Gerusalemme liberata/Canto nono
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Trova la Furia Solimano, e ’l move |
CANTO NONO.
Ma il gran mostro infernal che vede queti
Que’ già torbidi cori, e l’ire spente:
E cozzar contra ’l fato, e i gran decreti
4Svolger non può dell’immutabil mente;
Si parte, e, dove passa, i campi lieti
Secca, e pallido il Sol si fa repente:
E d’altre furie ancora e d’altri mali
8Ministro, a nova impresa affretta l’ali.
II.
Ella, che dall’esercito Cristiano,
Per industria sapea de’ suoi consorti,
Il figliuol di Bertoldo esser lontano,
12Tancredi e gli altri più temuti e forti;
Disse: che più s’aspetta? or Solimano
Inaspettato venga, e guerra porti.
Certo (o ch’io spero) alta vittoria avremo
16Di campo mal concorde, e in parte scemo.
III.
Ciò detto, vola ove fra squadre erranti,
Fattosen duce, Soliman dimora:
Quel Soliman di cui non fu, tra quanti
20Ha Dio rubelli, uom più feroce allora:
Nè, se per nova ingiuria i suoi giganti
Rinnovasse la terra, anco vi fora:
Questi fu Re de’ Turchi, ed in Nicea
24La sede dell’imperio aver solea.
IV.
E distendeva, incontro ai Greci lidi,
Dal Sangario al Meandro il suo confine:
Ove albergar già Misi, e Frigj, e Lidj,
28E le genti di Ponto, e le Bitine.
Ma poi che contra i Turchi, e gli altri infidi
Passar nell’Asia l’armi peregrine,
Fur sue terre espugnate, ed ei sconfitto
32Ben fu due fiate in general conflitto.
V.
E ritentata avendo invan la sorte,
E spinto a forza dal natío paese,
Ricoverò del Re d’Egitto in corte,
36Ch’oste gli fu magnanimo e cortese:
Ed ebbe a grado che guerrier sì forte
Gli s’offrisse compagno all’alte imprese;
Proposto avendo già vietar l’acquisto
40Di Palestina ai cavalier di Cristo.
VI.
Ma prima ch’egli apertamente loro
La destinata guerra annunziasse:
Volle che Solimano, a cui molto oro
44Diè per tal uso, gli Arabi assoldasse.
Or mentre ei d’Asia, e dal paese Moro
L’oste accogliea, Soliman venne, e trasse
Agevolmente a se gli Arabi avari,
48Ladroni, in ogni tempo, e mercenarj.
VII.
Così fatto lor duce, or d’ogn’intorno
La Giudea scorre, e fa prede e rapine:
Sicchè ’l venire è chiuso e ’l far ritorno
52Dall’esercito Franco alle marine.
E rimembrando ognor l’antico scorno,
E dell’imperio suo l’alte ruine,
Cose maggior nel petto acceso volve;
56Ma non ben s’assicura, o si risolve.
VIII.
A costui viene Aletto: e da lei tolto
È ’l sembiante d’un uom d’antica etade.
Vota di sangue, empie di crespe il volto,
60Lascia barbuto il labbro, e ’l mento rade:
Dimostra il capo in lunghe tele avvolto;
La veste oltra ’l ginocchio al piè gli cade,
La scimitarra al fianco, e ’l tergo carco
64Della faretra, e nelle mani ha l’arco.
A costui viene Aletto; e da lei tolto |
IX.
Noi, gli dice ella, or trascorriam le vote
Piaggie, e le arene sterili e deserte:
Ove nè far rapina omai si puote,
68Nè vittoria acquistar che loda merte.
Goffredo intanto la Città percuote,
E già le mura ha con le torri aperte:
E già vedrem, s’ancor si tarda un poco,
72Insin di qua le sue ruine, e ’l foco.
X.
Dunque accesi tugurj, e gregge, e buoi
Gli alti trofei di Soliman saranno?
Così racquisti il regno? e così i tuoi
76Oltraggj vendicar ti credi, e ’l danno?
Ardisci, ardisci: entro ai ripari suoi,
Di notte, opprimi il barbaro Tiranno.
Credi al tuo vecchio Araspe, il cui consiglio
80E nel regno provasti, e nell’esiglio.
