ereditario, e [p. 395 modifica]così questo s’allieta com’altri ed altri; ciascuno è immortale al suo posto; eglino sono beati e pieni di vita!

Per siffatta guisa, sotto un cielo ognor puro e sereno, s’avvia l’amabile fanciullezza verso la virilità ardita e gagliarda; e da tutte parti levasi una voce di meraviglia a dimandare: Son essi Dei, od uomini cotestoro?

Apollo non altrimenti si vide pastor fra’ pastori; e quale infra questi era più rubicondo e leggiadro, meglio al Dio rassomigliava: chè là dove in tutta la sua schiettezza opera la natura, i mondi quanti ve n’ha si stringono e si dan mano. (Va a sedersi da canto ad Elena.)

E così noi fummo dalla ventura congiunti: però mettasi in dimenticanza il passato; oh! ravvisa in te la figliuola della Divinità, e pensa che appartieni al mondo primitivo.

No, te non vedranno prigioniera codeste mura; v’ha ancora per noi un soggiorno di beatitudine, un’altra Arcadia rigogliosa in perpetuo e fiorente, nė gran fatto da Sparta discosta.

Attirata da un suolo avventurato cotanto, ricovrerai colà in braccio al destino più sereno e tranquillo: ivi ti fieno troni superbi i fronzuti boschetti; e là come in Arcadia liberi ci godremo e felici! (Mutasi la scena. Lunga prospettiva di grotte da spesso fogliame ombreggiate e coperte; folte boscaglie che si stendono fin sulla cima delle rupi ergentisi all’intorno. Fausto ed Elena più non si vedono. Il Coro dorme sdraialo qua e là.)

La Forcide. Quant’è che codeste donzelle sono [p. 396 modifica]in sulla grossa, non saprei dirlo. Videro elle dormendo ciò ch’io vedeva ad occhi spalancati? nè pur questo io mel so, ed ecco il perchè mi reco a svegliarle. Ne andrà certo attonita e stupefatta la schiera giovanile, e voi quant’esse, barbassori di antico pelo che ve ne state assisi colaggiù in attesa che sia chiarito il prodigio. Su, su, levatevi! scotete le trecce, cacciate il sonno dagli occhi, non è più tempo da socchiuderli, e ascoltatemi.

Il Coro. Parla, e rivelaci qual portento s’è operato testè. Noi più d’ogni altra cosa siamo vogliosissime d’ascoltare ciò cui non sappiamo dar fede: però che ne dà noia e non poca il vederci continuo fra queste rocche.

La Forcide. Avete ora appena schiuse le palpebre, e già, mie fanciulle, provate tedio e disgusto! Eppure codeste cavità, codeste grotte e codesto fogliame, porsero, non ha molto, asilo e ricetto ad una coppia amorosa, da idillio, al nostro signore cioè ed alla nostra dama.

Il Coro. Come mai? In tal luogo!

La Forcide. Separati dal mondo, me sola appellarono ad esercitarmi per essi in ufizi tutti pacifici. Così onorata, mi tenni a loro da canto, d’altro in quel frattempo occupandomi, siccome ad una confidente conviensi. Io m’aggirava qua e là in cerca di radici, di corteccia, di muschio, esperta essendo d’ogni loro segreta virtù; di che eglino si rimasero soli.

Il Coro. Tu la ragioni, quasi che ci avesse fra questi dirupi intero un mondo, e boschi, e praterie, e laghi e ruscelli: che filastrocche ne vai tu narrando?

