Filocolo/Libro quinto/22

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Libro quinto - Capitolo 22

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Da poi che Asenga tacque, Airam, quasi non meno che la prima superba, lodandosi oltre modo, cominciò a parlare seguitando: "Voi la impotenza degl’iddii e ’l difetto delle loro bellezze biasimate, cosa da non sostenere in sì alto nome sanza effetto: ma più di loro mancanza vi narrerò. Essi, sì come voi sapete, delle future cose veridici proveditori si fanno, di quelle porgendo risponso a’ dimandanti, aggiugnendo che le presenti sanza mezzo conoscono, e in memoria ritengono le passate. Ma questo non è vero, e però non si dee sostenere: se, come già si disse, avessero forza, gli oltraggi che tutto giorno impuniti veggiamo, sanza punizione non passerieno. Similemente se le bellezze loro le nostre avanzassero, contenti ne’ loro termini non quelle per le mondane abandonerebbero, come molte volte hanno fatto e fanno. Se sì providi fossero come si tengono, non agl’ingegni delle semplici giovani si lascerebbono ingannare , né quelle con ingegni ingannerebbono. Se forti, perché in toro mutarsi per ingannare Europa? Se belli, perché in oro per ingannare Danne? Se savi, perché non provedere all’impromessa fatta all’amata Semelè? Niuna di queste cose è in loro, e voi le due avete mostrate, e io mostrerò la terza. Io non meno bella d’Alcitoe, amata da molti e poi da Febo, con discreto stile amando, mai ad alcuno il mio cuore non patefeci, ma per non disciogliere da’ miei legami alcuno, quelli che tal volta più m’erano in odio con più lusinghevole occhio li riguardava. Del numero de’ quali Febo, proveditore de’ futuri accidenti, fu. Oh, quante volte egli, per più lungo spazio potermi vedere, con lento passo menò i suoi cavalli per mezzo il cielo, e ritennegli alcuna volta con adirata mano, affrettandosi essi come erano usati d’andare all’onde di Speria, e spesso, non avendo ancora loro rimessi i freni, a quelli medesimi si crucciò, volonteroso di cercare l’aurora prima che ’l convenevole! Oh, quante volte si dolfero con lamentevoli voci le Notti a Giove, dicendo che la ragione del loro spazio Febo l’occupava! E’ mi ricorda ancora che tanto fu un giorno il diletto che di mirarmi prendea, che egli ebbe presso che smarrito l’usato cammino. E se non fosse il romore di Cinosura, che, vedendolo di lontano, temeo le sue fiamme, che ’l fece in sé ritornare, egli pure avria la seconda volta arso il cielo, e io di ciò m’avria riso, se fulminato fosse caduto come il figliuolo. Io non so se fu mai savio come si dice, ma se così fu, non so dove egli la sua scienza mandasse, che egli sempre con ferma fede credette sé essere singulare signore dell’anima mia. Esso, cercatore di tutto il mondo, portava seco d’ogni parte que’ doni ch’egli credea che mi dovessero più piacere, e con quelli s’ingegnava di servare l’amore mio verso di lui, e per quelli sovente tentava di volere quel diletto il quale egli avuto di Climene, più oltre non la richiese. Ma io, più provida delle cose che deono avvenire di lui, essendo egli ancora del tutto dal mio cuore lontano, ben che altro disiderio che di lui avere non mostrassi, con belle ragioni e con impromesse prolungando le dimandate grazie, il tirai lungo tempo, quelle altrui concedendo perché più m’era a grado. Egli forse di se medesimo ingannato, mi si credea per la sua bellezza più ch’altri piacere: ma non solamente sotto quella si ristringono l’amorose leggi. Questo gli recitò Venere, conscia, sì come io avea voluto, di lei fidandomi, de’ miei segreti, e disegnolli il luogo degli amorosi furti, il quale egli della somma altezza vide: per che quasi per grieve dolore turbato più giorni luce non porse. Ma la mancante natura supplicando a Giove, si dice che nell’usato uficio il fece tornare: ma mai da quell’ora in avanti con diritto occhio non mi guardò, ma passando davanti a me traverso, quasi sdegnoso mi mira; di che io poco mi curo. Ora poi che così colui che ha voce di tutte le cose vedere fu da me gabbato per senno, che si faria degli altri iddii che tanto non veggono? Credibile è che molto peggio se ne farebbe e fa, per che a me pare che se non sopra loro meritiamo, almeno loro pari riputare, sanza alcuna ingiuria di loro, ci possiamo: e se l’avviso mio non manca, possibile ci fia levare la falsa fama che gli chiama dei, e porla a noi; né fia chi il contradica, solo che della nostra grazia vogliamo far degni di quella i disianti".