XI.
Non ci aspetta egli e non ci teme, e sprezza
Gli Arabi, ignudi in vero e timorosi:
Nè creder mai potrà che gente avvezza
84Alle prede alle fughe, or cotanto osi:
Ma fieri gli farà la tua fierezza
Contra un campo che giaccia inerme, e posi.
Così gli disse; e le sue furie ardenti
88Spirogli al seno, e si mischiò tra’ venti.
XII.
Grida il Guerrier, levando al Ciel la mano,
O tu, che furor tanto al cor m’irriti,
Ned uom sei già, sebben sembiante umano
92Mostrasti; ecco io ti seguo ove m’inviti.
Verrò, farò là monti ov’ora è piano;
Monti d’uomini estinti, e di feriti:
Farò fiumi di sangue. Or tu sia meco,
96E reggi l’arme mie per l’aer cieco.
XIII.
Tace, e senza indugiar le turbe accoglie,
E rincora parlando il vile e ’l lento:
E nell’ardor delle sue stesse voglie
100Accende il campo a seguitarlo intento.
Dà il segno Aletto della tromba, e scioglie
Di sua man propria il gran vessillo al vento.
Marcia il campo veloce, anzi sì corre,
104Che della fama il volo anco precorre.
XIV.
Va seco Aletto, e poi lo lascia, e veste
D’uom che rechi novelle abito e viso:
E nell’ora che par che ’l mondo reste
108Fra la notte e fra ’l dì dubbio e diviso,
Entra in Gerusalemme, e, tra le meste
Turbe passando, al Re dà l’alto avviso
Del gran campo che giunge, e del disegno;
112E del notturno assalto e l’ora, e ’l segno.
XV.
Ma già distendon l’ombre orrido velo
Che di rossi vapor si sparge e tigne.
La terra, in vece del notturno gelo,
116Bagnan rugiade tepide e sanguigne.
S’empie di mostri, e di prodigj il Cielo:
S’odon fremendo errar larve maligne:
Votò Pluton gli abissi, e la sua notte
120Tutta versò dalle Tartaree grotte.
XVI.
Per sì profondo orror verso le tende
Degl’inimici il fier Soldan cammina.
Ma quando a mezzo dal suo corso ascende
124La notte, onde poi rapida dechina;
A men d’un miglio, ove riposo prende
Il sicuro Francese, ei s’avvicina.
Quì fè cibar le genti, e poscia, d’alto
128Parlando, confortolle al crudo assalto.
XVII.
Vedete là di mille furti pieno
Un campo più famoso assai che forte:
Che quasi un mar nel suo vorace seno
132Tutte dell’Asia ha le ricchezze assorte.
Questo ora a voi (nè già potria con meno
Vostro periglio) espon benigna sorte.
L’arme, e i destrier d’ostro guerniti e d’oro
136Preda fian vostra, e non difesa loro.
XVIII.
Nè questa è già quell’oste, onde la Persa
Gente, e la gente di Nicea fu vinta;
Perchè, in guerra sì lunga e sì diversa,
140Rimasa n’è la maggior parte estinta:
E s’anco integra fosse, or tutta immersa
In profonda quiete, e d’arme è scinta.
Tosto s’opprime chi di sonno è carco:
144Chè dal sonno alla morte è un picciol varco.
XIX.
Su su venite: io primo aprir la strada
Vuò, su i corpi languenti, entro ai ripari:
Ferir, da questa mia, ciascuna spada
148E l’arti usar di crudeltate impari.
Oggi fia che di Cristo il regno cada:
Oggi libera l’Asia: oggi voi chiari.
Così gl’infiamma alle vicine prove:
152Indi tacitamente oltre lor move.
XX.
Ecco tra via le sentinelle ei vede
Per l’ombra mista d’una incerta luce:
Nè ritrovar, come sicura fede
156Avea, puote improvviso il saggio Duce.
Volgon quelle, gridando, indietro il piede,
Scorto che sì gran turba egli conduce:,
Sicchè la prima guardia è da lor desta,
160Che, com’ può meglio, a guerreggiar s’appresta.
XXI.