La Forcide. Sta in fatto, o inesperte creature! [p. 397 modifica]che le sono cavità non per anco esplorate, e sale spaziose e poi altre sale, e corti e poi altre corti, ch’io ebbi scoverte movendo sovrappensieri fra questi burroni. Quand’ecco un forte scoppio di risa uscire di tratto dalla parte più secreta e più cupa. Osservo un bambolino balzare dal petto della donna in braccio all’uomo, e da questo fare a quella ritorno, e le scambievoli carezze, gli scherzi, le moine di un pazzo amore, e le festevoli grida, e il saltellare per impeto di viva gioia mi assordano, e fannomi impazzire. Un genietto nudo e senz’ale, un fauno senza brutalità, va corvettando sul terren di granito; e il terreno, per forza di reazione, tocco appena, in alto il rinvia, talchè al secondo sbalzo od al terzo arriva a toccare il cielo della grotta. La madre intanto va gridandogli piena di sollecitudine: «Salta pur quanto vuoi, ma fa che non ti nasca il ruzzo di volare! Il libero varco ti si interdice.» E il genitore tutto pietoso e clemente piglia ad ammonirlo da canto suo, in questo tenore: «Dentro dal suolo sta la forza che ratto ti spigne verso le regioni dell’aria. Tocca il suolo non più che colla estremità del tuo pollice, e come Anteo figliuolo della Terra sentirai nascere in te una novella vigoria.» E quegli pur segue ad esercitarsi per la vasta mole di queste cavernose rocche: d’una estremità passa all’altra, e va e va per ogni lato come un pallone in balia del vento quando spira più forte. Ed eccolo ad un tratto gittarsi traverso ad un crepaccio, e in fondo all’abisso sparire. Noi lo credemmo perduto; si dispera e duolsi la madre; il padre fassi a consolarla; ed io, facendo spallucce, mi sto angosciata e affannosa. Ma che? Oh meraviglia! Chi avrebbe detto [p. 398 modifica]che del buono e del bello avesseci là dentro sepolto? Miratelo riuscirne tutto azzimato con eleganti vesticciuole trapunte a fiori di color vario, con fiocchi dalle braccia pendenti, e be’ nastri che gli ondeggiano in sul petto. Con in mano un’aurea cetra, a guisa nè manco di piccolo Apollo, s’avvia lesto e gaio sull’orlo estremo. Ci restammo attoniti a cotal vista, e i genitori tripudianti cadono nelle braccia l’uno dell’altro. Ma ve’, qual mai lampeggiamento gli sta in sul fronte? Onde vien dunque lo splendor che tramanda? Nessuno saprebbe indovinarlo. Sarebbe quella per avventura una corona d’oro sfolgorante? O la fiamma di un genio soprannaturale e divino? Ed egli gestisce; egli che fanciullo tuttavia già mostra come sia per addivenire col tempo donno e modello d’ogni più rara beltà; egli che già sente nelle sue membra com muoversi le eterne melodie: e tale appunto vi si farà udire, tale avrete a vederlo e ad ammirarlo per ventura a voi sole concessa.

Il Coro. E tu, figliuola di Creta, ciò tu chiami un prodigio? Non udisti mai dunque la narrazione del poeta? Nulla mai dunque li fu detto delle tradizioni ond’è sì ricco il suolo de’ nostri padri?

Quanto oggi avviene, altro non è che un eco, ahi come incresciosa! delle nostre glorie passate; e il tuo racconto ha soltanto una tal quale rassomiglianza con quello che un’amabile menzogna, più verisimile dell’istessa realtà, ne viene del figliuol di Maia esponendo.

Lo stuolo delle custodi ciarliere, seguendo una sciocca usanza, ravvolge, lui dilicato e in un gagliardo, venuto appena alla luce, in morbidi velli per [p. 399 modifica]entro a una polita zana, e ne lo stringe dal capo a’ piedi con fasce di lini preziosi. Se non che il furbacchiotto, dilicato insieme e gagliardo, sprigiona di cheto con assai accorgimento le membra pieghevoli e destre, e lascia in sua vece quel viluppo di porpora che tenealo captivo, sembiante in ciò al bozzolo che trasformato appena in farfalla, spogliandosi dell’ignobile crisalide, gode di agitare i bei vanni per gli spazi dell’aere inondati dal Sole.

Egli così, agile più d’ogni altro, dimostra fin d’ora co’ tratti perfidi e maliziosi, come sia per divenire il patrono de’ ladri, de’ truffatori, e di quanti sono o saranno gli avventurieri. Quindi sottrae con destrezza a Nettuno il tridente, a Marte il giavellotto, l’arco e le frecce ad Apollo, le molle a Vulcano: e involerebbe perfino a Giove la folgore, se non l’impaurisse il fuoco. Ei lotta con Amore e lo atterra; rapisce il cinto a Ciprigna in quella che ne lo sta accarezzando. (Un tintinnire d’arpe dolce e melodioso sale dal fondo della grotta; il Coro tutto sta in orecchi, e mostrasi tantosto sommamente commosso. Da questo punto fin là dov’è segnata la pausa, continua la sinfonia.)

La Forcide. Udite i suoni graziosi, sbrigatevi senza meno dalle vostre favole; la vieta razza de’ vostri numi, rassegnatela all’obblio; essa già non è più.

Non v’ha oramai pur ano che voglia darvi retta: moneta vuolsi di maggiore valsente: è giocoforza che fuor esca dal cuore quanto ha da agire sui cuori. (Si ritrae verso le rôcche.)

