<dc:title> Gemme d'arti italiane - Anno I </dc:title><dc:creator opt:role="aut">Paolo Ripamonti Carpano</dc:creator><dc:date>1845</dc:date><dc:subject></dc:subject><dc:rights>CC BY-SA 3.0</dc:rights><dc:rights>GFDL</dc:rights><dc:relation>Indice:Gemme d'arti italiane - Anno I, Carpano, 1845.djvu</dc:relation><dc:identifier>//it.wikisource.org/w/index.php?title=Gemme_d%27arti_italiane_-_Anno_I/L%27incontro_di_Giacobbe_ed_Esa%C3%B9&oldid=-</dc:identifier><dc:revisiondatestamp>20180729110403</dc:revisiondatestamp>//it.wikisource.org/w/index.php?title=Gemme_d%27arti_italiane_-_Anno_I/L%27incontro_di_Giacobbe_ed_Esa%C3%B9&oldid=-20180729110403
Gemme d'arti italiane - Anno I Paolo Ripamonti CarpanoGemme d'arti italiane - Anno I, Carpano, 1845.djvu
De’figliuoli di Seth l’ingenuo canto;
Quando il Signore a visitar venía
Gli antichi padri del suo popol santo,
E propizio dal monte a Lui salía
Del patrïarca l’olocausto e il pianto;
Il pianto, eterna eredità d’Adamo,
Ed all’Eden perduto alto richiamo.
Oh! Da quel dì che del dolor lenta
Nube coverse il ciel, la terra e il mare,
Poi che il primo fratel con vïolenta
Mano asperse di sangue il primo altare,
Germinò da quel dì mala sementa
D’ira, d’invidia e di fraterne gare;
E la morte quaggiù col sangue ha scritto
Un raggio almen di tua pietà lasciasti!
Coll’immota virtù de’tuoi consigli
Le guerre antiche del furor temprasti;
Tu, sui campi di sangue ancor vermigli,
I popoli al tuo piè cader mirasti;
E al tuo trono salì l’inno novello
È il fratel che perdona al suo fratello. —
Appar la luce della casta aurora
Nell’azzurro de’cieli interminato;
Un roseo vel diffondesi e vapora
Soavemente acceso e digradato;
Ed i palmeti di Seïr colora
Del tiepido orïente il novo fiato
Già l’aer bruno in faccia al sol vanío
Come un incenso che s’innalzi a Dio.
Ed alla prima ora del dì, nel piano
Della terra d’Edóm, scendeano a lento
Ordine in riva dell’umìl Giordano
Di Giacobbe i pastor col vario armento.
Davan le spalle a’monti ed al lontano
Di Manahïm silvestre accampamento;
Ove al primo apparir del dì sereno
Gli angioli del Signore a lor veniéno.
Giacobbe, il benedetto pellegrino,
Solo e pensoso dietro a’suoi discende
E rimembrando va lungo il cammino
Gli anni passati e di Labán le tende;
E la voce di Dio che il gran destino
A lui promise, e a ritornar gli apprende
Per quella via che nella patria guida,
Si vede ancora il cieco padre antico;
Pensa all’inganno della madre amante,
Che il primo nato gli facea nemico,
Quando il veglio gl’impose la tremante
Man sul capo e sclamò: Te benedico!
E pargli udire il pianto e l’urlo istesso
Ch’Esaù mise all’usurpato amplesso.
Ritornano i messaggi, e nunzian mesti
L’armate schiere del fratello: ond’ei,
Piena la mente di pensier funesti,
Si prostra e prega: — O Dio de’padri miei!
Dio d’Abramo e d’Isacco! a me dicesti:
Riedi alla terra dove nato sei;
Novo ben ti darò: pur veggo, o Dio.
Che indegno ancor di tua pietà son’io.
Non merto, ah no! la veritade ond’hai
Le tue promesse antiche a me serbato:
Solo, col mio bastone, un dì varcai
Quest’onda fuggitivo e sconsolato.
Ora, o Signor, per te qui ritornai
Di due seguaci torme accompagnato:
Ma l’ira d’Esaù nel cor mi preme,
Ch’ei non m’uccida madri e figli insieme. —
O tu che sempre mi guidasti a bene,
E innumerabil seme a me destini
Come le stelle in cielo e in mar le arene,
Fammi ancor segno agli occhi tuoi divini!