Dan fiato allora ai barbari metalli
Gli Arabi, certi omai d’essere sentiti.
Van gridi orrendi al Cielo, e de’ cavalli
164Col suon del calpestio misti i nitriti.
Gli alti monti muggir, muggir le valli,
E risposer gli abissi ai lor muggiti:
E la face innalzò di Flegetonte
168Aletto, e ’l segno diede a quei del monte.
XXII.
Corre innanzi il Soldano, e giunge a quella
Confusa ancora e inordinata guarda,
Rapido sì, che torbida procella
172Da’ cavernosi monti esce più tarda:
Fiume ch’alberi insieme, e case svella:
Folgore che le torri abbatta, ed arda:
Terremoto che ’l mondo empia d’orrore,
176Son picciole sembianze al suo furore.
XXIII.
Non cala il ferro mai ch’appien non colga:
Nè coglie appien che piaga anco non faccia:
Nè piaga fa che l’alma altrui non tolga:
180E più direi; ma il ver di falso ha faccia.
E par ch’egli o s’infinga, o non sen dolga,
O non senta il ferir dell’altrui braccia;
Sebben l’elmo percosso, in suon di squilla
184Rimbomba, e orribilmente arde e sfavilla.
XXIV.
Or quando ei solo ha quasi in fuga volto
Quel primo stuol delle Francesche genti;
Giungono, in guisa d’un diluvio accolto
188Di mille rivi, gli Arabi correnti.
Fuggono i Franchi allora a freno sciolto,
E misto il vincitor va tra’ fuggenti:
E con lor entra ne’ ripari, e ’l tutto
192Di ruine e d’orror s’empie, e di lutto.
XXV.
Porta il Soldan su l’elmo orrido e grande
Serpe che si dilunga, e ’l collo snoda:
Su le zampe s’innalza, e l’ali spande,
196E piega in arco la forcuta coda:
Par che tre lingue vibri, e che fuor mande
Livida spuma, e che ’l suo fischio s’oda:
Ed or ch’arde la pugna, anch’ei s’infiamma
200Nel moto, e fumo versa insieme e fiamma.
XXVI.
E si mostra in quel lume a’ riguardanti
Formidabil così l’empio Soldano,
Come veggion nell’ombra i naviganti
204Fra mille lampi il torbido Oceano.
Altri danno a la fuga i piè tremanti:
Danno altri al ferro intrepida la mano:
E la notte i tumulti ognor più mesce,
208Ed occultando i rischj, i rischj accresce.
XXVII.
Fra color che mostraro il cor più franco,
Latin, sul Tebro nato, allor si mosse:
A cui nè le fatiche il corpo stanco,
212Nè gli anni dome aveano ancor le posse.
Cinque suoi figlj quasi eguali al fianco
Gli erano sempre, ovunque in guerra ei fosse,
D’arme gravando, anzi il lor tempo molto,
216Le membra ancor crescenti, e ’l molle volto.
XXVIII.
Ed eccitati dal paterno esempio
Aguzzavano al sangue il ferro, e l’ire.
Dice egli loro: andianne ove quell’empio
220Veggiam ne’ fuggitivi insuperbire.
Nè già ritardi il sanguinoso scempio,
Ch’ei fa degli altri, in voi l’usato ardire:
Perocchè quello, o figlj, è vile onore,
224Cui non adorni alcun passato orrore.
XXIX.
Così feroce leonessa i figlj,
Cui dal collo la coma anco non pende,
Nè con gli anni lor sono i feri artiglj
228Cresciuti, e l’arme della bocca orrende,
Mena seco alla preda, ed ai periglj:
E con l’esempio a incrudelir gli accende
Nel cacciator che le natíe lor selve
232Turba, e fuggir fa le men forti belve.
XXX.
Segue il buon genitor l’incauto stuolo
De’ cinque, e Solimano assale e cinge:
E in un sol punto, un sol consiglio e un solo
236Spirito quasi, sei lunghe aste spinge.
Ma troppo audace il suo maggior figliuolo
L’asta abbandona, e con quel fier si stringe;
E tenta invan, con la pungente spada,
240Che sotto il corridor morto gli cada.
XXXI.