Il Coro. Se tu, creatura schifosa — cedi a que’ [p. 400 modifica]suoni lasinghieri, — noi di fresco ritemperate — ci sentiamo commosse fino alle lagrime.

Il vivo raggio del Sole può venir meno — tosto che dentro dall’anima albeggia. — In fondo a’ nostri cuori rinviensi — quanto non è capace di dare l’intero universo.

Elena, Fausto, Euforione6 è raffazzonato secondo la Forcide ebbe esposto più sopra.

Euforione. Al primo udire le mie canzonette infantili ne fate voi tosto le vostre delizie; veggendomi saltare in cadenza, — le paterne vostre viscere ne esultano.

Elena. L’amore, in quanto gli è un bene terrestre — l’amore congiunge una coppia gentile; — ma in quanto gli è divino tripudio, — informa una triade ben augurata e felice.

Fausto. Oggimai s’è trovato tutto. — Io son tuo, e tu se’ mia. Quindi viene che noi siamo vincolati. — Nè saprebb’essere altrimenti! [p. 401 modifica]

Il Coro. Sotto alla dolce apparenza di codesto fanciullo, — le delizie di tanti secoli — si congiungono in questa coppia beata. — Oh quanto non mi commuove codesta unione!

Euforione. Lasciatemi saltellare, — lasciatemi corvettare, — spignermi fin colassù — a tutti i venti! — tal è il mio desiderio, — già me ne sento struggere.

Fausto. Frènati via! — non commettiamo folli improntitudini! — Chè la caduta e la disgrazia — potrebbono cascarti sopra, — e noi precipitar nell’abisso, — amato nostro figliuolo!

Euforione. Non so nè voglio più a lungo — starmi inchiodato alla terra; — lasciate andar le mie mani, — non mi tenete pe’ capegli ricciuti non mi afferrate per le vestimenta, — chè in tutto e per tutto le son mie.

Elena. Deh! pensa almeno, deh! pensa a chi appartieni tu, — rifletti alle nostre angosce! — considera che riuscirai a distruggere — un prezioso bene acquistato per te, — per me, per costui.

Il Coro. A momenti, io dubito — va spezzata l’unione.

Elena e Fausto. Cessa, reprimi — per l’amore de’ tuoi parenti — questi slanci impetuosi — sovrumani; — con una tempera dolce e pastorale, — rallegra la distesa de’ campi.

Euforione. Per vostro solo rispetto farò di frenarmi. (Scappando in mezzo del Coro, e costringendolo a danzare.)

Piacemi di scorrere qui fra voi, — festevole e gaio drappello. — E adesso poi, — la melodia, — il moto; va bene? [p. 402 modifica]

Elena. Sì, va bene; — guida la bella schiera — in armonici balli.

Fausto. Quando la finiranno, costoro? — Le facezie, i trastulli — non mi garbano punto.

Euforione ed il Coro intrecciano danze svariate, cantando nel tempo stesso:

Quando ripieghi — mollemente e con grazia — a vicenda le braccia; — quando in balia de’ zeffiri — nella sua pompa abbandoni — la morbida chioma; — quando il tuo piè così lieve — va scorrendo sulla terra, — e che da questa parte e da quella — s’allacciano e si premono le membra, — tocchi allora la meta, — amoroso fanciullo, — e i nostri cuori — volano verso di te. (Pausa.)

Euforione. Siete voi tutte quante — snelle e pronte cervette. — A novelli sollazzi — vogliamo adesso far capo! — Io sono il cacciatore, — e voi la selvaggina.

Il Coro. Vuoi tu dunque prenderci? — Non occorre che ti affatichi; — chè tutte a dirla — siamo spasimanti — di abbracciar te, — te bella creatura!

Euforione. Ma sia traverso a’ boschi, — alle siepi ed ai massi! — Un bene che non costa fatica — mi ripugna più ch’altro; — quello invece che ottiensi colla forza — quello soltanto fammi pago e contento.

Elena e Fausto. Oh sfrontatezza! oh frenesia! — Non ci ha verso di frenarlo. — Ma, che è ciò? parmi udire — un corno minaccioso che rintrona — per la valle e nei boschi. — Quale accidente! quai grida! [p. 403 modifica]

Il CORO. Le giovanette una dopo l’altra entrano correndo.

Egli n’ha lesto lesto oltrepassato; — e beffandoci con aria sprezzante — tragge qui ora — la più selvaggia della nostra brigata.

Euforione, recandosi fra le braccia una fanciulla. Portomi via l’indocile bricconcella — pe’ miei piaceri di conquista. — Qual delizia per me — qual tripudio, — lo stringermi al suo petto riottoso, — il baciucchiare quella boccuccia proterva! — Atto gli è questo al postutto — di forza e di volontà.

