Fior di Sardegna/Capitolo XXIX

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Capitolo XXIX

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XXIX.


Da quella notte i convegni di Lara e Massimo si seguirono sempre regolarmente, senza incidenti, a intervalli di quattro notti, per tutto l’inverno. Fu quello un memorabile inverno per X***.

Il freddo più intenso, la neve quasi perpetua, i venti più furiosi, le procelle più desolanti infuriarono per tutti i tre mesi della cattiva stagione sotto un cielo plumbeo, fra la nebbia che rendeva il paesaggio fosco e la città nera. Tutto ciò non impediva però che Lara e Massimo si amassero, si scrivessero e si baciassero come nei bei giorni di sole e nelle splendide notti di luna. Poco importava a loro che la neve coprisse la terra e il vento urlasse nell’aria; sfidavano il freddo e la pioggia e ogni quattro notti si rivedevano immancabilmente là all’ombra del vecchio cancello, lei avvolta in uno sciallo, lui nel suo soprabito, col cappuccio tirato sulla fronte, o nel famoso mantello che Massimo considerava come sacro dopo che aveva ravvolto il corpicino adorato della piccola Lara. E quando le loro mani si stringevano, e le loro labbra si toccavano, il vento taceva, la neve si cambiava in un campo di fiori e il cielo assumeva tinte splendide di croco e di malva azzurrina, per loro che non sentivano più il freddo e scordavano le furie dell’inverno e l’odio degli uomini. — Fra le lettere di Massimo trovai una poesia su questo argomento, anzi, per scrupolo, vi dirò che il periodo su detto l’ho copiato da essa, che, se ben ricordo, dice presso a poco così!

— È nero il cielo, la notte regna.
     Furioso il vento fischia al di fuor,
Ma a me che importa? l’oriuolo segna
     l’ora del nostro notturno amor.
— A me che importa se triste fiocca
     la fredda neve dal fosco ciel?

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Per un sol bacio de la tua bocca
     io sfido i venti, la notte e il gel.
— Verrò fra poco, non disperarti,
     se qualche istante dovrò tardar;
Senza vederti, senza baciarti,
     come la notte potrei passar?
— Benchè la folta tenebra il gramo,
     cielo ricopra di morte e duol,
Quando fremendo mi dici: t’amo!
     io veggo in alto splendere il sol.
— E se il tuo labbro sul mio si posa,
     e forte, stretta, ti serro al cor.
Io veggo il cielo tinto di rosa,
     e i campi verdi lieti di fior.
— A me d’intorno non v’è la neve;
     se a te daccanto, diletta, io sto,
Non sento il freddo del verno greve,
     se la mia mano la tua serrò...
— Regna la notte, la neve fiocca,
     ma il cor mi grida: non corri ancor?
Ella t’aspetta! l’oriuolo scocca
     l’ora dei vostri notturni amor!


Così dunque trascorse l’inverno. Lara sentivasi sempre più triste, perchè sempre più innamorata, e benchè fosse perfettamente rassicurata sul lontano avvenire promessole da Massimo, provava un istintivo presentimento di sventura e le sere del convegno una paura sempre crescente le dava la febbre prima di rivedere il giovine, alimentata dopo dalla gioia di averlo riveduto senza essere colta da alcuno dei danni temuti. Il ricordo della sola notte in cui eransi amati senza paura e così a lungo, stavale sempre fisso nel pensiero; rimpiangeva eternamente quella splendida notte e spesso, fra le sue preghjere, mormorava!

— Oh, Dio mio, un’ora, un’ora sola di quella sera, e pigliatevi un anno della mia vita!... —

Rimaneva ore ed ore ritta davanti alla finestra chiusa, sui cui vetri picchiava la pioggia e, conserte le braccia, contemplava la montagna lontana coperta di neve, il cui profilo si perdeva fra le basse nebbie color di piombo, e [p. 139 modifica]ricordandosi gli splendidi crepuscoli ivi goduti, fra quegli alberi ora schiantati dall’uragano, i sogni, il primo convegno, il primo bacio, il profumo del muschio, l’olezzo dei lentischi e delle ginestre selvaggie, si chiedeva se tutto non fosse stato un sogno o se sognava presentemente, o se non avesse letto la sua storia in qualche romanzo.