Ma come alle procelle esposto monte,
Che percosso dai flutti al mar sovraste,
Sostien fermo in se stesso i tuoni, e l’onte
244Del Cielo irato, e i venti, e l’onde vaste;
Così il fero Soldan l’audace fronte
Tien salda incontro ai ferri, e incontro all’aste:
Ed a colui, che ’l suo destrier percuote,248Tra i ciglj parte il capo, e tra le gote.
XXXII.
Aramante al fratel, che giù ruina,
Porge pietoso il braccio e lo sostiene:
Vana e folle pietà, ch’alla ruina
252Altrui la sua medesma a giunger viene:
Chè ’l Pagan su quel braccio il ferro inchina,
Ed atterra con lui chi a lui s’attiene.
Caggiono entrambi, e l’un sull’altro langue,
256Mescolando i sospiri ultimi, e ’l sangue.
XXXIII.
Quinci egli, di Sabin l’asta recisa,
Onde il fanciullo di lontan l’infesta,
Gli urta il cavallo addosso, e ’l coglie in guisa,
260Che giù tremante il batte: indi il calpesta.
Dal giovinetto corpo uscì divisa
Con gran contrasto l’alma, e lasciò mesta
L’aure soavi della vita, e i giorni
264Della tenera età lieti ed adorni.
XXXIV.
Rimanean vivi ancor Pico, e Laurente,
Onde arricchì un sol parto il genitore:
Similissima coppia, e che sovente
268Esser solea cagion di dolce errore.
Ma se lei fè Natura indifferente,
Differente or la fa l’ostil furore.
Dura distinzion, ch’all’un divide
272Dal busto il collo, all’altro il petto incide.
XXXV.
Il padre (ah non più padre! ahi fera sorte,
Ch’orbo di tanti figlj a un punto il face!)
Rimira in cinque morti or la sua morte,
276E della stirpe sua che tutta giace.
Nè so come vecchiezza abbia sì forte
Nelle atroci miserie, e sì vivace,
Che spiri e pugni ancor: ma gli atti, e i visi
280Non mirò forse de’ figliuoli uccisi.
XXXVI.
E di sì acerbo lutto agli occhj sui
Parte l’amiche tenebre celaro.
Contuttociò nulla sarebbe a lui,
284Senza perder se stesso, il vincer caro.
Prodigo del suo sangue, e dell’altrui
Avidissimamente è fatto avaro:
Nè si conosce ben qual suo desire
288Paja maggior, l’uccidere o ’l morire.
XXXVII.
Ma grida al suo nemico: è dunque frale
Sì questa mano, e in guisa ella si sprezza,
Che con ogni suo sforzo ancor non vale
292A provocare in me la tua fierezza?
Tace, e percossa tira aspra e mortale
Che le piastre e le maglie insieme spezza,
E sul fianco gli cala e vi fa grande
296Piaga, onde il sangue tepido si spande.
XXXVIII.
A quel grido, a quel colpo, in lui converse
Il barbaro crudel la spada e l’ira.
Gli aprì l’usbergo, e pria lo scudo aperse,
300Cui sette volte un duro cuojo aggira:
E ’l ferro nelle viscere gl’immerse.
Il misero Latin singhiozza e spira,
E con vomito alterno or gli trabocca
304Il sangue per la piaga, or per la bocca.
XXXIX.
Come nell’Apennin robusta pianta,
Che sprezzò d’Euro e d’Aquilon la guerra,
Se turbo inusitato alfin la schianta,
308Gli alberi intorno ruinando atterra;
Così cade egli, e la sua furia è tanta,
Che più d’un seco tragge, a cui s’afferra.
E ben d’uom sì feroce è degno fine,
312Che faccia ancor, morendo, alte ruine.
XL.
Mentre il Soldan sfogando l’odio interno
Pasce un lungo digiun ne’ corpi umani;
Gli Arabi inanimiti aspro governo
316Anch’essi fanno de’ guerrier Cristiani.
L’Inglese Enrico, e ’l Bavaro Oliferno
Muojono, o fer Dragutte, alle tue mani.
A Gilberto, a Filippo, Ariadeno
320Toglie la vita, i quai nacquer sul Reno.
XLI.
Albazar con la mazza abbatte Ernesto:
Sotto Algazel cade Engerlan di spada.