La Fanciulla. Lasciami, via! Sotto a codesta spoglia — evvi non meno coraggio, e vigoria d’animo; — il nostro talento vale quanto il tuo, — nè è sì agevol cosa il domarlo. — Fai tu forse conto ch’io ti sia schiava? — Confidi dunque non poco sul tuo braccio! — Va’, che se persisti a stringermi, io vo’ bruciarti, — insensato, per mio diletto. — (Ella divampa, e fiammeggia nello spazio.)7

Tienmi dietro nell’aere leggero, — sotto le stalattiti delle grotte. — Artiglia la tua preda che ti fugge di mano.

Euforione, scuotendo le ultime scintille. Rôcche ammontate su rôcche — son qui fra le prunaie e i macchioni. — Perchè codesto spazio che mi soffoca? — mi sento per altro giovane e pien di coraggio. — I venti e i flutti gorgogliano colaggiủ. — Odo e venti [p. 404 modifica]e flutti da lunge; — sarebbemi a grado farmi loro da presso. (Sbalza sempre più in alto, lungo la rupe.)

Elena, Fausto ed il Coro. Vuoi dunque tu farla da camoscio? — La tua caduta ne dà spavento.

Euforione. Ognor più in su deggio levarmi — più lunge ognora deggio vedere. — Almanco adesso ravviso ov’io sono! — Il mezzo è questo dell’isola, il mezzo — del paese di Pelope, che abbraccia — la terra insieme ed il mare.

Il Coro. Se al bosco, sui monti — non puoi star un attimo in pace, — moviamo in cerca a quest’ora — de’ verdi pampinosi filari, — de’ pampini sui poggi, — degli aranci, de’ fichi. — Deh! almeno in così amena contrada, — ti mostra queto ed amabile.

Euforione. Sognate voi i be’ giorni di pace? S’abbandoni a’ sogni chi può! – Guerra è la parola d’ordine! Vittoria! è la canzone.

Il Coro. Colui che in pace — sospira alla guerra — rinunciò per sempre — al bene della speranza.

Euforione. Questo suolo ne crebbe più d’uno nel rischio, fuori del rischio — d’un ardire sbrigliato, e illuminato, — prodigo del proprio sangue, — d’un intelletto di tempera divina — inaccessibile alle tenebre; — quanti hanno a combattere — prendano consiglio da costoro!

Il Coro. Mirate, lassù s’innalza — senza che ne paia impicciolirsi, — tutto in arme, presto alla vittoria, — luccicante di bronzo e d’acciaio!

Euforione. Non di mari, nè di bastioni, — sì veramente ciascuno di sè stesso facciasi schermo! Il ferreo petto dell’uomo è rocca affatto inespugnabile.

Volete voi riescire invincibili? — armatevi alla [p. 405 modifica]leggera, — e coraggio, all’erta sul campo! Le femmine diventano amazzoni — ed ogni fanciullo è un eroe.

Il Coro. O diva arte de’ vati! o santa! o degna

     D’aver seggio lassú fra gl’Immortali!
     Eterna fiamma, or sali
     Alto, più alto ancora, e di tua luce
     L’immenso azzurro delle sfere accendi!
     Indarno, oh indarno ascendi
     Nel sublime tuo vol fino all’Empiro;
     Chè sempre e sempre il miro
     Suon della sacra voce,
     E quel che vien da te vivo fulgore,
     Seduce, avvampa a noi mortali il core.

Euforione. No, ch’io non sono un fanciullo: — Il giovane s’avanza tutto in armi! — unito a’ forti, a’ liberi, ai pradi, — molto già ebbe in suo pensiero operato. — Ed ora, avanti! ora là al basso — sta per ischiudersi colà il campo della gloria.

Elena e Fausto. Appena chiamato alla vita venuto appena al chiaro giorno, — tu aspiri, per gradi vertiginosi — verso lo spazio pieno di dolori. — Siam dunque noi — un nulla per te? — Le dolcezze dell’imeneo fiano dunque un sogno?

Euforione. Non udite voi — strepitar su pe’ mari? L’eco delle valli — propaga la romba del tuono. — Ne’ flatti, e in sulla polvere — legione opposta a legione; — ferve la mischia di più in più! — Martirio e dolore; — e la morte v’è imperatrice. — Ciò è ben chiaro, mi sembra!