Vedi Esaù che nel furor sen viene
Della natal contrada in sui confini:
Tu poni nel mio cor l’umile affetto,
Greggie al fratello, perchè a lui perdoni:
Dugento capre e pecore altrettante
Venti arïéti, e a par venti montoni;
Trenta cammelle in un con la lattante
Lor prole, e dietro a questi eletti doni
Mandava ancor giovenche e tauri molti,
E somieri e puledri insiem raccolti.
E quelle torme a’servi suoi commise,
Dicendo a lor: Dinanzi a me n’andate:
D’alcun tratto fra lor così divise
L’una appo l’altra ad Esaù guidate. —
E al primo che movea: Quando tu avvise
Venir da lunge le sue turbe armate,
A rincontrarlo vanne; e dov’ei chieggia
Di chi sei, dove vai con questa greggia:
Del tuo servo Giacobbe io sono, e vegno
In suo nome, rispondi, a te d’appresso:
Egli a te manda d’onoranza in segno
Questi doni, che offrirti è a me concesso;
E, se di grazia al tuo cospetto è degno,
Sull’orme nostre già ne viene ei stesso.”
E agli altri servi, che partìan dappoi
Così del paro indisse i cenni suoi.
Mandati i doni, egli sostava in quelle
Piagge per tutto il dì, nel campo ov’era.
Venne la notte, e al lume delle stelle
Uscito di nascoso alla riviera,
Seco menò le mogli con le ancelle,
Gli undici figli e la restante schiera.
Poi guadò il fiume, ov’era cheta l’onda,
Un uom gli venne in mezzo del cammino:
E senza dargli posa un solo istante
Fece a lotta con lui sino al mattino.
Ma allor, veggendo ch’ei reggea costante
Alla sua possa, lo serrò vicino,
Gli toccò il nerbo della coscia; ed ecco
Sfibrossi a un tratto il nerbo e si fe’secco.
E l’uomo disse: — Lasciami, su via,
Poiché l’aurora in cielo ascende omai. —
E replicò Giacobbe a lui: — Non sia,
Se benedetto, anzi partir, non m’hai. —
— Il tuo nome qual è? — l’uomo seguía.
Ed ei: — Giacobbe — Or ben, tu non sarai
Giacobbe, ma Israël nomato in terra,
Poiché gli uomini e Dio vincesti in guerra. —
Tu pur mi scopri il nome tuo: gli disse
Giacobbe. — A che il domandi? rispondea;
Indi, siccome ei volle, il benedisse;
E Giacobbe prostrato si tacea.
Di Péniel a quel sito il nome indisse,
Sclamando: — Faccia a faccia io qui vedea
Il Signore! e pur salva è la mia vita! —
E poi si mosse per la via romita.
Sorgeva il sole, e zoppicando ei giva
Per la tocca giuntura: ond’è che poi
Di cibar quella fibra ognor fu schiva
La prole d’Israello insino a noi.
E frattanto Esaù ratto veniva
Verso il fratello co’guerrieri suoi.
Leva gli occhi Giacobbe a quella parte,
E presso a lui cinta da’figli è Lia;
E, con Giuseppe al suo fianco tremante,
Rachele bella l’ultima seguía.
Giacobbe a lor precede, e con sembiante
Mesto il fratello a riscontrar s’avvia:
S’inclina sette volte infino a terra;
Ma Esaù lo solleva e al cor lo serra.
Lo serra al cor con lungo abbracciamento.
E lo ribacia: e piansero amendue.
Svanía tutto il passato in quel momento;
E fise a riguardarli eran le due
Spose sorelle, in tacito contento,
Iddio laudando e le grandezze sue.
E l’occhio d’Esaù su lor discese: —
E chi son elle? al fratel suo richiese. —
Son le donne e i fanciulli che concesso
Ha il Signore al tuo servo, egli rispose.
Vennero allora, e quando fur d’appresso,
S’inginocchiaro i figli e le due spose.