Ma chi narrar potria quel modo o questo
324Di morte, e quanta plebe ignobil cada?
Sin da que’ primi gridi erasi desto
Goffredo, e non istava intanto a bada.
Già tutto è armato, e già raccolto un grosso
328Drappello ha seco, e già con lor s’è mosso.
XLII.
Egli, che dopo il grido udì il tumulto
Che par che sempre più terribil suoni,
Avvisò ben che repentino insulto
332Esser dovea degli Arabi ladroni:
Chè già non era al Capitano occulto
Ch’essi intorno scorrean le regioni;
Benchè non istimò che sì fugace
336Vulgo, mai fosse d’assalirlo audace.
XLIII.
Or mentre egli ne viene, ode repente
Arme arme replicar dall’altro lato:
Ed in un tempo il Cielo orribilmente
340Intonar di barbarico ululato.
Questa è Clorinda che del Re la gente
Guida all’assalto, ed have Argante a lato.
Al nobil Guelfo, che sostien sua vice,
344Allor si volge il Capitano, e dice:
XLIV.
Odi qual novo strepito di Marte
Di verso il colle e la Città ne viene?
D’uopo là fia che ’l tuo valore e l’arte
348I primi assalti de’ nemici affrene.
Vanne tu dunque, e là provvedi, e parte
Vuò che di questi miei teco ne mene:
Con gli altri io me n’andrò dall’altro canto
352A sostener l’impeto ostíle intanto.
XLV.
Così fra lor concluso, ambo gli move
Per diverso sentiero egual fortuna.
Al colle Guelfo, e ’l Capitan va dove
356Gli Arabi omai non han contesa alcuna.
Ma questi, andando, acquista forze, e nove
Genti di passo in passo ognor raguna:
Talchè, già fatto poderoso e grande,
360Giunge ove il fero Turco il sangue spande.
XLVI.
Così scendendo dal natío suo monte
Non empie umile il Po l’angusta sponda;
Ma sempre più, quanto è più lunge al fonte,
364Di nuove forze insuperbito abbonda.
Sovra i rotti confini alza la fronte
Di tauro, e vincitor d’intorno inonda:
E con più corna Adria respinge; e pare
368Che guerra porti, e non tributo al mare.
XLVII.
Goffredo, ove fuggir l’impaurite
Sue genti vede, accorre, e le minaccia.
Qual timor, grida, è questo? ove fuggite?
372Guardate almen chi sia quel che vi caccia.
Vi caccia un vile stuol, che le ferite
Nè ricever nè dar sa nella faccia:
E se ’l vedranno incontra a se rivolto,
376Temeran l’arme sol del vostro volto.
XLVIII.
Punge il destrier, ciò detto, e là si volve
Ove di Soliman gl’incendj ha scorti.
Va per mezzo del sangue, e della polve,
380E de’ ferri, e de’ rischj, e delle morti.
Con la spada e con gli urti apre e dissolve
Le vie più chiuse, e gli ordini più forti:
E sossopra cader fa d’ambo i lati
384Cavalieri e cavalli, arme ed armati.
XLIX.
Sovra i confusi monti, a salto a salto,
Della profonda strage oltre cammina.
L’intrepido Soldan, che ’l fero assalto
388Sente venir, nol fugge e nol declina;
Ma se gli spinge incontra, e ’l ferro in alto
Levando, per ferir, gli s’avvicina.
O quai duo’ cavalier or la Fortuna
392Dagli estremi del mondo in prova aduna!
L.
Furor contra virtute or quì combatte
D’Asia, in un picciol cerchio, il grande impero.
Chi può dir come gravi e come ratte
396Le spade son? quanto il duello e fero?
Passo quì cose orribili che fatte
Furon, ma le coprì quell’aer nero:
D’un chiarissimo Sol degne, e che tutti
400Siano i mortali a riguardar ridutti.
LI.
Il popol di Gesù dietro a tal guida,
Audace or divenuto, oltre si spinge:
E de’ suoi meglio armati all’omicida
404Soldano intorno un denso stuol si stringe.