Elena, Fausto, il Coro. Quale orrore! che spavento! — Non hai tu dunque altra legge tranne la morte? [p. 406 modifica]

Euforione. Degg’io forse vederla da lungi? — No, no! mi tocca dividere — l’ansietà, ed il rischio.

I Precedenti. Furore e periglio! — Fatale destino!

Euforione. Ma due ali — spiegansi al volo! — Laggiù! laggiù!... Io m’affretto laggiù. — Lasciate ch’io parta una volta! (Lanciasi nello spazio: le sue vestimenta lo portano un tratto svolazzando; raggiante ha il capo; una striscia di fuoco splende sulla sua traccia.)

Il Coro. Icaro! Icaro! Non più nuove sciagure, non più! (Un leggiadro garzone precipita appiè di Elena e di Fausto; il suo volto mostra fattezze conosciute;8 poco stante il corpo svanisce per aria, e l’aureola s’innalza pari ad una cometa verso il cielo, non rimanendo sul terreno che la tunica, il mantello e la lira.)

Elena e Fausto. Al tripudio tosto succede affanno straziante, mortale.

Euforione, voce che vien di sotterra. Oh madre! ne’ regni del buio consentirai tu ch’io mi resti solo? (Pausa.)

IL CORO. Canto funebre.

Solo? ah no! — in qualunque luogo tu giaccia, perocchè ne pare di conoscerti, Ahi lasso! se tu diserti [p. 407 modifica]la luce del Sole, non per questo ci avrà solo un cuore che voglia da te separarsi. A noi manca persino la forza di gemere e dolerci: noi cantiamo il tuo destino invidiandolo; ne’ di sereni e ne’ foschi, grandi furono e belli e generosi il tuo cuore e i tuoi carmi.

Oh! nato per la prosperità della terra da illustri proavi, di singolar possa fregiato, ahi! così tosto rapito a te stesso, e nel fior degli anni mietuto! Sguardo acuto, sottile a scandagliare il mondo, simpatia per quante sono le angosce del cuore, passione ardente per le donne migliori, canto di cui tu solo conoscevi il segreto!

Ma, negl’indomiti tuoi trasporti, nel lacciuolo fatale da per te ti gittasti, levandoti in aperta guerra contro a’ costumi e alla legge. — Se non che il sublime tuo spirito ponevasi da sezzo a rilevare la nobile coscienza, e fu allora che intendesti a conquistare la somma gloria, — e ti avversò la fortuna.

Ebb’ella mai sorriso ad alcuno? Quistione oscura in faccia alla quale il destino si chiude nella sua fitta cortina, quando, ne’ giorni della sciagura, i popoli che sanguinano stan silenziosi. Ora poi, si ripiglino i canti, si rialzino le fronti abbattute, chè altri il suolo ne produrrà, come n’ebbe in ogni tempo prodotto. (Pausa generale; la musica cessa.)

Elena a Fausto. Il mio esempio, ahi lassa! giustifica l’antico detto, che: Fortuna e Bellezza non ponno stare a lungo congiunti. Il legame della vita, e quello non meno dell’amore, sonosi spezzati; entrambi io li piango, e dato loro un vale affannoso, cado nelle tue braccia per l’ultima fiata. Raccogli, o Persefone, il garzone, e con esso raccogli pure la [p. 408 modifica]madre. (Abbraccia Fausto; la spoglia terrena svanisce; le sole vestimenta ed il velo rimangono tra le braccia dello sposo.)9

La Forcide. Tien saldo ciò che di lei ti rimane; fa che non ti scappino almeno le vesti. Già i demoni vanno strappandole pe’ lembi, vogliosi quanto mai di tirarsele dietro ne’ mondi sotterranei. Tien saldo, dico! non son certo essi la Dea che la perdesti; par pure le son cosa divina. Gióvati del sublime inapprezzabile favore, e alto ti solleva; finchè potrai reggere, ti sosterranno per aria, al di sopra delle cose basse e volgari. A rivederci ben lungi da qui; a rivederci! (Le vestimenta di Elena si sciolgono in nebbia, e circondando Fausto, passano oltre, trasportandolo per le regioni dello spazio.)

La Forcide leva di terra la tunica d’Euforione, il mantello e la lira, s’avanza verso il proscenio, e sporgendo quelle spoglie, dice:

Bene sta! Questo almanco vi ho guadagnato. La fiamma, a dir vero, se n’è ita in fumo: ma poco assai mi brigo io, se il mondo abbia a rammaricarsene. Ve n’ha anche troppo per consacrare de’ poeti, e per eccitare la gara del mestiere e della consorteria, e se m’è tolto di concedere l’attitudine all’ingegno, potrò almeno darne l’abito in prestanza. (Va a sedere sul proscenio, appiè di una colonna.)