Tutte, alla vista del fraterno amplesso,
Si chinavan le turbe ossequïose: —
E che far vuoi, quindi Esaù seguia,
Di quelle genti che scontrai per via? —
Giacobbe allora: — Incontro a te veniéno,
Per trovar grazia presso al Signor mio. —
Conserva il tuo, disse Esaù; chè pieno
È il mio volere e nulla più chied’io. —
Ma il fratello: — L’offerta accogli almeno,
Non mostrarti al mio prego sì restío:
Chè la tua fronte amica io rivedea,
Chè largo donator mi fu il Signore:
Egli la mia ricchezza ha benedetto,
E m’ho di tutto. — D’Esaù nel core
Parlò quell’umil voce; e sì l’eletto
Dono egli tenne del fraterno amore.
E poi disse: Partiam, n’andiamo omai;
Me tuo compagno nel cammino avrai. —
E lui Giacobbe: — Il mio signor ben vede
Che i miei figli mal reggono alla via;
Le giovenche ho pregnanti, e a lento piede
Cammina dietro a me la greggia mia.
Se ad essa di posar non si concede,
Tutta morta in un dì forse saría:
Il mio signor deh mi preceda; e i lassi
Armenti io condurrò dietro a suoi passi.
Così co’miei figliuoli andrò pian piano
Finché in Seïr m’accoglia il signor mio. —
Almen resti una parte al mio germano
Del popolo guerrier che meco uscio —
Perchè mai? ripigliò: Pietoso, umano
Mi desti il tuo favor; pago son’io! —
Ed allora Esaù, lo stesso giorno
Fece a Seïr per la sua via ritorno.
E Giacobbe partì colle sue genti;
Poi di Sucóte alla contrada scese.
Qui tenne a breve stanza, ed agli armenti
Erse capanne e tende ampie distese.
I suoi pastori qui sedean contenti,
Ne’riposati alberghi, al bel paese.
E da quel tempo la contrada bella
Il pellegrin Giacobbe a Sálem venne,
Che di Canäan siede entro il confino;
E là sostò di nuovo e si trattenne.
Pose le tende alla città vicino,
E poi d’Emór co’figli si convenne;
Diè cento agnelle, ed acquistò gran parte
Del campo ov’eran le sue gregge sparte.
E sorto all’ora del mattin lucente,
Fece un altare in mezzo alla campagna.
A Dio s’innalza la sua prece ardente,
E l’inno pastoral che l’accompagna:
Il sorriso del sol dell’orïente
Tutto riveste il piano, e la montagna;
Ed ei pe’figli invoca, e pel fratello
… Vostra apprensiva da esser verace Tragge intenzione, e dentro a voi la spiega.
Quando la fede, sublime aspirazione all’infinito, quando l’amor della patria, e il culto semplice della virtù suscitano nell’anime privilegiate dal cielo il pensiero creatore, allora le opere dell’intelletto, sotto qualunque forma della scienza o dell’arte si rivelino, portano in sè stesse l’impronta di quel bello [p. 10modifica]non perituro, che in ogni tempo e in ogni paese parlerà, per dir così, un linguaggio che tutti gli uomini comprendono, che tutti almeno vogliono ascoltare, il linguaggio della verità. Il bello che conduce al vero, parmi la più grande, la più divina espressione dell’umana intelligenza.
Mi ricordo aver letto, in non so qual libro, che l’arte nelle varie sembianze sotto le quali ne si presenta, è come quella mistica scala di Giacobbe, che da una parte tocca la terra, dall’altra si appoggia al cielo; e che le diverse forme dell’arte ne sono i gradini, onde la nostra mente può salire fino all’immortale Idea. Considerato da questo punto, il magistero dell’artista è ben più grande e solenne di quello che i più non si credano, allorchè presentuosi o incauti si pongono a cimento sulla difficile via, ovvero troppo indifferenti e spensierati estimano poetico sogno la bellezza, codesta religione dell’arte; e in così fatta guisa gettano nel fango il sommo dono del cielo, e si fanno, per dirla in due parole, dell’arte un mestiero. —
Questi pensieri m’occupavano quand’io m’arrestai innanzi alla tela di quel nostro pittore, il cui nome è venerato e caro a Italia tutta. La quale in lui addita uno de’prediletti suoi figli, uno de’pochi, che non disconoscano, come pur si vede fare anche al tempo nostro, il culto dell’arte, lo studio assiduo e severo della natura, che volle nascondere la verità sotto il velo della bellezza. Francesco Hayez non per nulla è nato in quella parte d’Italia, e sotto a quel cielo che inspirò già Tiziano, Tintoretto, e Paolo, e gli altri maestri della veneta scuola. [p. 11modifica]
Ed ecco che il pittore de’più famosi e più terribili drammi che offra la storia della sua città, colui che tante volte ci sgomentò, o ci commosse colla stupenda rappresentazione di quelle scene patetiche o solenni, le quali facevano rivivere dinanzi a noi tutta la poesia del Medio Evo, s’accinse ora a dar chiara prova che un alto ingegno nudrito di volontà generosa e ardente trova sempre una via novella, e ben conosce quanto sia efficace e potente la virtù che ne richiama al culto del tempo antico e della bellezza semplice e morale.