Nè la gente fedel più che l’infida,
Nè più questa che quella il campo tinge;
Ma gli uni e gli altri, e vincitori e vinti,
408Egualmente dan morte, e sono estinti.
LII.
Come pari d’ardir, con forza pare
Quinci Austro in guerra vien, quindi Aquilone:
Non ei fra lor, non cede il Cielo, o ’l mare;
412Ma nube a nube, e flutto a flutto oppone.
Così nè ceder qua, nè là piegare
Si vede l’ostinata aspra tenzone.
S’affronta insieme orribilmente, urtando
416Scudo a scudo, elmo ad elmo, e brando a brando.
LIII.
Non meno intanto son feri i litigj
Dall’altra parte, e i guerrier folti e densi.
Mille nuvole e più d’Angioli stigj
420Tutti han pieni dell’aria i campi immensi,
E dan forza ai Pagani; onde i vestigj
Non è chi indietro di rivolger pensi.
E la face d’inferno Argante infiamma,
424Acceso ancor della sua propria fiamma.
LIV.
Egli ancor dal suo lato in fuga mosse
Le guardie, e ne’ ripari entrò d’un salto.
Di lacerate membra empiè le fosse,
428Appianò il calle, agevolò l’assalto:
Sicchè gli altri il seguiro, e fer poi rosse
Le prime tende di sanguigno smalto.
E seco a par Clorinda, o dietro poco
432Sen gía, sdegnosa del secondo loco.
LV.
E già fuggiano i Franchi, allor che quivi
Giunse Guelfo opportuno, e ’l suo drappello:
E volger fè la fronte ai fuggitivi,
436E sostenne il furor del popol fello.
Così si combatteva, e ’l sangue in rivi
Correa egualmente in questo lato e in quello.
Gli occhj frattanto alla battaglia rea,
440Dal suo gran seggio, il Re del Ciel volgea.
LVI.
Sedea colà, dond’egli e buono e giusto
Dà legge al tutto, e ’l tutto orna e produce
Sovra i bassi confin del mondo angusto,
444Ove senso o ragion non si conduce.
E della eternità nel trono augusto
Risplendea con tre lumi in una luce.
Ha sotto i piedi il Fato e la Natura,
448Ministri umíli, e ’l moto, e chi ’l misura;
LVII.
E ’l loco, e quella che qual fumo o polve
La gloria di qua giuso e l’oro e i regni,
Come piace là su, disperde e volve:
452Nè, Diva, cura i nostri umani sdegni.
Quivi ei così nel suo splendor s’involve,
Che v’abbaglian la vista anco i più degni;
D’intorno ha innumerabili immortali
456Disegualmente in lor letizia eguali.
LVIII.
Al gran concento de’ beati carmi
Lieta risuona la celeste reggia.
Chiama egli a se Michele, il qual nell’armi
460Di lucido diamante arde e lampeggia:
E dice a lui: non vedi or come s’armi
Contra la mia fedel diletta greggia
L’empia schiera d’Averno, e insin dal fondo
464Delle sue morti a turbar sorga il mondo?
LIX.
Và, dille tu, che lasci omai le cure
Della guerra ai guerrier, cui ciò conviene:
Nè il regno de’ viventi, nè le pure
468Piagge del Ciel conturbi ed avvelene.
Torni alle notti d’Acheronte oscure,
Suo degno albergo, alle sue giuste pene:
Quivi se stessa, e l’anime d’abisso
472Cruci; così comando, e così ho fisso.
LX.
Quì tacque: e ’l Duce de’ guerrieri alati
S’inchinò riverente al divin piede.
Indi spiega al gran volo i vanni aurati,
476Rapido sì ch’anco il pensiero eccede.
Passa il foco e la luce, ove i beati
Hanno lor gloriosa immobil sede:
Poscia il puro cristallo, e ’l cerchio mira
480Che di stelle gemmato incontra gira.
LXI.
Quinci d’opre diversi e di sembianti
Da sinistra rotar Saturno, e Giove,
E gli altri, i quali esser non ponno erranti,
484Se angelica virtù gl’informa e move.
Vien poi da’ campi lieti e fiammeggianti
D’eterno dì, là donde tuona e piove:
Ove se stesso il mondo strugge e pasce,
488E nelle guerre sue muore e rinasce.