Pantalide. All’erta ora, figliuole mie! Alla [p. 409 modifica]fine siamo libere dagl’incantesimi, — libere dagli schifosi lacci fantastici della vecchia sgualdrina di Tessaglia, non che dallo squillo confuso di que’ suoni scordati ed aspri che ti straziano gli orecchi, e mille tanti più l’anima e l’intelletto. Scendiamo dalle Iadi! Già v’andò la regina con passo maestoso e solenne; ed è ragionevole che le ancelle fedeli le abbiano a tener dietro sull’atto! Noi la troveremo presso al soglio dell’Impenetrabile.

Coro. Se l’ho a dire, le regine trovansi bene da per tutto; e fin là in seno alle Iadi occupano alti seggi, — in orgoglioso consorzio co’ lor pari, e in piena intrinsichezza con Persefone. — Noi all’incontro, in fondo a’ campi di asfodilli, nella monotona compagnia degli alti pioppi, de’ salci infecondi, che abbiamo noi da ricrearci? Nostro passatempo è il nicchiare e dolerci, qual vedi fare a’ vipistrelli, con lamentío increscevole, fantastico!

La Corifea. Chi non s’è fatto un po’ di nome, ei non stà in pensiero di cosa al mondo che nobile sia, appartiene agli elementi. – Dunque, spicciatevi! ch’io mi struggo d’essere colla mia regina. Non il solo merito, ma altresi la fedeltà salva dall’obblio le persone. (Exit.)

Tutte. Noi siamo, è vero, tornate alla luce del dì, — cessammo per altro d’essere persone, od enti; — lo sentiamo, sappiamcelo troppo bene. — Quanto al tornarcene dalle Iadi, nol faremo nė ora nè poi. La Natura viva in perpetuo ha il suo pieno diritto sopra di noi, e noi sopra di lei n’abbiamo altrettanto.10 [p. 410 modifica]

Una parte del Coro.

     Noi sotto al fresco mormorio soave
     E al lene susurrar di questi mille
     Rami, e di queste spesse frondi, un riso
     Diffondiam pel creato, e nelle frasche,
     Ne’ talli che di fior tutti coverti
     Mostransi, e ne’ polloni e nelle gemme,
     Di mezzo al nostro folleggiar, le fonti
     Vitali aprendo, i flessüosi velli
     Orniam, qual più ne giova, onde rigoglio
     Abbia maggiore il bel regno dell’erbe.
     Cadono i frutti, ed ecco uomini e belve
     Assembrarsi, sospingersi, di loro
     Esistenza beati. Ecco, gelosi
     Di spiccarlo e gustarne, il roseo pomo
     Contendersi a vicenda, ed a vicenda
     Urtarsi, e grande insorger lite, quale
     Arder giả si mirò fra’ prischi numi.

Altra parte del Coro.

     Tutta al nostro poter serve la terra.
     Noi nel cristallo gelido di queste
     Rupi scoscese i nostri molli argenti
     Dolcemente rompiam, qual sia più leve

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     Rumor spiando, e degli angelli il canto
     E quel che dai canneti esala a sera
     Blando sospir. Di Pan la voce, a cui
     Tutta di sacro orror freme Natura,
     Odesi appena, e a replicar non tarde
     Siam noi; se un mormorio mandi, com’eco,
     Di rincontro mettiamo un mormorio;
     Se tuona, spaventevole di retro
     Ben dieci fiate il nostro tuon rimbomba.

Terza parte del Coro.

     Noi più commosse, discorriamo in rivi
     Chè di codesti fertili poggetti
     L’infinita ne trae bella catena; —
     Noi con celere corso in grazïosi
     Meandri, o suore, serpeggiando, i verdi
     Prati, la pésta, il pian, la valle, e il breve
     Orlo irrighiamo al casolar da canto.
     La bigia de’ cipressi acuminata
     Estrema punta della scena al fondo
     L’addita; — de’ cipressi che da lunge
     Torreggiano ne’ campi, e dalla riva
     Specchiansi dentro a’ limpidi cristalli.

Quarta parte del Coro.