I migliori quadri, che in questi ultimi anni fecero l’ornamento delle pubbliche Esposizioni, quelli che più d’ogn’altro chiamarono l’attenzione e toccarono di più vivo affetto il cuore della gente, la quale con la semplicità del dire e la rozza espressione del sentimento ha bene spesso maggior senno e più fina conoscenza del vero che non molti dei barbassori e precettisti, furono, se ben mi ricorda, i quadri a cui le divine pagine della Bibbia diedero argomento ed inspirazione. E mi basti accennare il Giudizio di Salomone del Podesti, e la Scena del Diluvio Universale del Bellosio. E, in quest’anno, al quadro dell’Hayez di che io scrivo, aggiungi quell’altra sì casta dipintura del Malatesti, che ti presenta il figlio di Tobia nell’atto di toccare col miracoloso fele le pupille del cieco padre. Io per me credo, che i Libri Santi, inesausta fonte di primitiva e sublime poesia, ponno far rivivere in mezzo a noi quel gusto severo e quel profondo sentimento artistico che pur troppo l’ammanierato studio del romanzesco ha guasto, se non bandito; anzi denno giovare a far più popolare che non sia quest’arte così potente, presentando alle menti schiette e vive del popolo, che non può [p. 12modifica]comprendere ancora una storia civile, quella storia meravigliosa ed eterna, che a tutti fu data, e nella quale sono scritti i destini della umanità.
L’Hayez esponeva in quest’anno, oltre al suo bellissimo quadro del vecchio Foscari che depone il ducale berretto, un quadro semplice e severo che figura una delle più ammirande e commoventi scene del Genesi, l’incontro di Giacobbe e d’Esaù. Dopo le tremende pitture della caduta di Adamo, del primo fratricidio, e del diluvio, l’anima nostra è profondamente tocca da quella scena di riconciliazione e di perdono. E fu quella la prima volta che il Signore disse al suo servo: Il tuo nome non sarà Giacobbe, ma Israele, cioè il forte!
Mirabile è la dipintura del fondo di questo quadro, che ti presenta il purissimo orizzonte della terra d’Oriente nell’ora fresca e tranquilla del primo mattino; naturale e saggia la composizione; il colorire pien di gusto e di forza, com’è sempre dell’Hayez; molte teste disegnate e dipinte con un’arte tutta d’affetto, con uno squisito senso di verità e di vaghezza; bella sopra tutte la figura d’Esaù, nella quale vedi dignità, e sublime commovimento: non così, a parer mio, quella di Giacobbe, che avrei voluto forte sì, ma severo, umile, ma pur meno volgare: e così parmi che qualche cosa di più soave insieme e maestoso avrebbe meglio raffigurato in Rachele quel tipo di primitiva bellezza, la donna per la quale Giacobbe aveva speso sette e sette anni di servitù.
Ma più contempli questo quadro, e più ravvisi in esso quell’arte ingenua e sicura di sè medesima, che s’inspira al bello con la coscienza del vero, come io dissi da prima. Ed oh! quanto potrebbe l’Hayez anche [p. 13modifica]per la pittura religiosa e civile, dove appena ci volesse consacrar più sovente il pennello a presentar nelle sue tele le pagine immortali del primo Libro ch’ebbe il mondo!... Poi che vidi il bel quadro e rilessi il racconto biblico, del quale è nova creazione, mi venne pensiero di tentar di renderne la semplice e grande bellezza ne’versi, che misi innanzi a queste parole. —