LXII.
Venia scuotendo con l’eterne piume
La caligine densa, e i cupi orrori.
S’indorava la notte al divin lume,
492Che spargea scintillando il volto fuori.
Tale il Sol nelle nubi ha per costume
Spiegar, dopo la pioggia, i bei colori.
Tal suol, fendendo il liquido sereno,
496Stella cader della gran madre in seno.
LXIII.
Ma giunto ove la schiera empia infernale
Il furor de’ Pagani accende e sprona;
Si ferma in aria in sul vigor dell’ale,
500E vibra l’asta, e lor così ragiona:
Pur voi dovreste omai saper con quale
Folgore orrendo il Re del mondo tuona,
O nel disprezzo e ne’ tormenti acerbi
504Dell’estrema miseria anco superbi.
LXIV.
Fisso è nel Ciel, ch’al venerabil segno
Chini le mura, apra Sion le porte.
A chè pugnar col Fato? a chè lo sdegno
508Dunque irritar della celeste corte?
Itene maledetti al vostro regno,
Regno di pene, e di perpetua morte:
E siano in quegli a voi dovuti chiostri
512Le vostre guerre, ed i trionfi vostri.
LXV.
Là incrudelite, là sovra i nocenti
Tutte adoprate pur le vostre posse
Fra i gridi eterni, e lo stridor de’ denti,
516E ’l suon del ferro, e le catene scosse.
Disse: e quei ch’egli vide al partir lenti,
Con la lancia fatal pinse, e percosse.
Essi, gemendo, abbandonar le belle
520Regioni della luce, e l’auree stelle.
LXVI.
E dispiegar verso gli abissi il volo
Ad inasprir ne’ rei l’usate doglie.
Non passa il mar d’augei sì grande stuolo,
524Quando ai Soli più tepidi s’accoglie:
Nè tante vede mai l’autunno al suolo
Cader, co’ primi freddi, aride foglie.
Liberato da lor, quella sì negra
528Faccia depone il mondo, e sì rallegra.
LXVII.
Ma non perciò nel disdegnoso petto
D’Argante vien l’ardire o ’l furor manco;
Benchè suo foco in lui non spiri Aletto,
532Nè flagello infernal gli sferzi il fianco.
Rota il ferro crudel ove è più stretto
E più calcato insieme il popol Franco.
Miete i vili, e i potenti: e i più sublimi
536E più superbi capi adegua agl’imi.
LXVIII.
Non lontana è Clorinda, e già non meno
Par che di tronche membra il campo asperga.
Caccia la spada a Berlinghier nel seno,
540Per mezzo il cor, dove la vita alberga.
E quel colpo a trovarlo andò sì pieno,
Che sanguinosa uscì fuor delle terga.
Poi fere Albin là ’ve primier s’apprende
544Nostro alimento, e ’l viso a Gallo fende.
LXIX.
La destra di Gerniero, onde ferita
Ella fu pria, manda recisa al piano.
Tratta anco il ferro, e con tremanti dita
548Semiviva nel suol guizza la mano.
Coda di serpe è tal, ch’indi partita
Cerca d’unirsi al suo principio invano.
Così mal concio la Guerriera il lassa:
552Poi si volge ad Achille, e ’l ferro abbassa.
LXX.
E tra ’l collo e la nuca il colpo assesta:
E tronchi i nervi, e ’l gorgozzuol reciso,
Gío rotando a cader prima la testa:
556Prima bruttò di polve immonda il viso,
Che giù cadesse il tronco: il tronco resta
(Miserabile mostro!) in sella assiso.
Ma, libero del fren, con mille rote
560Calcitrando il destrier da se lo scuote.
LXXI.
Mentre così l’indomita Guerriera
Le squadre d’Occidente apre e flagella,
Non fa, d’incontra a lei, Gildippe altera
564De’ Saracini suoi strage men fella.
Era il sesso il medesmo, e simile era
L’ardimento e ’l valore in questa e in quella.
Ma far prova di lor non è lor dato:
568Ch’a nemico maggior le serba il Fato.
LXXII.
Quinci una, e quindi l’altra urta e sospinge,
Nè può la turba aprir calcata e spessa.