     Itene, o suore, ove il desio vi mena,
     Itene pure! — A noi vagar pe’ gai
     Vigneti è in grado ove sottesso il carco
     De’ grappoli maturi il tralcio antico
     Piegasi. Noi di contemplar diletta
     Come solerte s’affatichi il fido
     Vignaiuolo, e veder ch’egli cotanto
     Per mal certo avvenir sudi e s’affanni.
     Or impugna la falce ed or la pala,

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     Sveglie, rimonda, addossa e lega, miti
     Gli Dei pregando a sue fatiche e ’l Sole.
     Ma di sì forte amor l’effeminato
     Bacco e de’ voti suoi meno corante,
     Nelle siepi si cela, o nel secreto
     Di opache grotte ove in trastulli mena
     L’ore col giovin suo Fauno amoroso.
     Ogni gioia, ogni cura, ogni diletto,
     E tutte care visioni in fondo
     Covan pel Nume di ben cento e mille
     Urne capaci vagamente a cerchio
     Della sua chiostra gelida riposte.
     Tutti gli Dei frattanto, e primo il Sole,
     D’äer, di piova e d’infocati raggi
     Dolce stemprano umor dentro a’ racemi.
     Quanto la man del vignaiuolo industre
     Poteva un giorno, svegliasi repente,
     E si scote, e s’avviva: un insüeto
     Giù pe’ filari fremito trascorre;
     E qua e colà di mille gridi un grido
     Fuor de commossi pampini si spande.
     Gemon le corbe, il secchio stride, e delle
     Uve ammontate solto il grave pondo
     Le bigonce si sfondano. Robusti
     Garzoni poscia vêr l’immensa tina
     Frettevoli si traggono, col piede
     I vendemmiati grappoli pigiando,
     Mentre il licore porporin compresso
     Goccia, spuma, gorgoglia, e i cori adempie
     Di dolcezza e piacer. Attendi or quale
     Di crotali e di fistole d’intorno
     Alto, incessante strepito si desti.

[p. 413 modifica]

     Ne rintronan gli orecchi, e alfin da’ suoi
     Misteriosi recessi al baccanale
     Dïonisio s’avanza, e a lui di retro
     Il Fauno insiem colla sua turba, cui
     Brancica l’ebbro Dio con man lasciva.
     Ardito uno di lor per via cavalca
     Il pazïente dalle lunghe orecchie
     Animal di Sileno. Il biforcuto
     Piede al ventre puntella, e fuor di senno
     Crolla, ondeggia, vacilla — e por cioncando
     Batte al muro coll’anca e giù stramazza,
     Pinzo di vin dal capo alla ventraia. —
     S’evvi ancor chi resista, uhl che stridio!
     Misericordia! che rombazzo! — Onore
     Perchè al mosto novel meglio si faccia,
     Anfore abbocca, ciotole, guastade;
     Sin che stilla ve n’ha, tutto il tracanna.

(Cade il sipario. La Forcide levasi su in forma gigantesca sul proscenio, togliesi il coturno, la maschera ed il velo, rivelandosi per Mefistofele, ad epilogar l’atto e a commentarlo per quanto è necessario.)



Note

    di essere stato tratto fuori dal sen delle Madri, delle idee, non per altro che a formare il corteggio di Elena, e a fare una parte secondaria nella fantasmagoria. Pantalide piglia ad esortare le compagne sicchè seguano la regina; ma esse ricusano di riporre il piede nelle Iadi: che la natura eterna le attira irresistibilmente, Goethe si ricorda qui la favola del pastorello Aci e della Ninfa Galatea (Vedi Ovid. Metam. XIII.); e queste, ramicelli frondosi vansene a stormire agitate dalla brezza; quelle, pampini verdeggianti, si traggono ad assistere a’ lavori della vendemmia: quali si versano in fiumi, e quali mormorano in rivoletti cristallini, e la sinfonia del panteismo accompagna le varie trasformazioni.