Allora la sua percezione si velava; vedeva la sua esistenza e il suo amore come vedeva la montagna, attraverso un velo di nebbia e di pioggia, le sembrava che l’inverno non dovesse finire mai più, che sotto il gelo di quella vôlta di piombo e lo sgocciolare dell’acqua e il soffiar del vento il suo cuore dovesse raffreddarsi, indurirsi, e così, a poco a poco, tutto il suo corpo, il suo essere, cambiarsi in un masso di granito insensibile alla furia degli elementi e delle passioni umane.

Infatti cadeva inerte sul suo letticciuolo bianco e rimaneva immobile e fredda, con la testa pesante affondata sui guanciali gelidi, sinchè non si oscurava il triste e bruno crepuscolo d’inverno, ma spesso lo scoccare di un’ora le dava quasi una scossa elettrica, le ridonava la vita e il sorriso, ricordandole che fra un’altra ora Massimo sarebbe giunto.

Nella notte invece, fra il tepore del letto e la musica infernale del vento e della pioggia che risuonava al di fuori perdendosi nella valle col ruggito del torrente e il fremito dei boschi, Lara ricordava distintamente, ruminando le frasi dell’ultima lettera, le labbra ancora calde dell’ultimo bacio, e si cullava in curiose alternative di speranza e di disperazione. Faceva progetti, immaginava la sua futura casetta fatta splendida reggia dall’amore; e domandava come l’avrebbe condotta, lei così piccola e inesperta. Si rimproverava la sua indolenza, la sua noncuranza nell’apprendere da quella finita massaia ch’era donna Margherita, le faccende domestiche e il modo di governare la casa, e si proponeva di cambiar metodo.

Ecco che lei pensava a maritarsi con uno che certo non le avrebbe potuto dare serve e cameriere in gran copia, e non sapeva nulla, non pensava ad apprender nulla! Ma era proprio un affar serio. Lara sapeva eseguire pizzi al «crochet,» sapeva un po’ ricamare e cucire, preparare una tazza di caffè e rifare i letti; la sua abilità si [p. 140 modifica]spingeva sino al saper comporre una frittella di farina, zucchero ed uovo, ma, ma... ma certo tutte queste belle cose non bastavano, no!

— Bah! — pensava poi, confortandosi e volgendosi all’altro lato, — ci sono ancora due anni e sette mesi e mezzo e imparerò!

— Due anni e sette mesi! — ripigliava poi dopo un istante.

— Due anni e sette mesi! — urlava fuori con sarcasmo il vento.

Il viso di Lara si offuscava nell’oscurità e ben altri pensieri incalzavano nella sua mente, allora, scacciando i sereni disegni della donna di casa. Tornava la fanciulla fantastica che viveva di solo amore e quei due anni e mezzo assumevano la tinta di un secolo, di un lungo interminabile secolo. Non dovevano passare più e Lara morrebbe prima di arrivare alla sua meta. Era questa un’altra sua idea. Ella vedevasi e sentivasi consumare lentamente sotto l’incubo della passione, e forse questa era una realtà, e morire prima di giungere alla fine dei suoi sogni. Due anni e mezzo! Trenta mesi di febbre, di paura, di attesa e di amore delirante avrebbero ucciso l’uomo più robusto nonchè lei. — Su, era finita! Un giorno o l’altro ella doveva, stanca di trascinare la più triste delle esistenze, cadere sul suo lettino bianco e non muoversi più, e richiudere gli occhi al sonno eterno lontana da Massimo per cui moriva. Era finita, finita davvero! La fantasia di Lara si spingeva persino al di là e mentre fuori urlava la procella, essa sognava ad occhi aperti un sogno orrendo: suoi funerali! Ecco come una volta ne scrisse essa stessa a Massimo, che si desolava leggendo quelle strane visioni:

— «Dovevo dunque morire, finirla per sempre, davvero, con una esistenza non più sopportabile, eppure resa ancor cara dalla più ardente speranza. Mi pareva un sogno, e benchè avessi la più lucida percezione di ciò che mi circondava, pure vedevo i miei funerali sfilare lenti nella via; la bara sottile foderata di damasco bianco, coperta di rose, gigli e giacinti; e molta gente, come mai se n’era veduta al funerale di una fanciulla di X***. Sentivo il monotono salmodiare dei sacerdoti, che mi cullavano dolcemente, entro la bara, e la voluttà di essere [p. 141 modifica]trasportata a braccia, in alto, stesa, vestita di bianco in quella cassa che avevano foderato di velluto, che emanava il profumo del legno di pino... e attraverso le tavole sentivo il tepore del sole che splendeva al tramonto e vedevo ardere al suo riflesso i vetri chiusi della finestra ove ero morta!... E tu, e tu sempre là nella penombra, pallido, muto, addolorato...

«Ma io non provavo più alcun affanno, mi sentivo salva, tranquilla, e pensavo: Stasera dormirò per sempre, per sempre! — mentre la cantilena dei preti, la cantilena funebre, eppure così calma, finiva in un ritmo bizzarro sfumato nell’aria olezzante di gigli e di rose, in due versi che mi accarezzavano dolcemente, come più di una volta le tue mani ardenti avevano accarezzato il mio viso, due versi sublimi di G. Prati che io non scorderò giammai:

     «L’ultimo sogno dentro l’avello
È il più bel sogno dei nostri dì!»

Il più delle volte, checchè ne dicesse, Lara finiva col piangere disperatamente della sua morte precoce, ma la mattina di poi, nel trovare il suo guanciale ancora umido di lagrime, dopo alcune ore di sonno, sorrideva dei suoi terrori e riaffidava la speranza al primo raggio di sole, al raro lembo di cielo azzurro che illuminasse la campagna coperta di neve o desolata dalle pioggie.

Avvezza a vivere in una solitudine quasi campestre, la natura e gli elementi contribuivano assai a rendere triste o speranzosa la sua anima. Come i fiorellini d’inverno, Lara sorrideva al sole e all’azzurro e chinava piangente la testa sotto la pioggia e il cielo nero. E quella solitudine appunto era la causa del forte amore della fanciulla. Senza divaghi, senza altri pensieri, sempre chiusa nel suo silenzio, circondata da una vita monotona, tranquilla, simile ad una pianura uniforme, infinita, Lara, con l’istinto ardente di un altro metodo di esistenza più conforme ai suoi gusti ed ai suoi desideri, si aggrappava forte all’unica nota romanzesca, all’unico masso ergentesi nella sua landa, che era Massimo, e pensava sempre a lui amandolo più intensamente, appunto perchè, fuori della sua famiglia non aveva altri affetti, altri [p. 142 modifica]pensieri, perchè lui era l’unico profilo che si disegnava bello, spiccato, ardente, sullo sfondo grigio del suo orizzonte.

Anche Mariarosa, l’amica del cuore, che prima l’affascinava, che assorbiva tanta parte dei suoi affetti, era ormai sparita, sfumata nella nebbia, nella lontananza. Tutto, amore, amicizia, stima, affetto, tenerezza, tutto erasi converso su Massimo, diventato il perno dell’esistenza di Lara. E Lara, riposando su lui soltanto ogni sua speranza, cullandosi in una continua altalena di speranze, di disperazioni, di sorrisi e di lagrime, contava sempre sulle sue piccole dita bianche e affusolate i mesi, i giorni che ancora la dividevano dalla famosa sua emancipazione; allorchè un fatto straordinario, imprevedibile accorciò il suo piccolo romanzo in un dramma il più interessante.