  1. L’apparizione di codesto castello feudale, e quanto avviene sino alla fine dell’Atto, sembra la conseguenza fantasmagorica del viaggio di Fausto nell’antro di Persefone; come pure l’intero episodio greco deriva dall’esser egli disceso presso le Madri.
  2. Si rammentino le illusioni della scena delle Lamie.
  3. Figliuolo d’Afareo, re della Messenia, e celebre nella falange degli Argonauti per l’occhio suo così acuto e penetrante che passava persino le muraglie, e scopriva quel che facevasi nel cielo e nello inferno. Uccise Castore, e morì trafitto da Polluce. Questo Linceo, guardiano della torre, uomo che ha occhio di lince, sta quivi pel suo omonimo, o forse per altra ragione più significante. Fausto, per dare ad Elena un contrassegno d’amore e di vassallaggio, pone a discrezione di lei, in piena sua balia, il nemico dei Dioscuri, l’uccisore di Castore.
  4. I semidei: Chirone; gli eroi: Teseo, Paride ec; i numi: Mercurio; i demòni: la Forcíde. — Pria che la favola, il mito non fossero venuti ad intralciare la esistenza di lei, quand’ell’era tuttavia una creatura umana, un ente semplice, Paride la invola: mostrasi poscia ad un medesimo tempo, duplice spettro, in Egitto ed in Grecia; e simultaneamente nell’inferno, nella visione d’Achille, e nell’impero di Fausto; in seno al romanticismo, ed alla cavalleria del Medio Evo. Tante favolose reminiscenze assaliscono per guisa la mente di lei, che ne smarrisce qualsivoglia sentimentto della propria esistenza, ogni convinzione d’invidualità, in tanto avvicendarsi d’ombre e di fantasimi a lei dintorno evocati. — Contuttociò Elena assolve l’uomo allucinato dagli Dei; Fausto piega, e si dà per vassallo alla beltà senza pari. «Convien tenersi lungi dallo spirito e dalla bellezza, a non cadere schiavi di essi» — «Vis superba formæ.» Bella sentenza di Giovanni Secondo. — «Fra tutti i popoli son quelli i Greci che abbiano sognato il più bel sogno della vita.» (Goethe, Ethisches pass.)
  5. La rima, sconosciuta alla greca poesia, meravigliosa gemma del settentrione, di che il bello classico porta invidia al romanticismo che se ne fregia quasi scherzando. Elena dimanda il segreto di quel parlare ineffabile. «Esso, Fausto risponde, sta senza meno nel cuore» e per compiacere all’amata regina, avvia secolei un dialogo al modo novello. Fausto incomincia, ed Elena replica, congiungendo al pensiero la rima.
  6. Questo Euforione nascendo aveva le ali; Giove se ne invaghì, e siccome il leggiadro garzonetto involavasi dalle sfrenate voglie dell’Olimpico, questi lo ebbe fulminato e gittatolo nell’isola di Melos (oggidì Milo), una delle Cicladi. Le Ninfe che si presero pensiero di seppellirlo furono cangiate in rane. (Tolom. Ef. IV, p. 317.) Tale è il mito col quale Goethe chiude l’intermezzo antico della sua tragedia. Euforione è manifesto essere il simbolo della moderna poesia. Figliuolo di Elena, la bellezza greca, la bellezza per eccellenza, e di Fausto, il Fausto alemanno, l’energia e la profondità scientifica di un tal popolo, qual rappresentante più nobile di questo avrebbe potuto avere la nuova poesia? Del resto, qui tutto viene a capello, e la fantasia del poeta nonvi ha intoppo. Costui in fatti, parto degli amori postumi di Elena e di Achille, creatura ideale e in realtà non esistente, vien tratto senza sforzo alcuno sulla scena. Il suo carattere istesso, in quanto allegoria, vi trova il più alto concetto; però che se egli balza mai sempre dal seno di Elena, ha questa fiata per genitore Fausto invece di Achille, la forza dello spirito, la intelligenza, la grandezza morale a dir breve, invece del bello fisico.
  7. La ninfa incandescente sfugge alla stretta di Euforione che si lancia tra i venti e l’acque, precipitandosi nella mischia. Egli vuol portare soccorso al popolo che pugna sul piano per la propria libertà, vale a dire ai Greci.
  8. Riuscirà agevole il cogliere l’allusione dell’episodio d’Euforione. In faccia a codesto ardore precoce cui nulla può contenere, a codesta indole in balia alla cupidigia della conquista, al genio che si consuma un istante nella stretta infocata d’una fanciulla, poi s’erge, e sfavilla, astro di poesia, nel più alto de’ cieli e va da ultimo a cadere sur un campo di battaglia nel Peloponneso, il lettore indovina che a Byron, cantore di Aroldo e di Manfredo, si riferisce codesta poetica digressione; e quando pure non si fosse Goethe dato il pensiero di spiegarnelo chiaramente, canto funebre che vien dopo basterebbe a togliere ogni dubbiezza su questo particolare.
  9. Elena dà a Fausto un eterno addio, e vassene a ritrovare il figliuolo nel regno di Proserpina: i veli di lei svolazzano intorno a Fausto, e lo sollevano come lieve vapore. Le vesti della greca bellezza, quanto avvolge esternamente la persona, basta a rapir l’uomo sulle regioni superiori, e a preservarlo per sempre dal senso volgare.
  10. Dopo tante vicissitudini, il Coro rientra in sè, e conosce