Ma ’l generoso Guelfo allora stringe
572Contra Clorinda il ferro, e le s’appressa:
E calando un fendente, alquanto tinge
La fera spada nel bel fianco: ed essa
Fa d’una punta a lui cruda risposta,
576Ch’a ferirlo ne va tra costa e costa.
LXXIII.
Doppia allor Guelfo il colpo, e lei non coglie;
Chè a caso passa il Palestino Osmida,
E la piaga non sua sopra se toglie,
580La qual vien che la fronte a lui recida.
Ma intorno a Guelfo omai molta s’accoglie
Di quella gente ch’ei conduce e guida:
E d’altra parte ancor la turba cresce,
584Sicchè la pugna si confonde e mesce.
LXXIV.
L’Aurora intanto il bel purpureo volto
Già dimostrava dal sovran balcone:
E in quei tumulti già s’era disciolto
588Il feroce Argillan di sua prigione:
E d’arme incerte il frettoloso avvolto,
Quali il caso gli offerse, o triste o buone:
Già sen venia per emendar gli errori
592Nuovi, con nuovi merti, e nuovi onori.
LXXV.
Come destrier che dalle regie stalle,
Ove all’uso dell’arme si riserba,
Fugge, e libero alfin, per largo calle
596Va tra gli armenti, o al fiume usato, o all’erba:
Scherzan sul collo i crini, e sulle spalle
Si scuote la cervice alta e superba:
Suonano i piè nel corso, e par ch’avvampi,
600Di sonori nitriti empiendo i campi.
LXXVI.
Tal ne viene Argillano: arde il feroce
Sguardo, ha la fronte intrepida e sublime:
Leve è ne’ salti, e sovra i piè veloce,
604Sicchè d’orme la polve appena imprime.
E giunto fra’ nemici alza la voce,
Pur com’uom che tutto osi, e nulla stime:
O vil feccia del mondo, Arabi inetti,
608Ond’è ch’or tanto ardire in voi s’alletti?
LXXVII.
Non regger voi degli elmi e degli scudi
Sete atti il peso, o ’l petto armarvi e ’l dorso;
Ma commettete, paventosi e nudi,
612I colpi al vento, e la salute al corso.
L’opere vostre, e i vostri egregj studj
Notturni son: dà l’ombra a voi soccorso.
Or ch’ella fugge, chi fia vostro schermo?
616D’arme è ben d’uopo, e di valor più fermo.
LXXVIII.
Così parlando ancor diè per la gola
Ad Algazel di sì crudel percossa,
Che gli secò le fauci, e la parola
620Troncò ch’alla risposta era già mossa.
A quel meschin subito orrore invola
Il lume, e scorre un duro gel per l’ossa.
Cade, e co’ denti l’odiosa terra,
624Pieno di rabbia, in sul morire afferra.
LXXIX.
Quinci per varj casi, e Saladino,
Ed Agricalte, e Muleasse uccide:
E dall’un fianco all’altro a lor vicino
628Con esso un colpo Aldiazil divide.
Trafitto a sommo il petto Ariadino
Atterra, e con parole aspre il deride.
Ei gli occhj gravi alzando, alle orgogliose
632Parole, in sul morir, così rispose:
LXXX.
Non tu, chiunque sia, di questa morte
Vincitor lieto avrai gran tempo il vanto.
Pari destin t’aspetta, e da più forte
636Destra, a giacer mi sarai steso a canto.
Rise egli amaramente, e, di mia sorte
Curi il Ciel, disse; or tu quì mori intanto
D’augei pasto, e di cani: indi lui preme
640Col piede, e ne trae l’alma, e ’l ferro insieme.
LXXXI.
Un paggio del Soldan misto era in quella
Turba di sagittarj e lanciatori,
A cui non anco la stagion novella
644Il bel mento spargea de’ primi fiori.
Pajon perle e rugiade, in su la bella
Guancia irrigando, i tepidi sudori:
Giunge grazia la polve al crine incolto:
648E sdegnoso rigor dolce è in quel volto.
LXXXII.
Sotto ha un destrier che, di candore, agguaglia
Pur or nell’Apennin caduta neve:
Turbo o fiamma non è, che roti o saglia
652Rapida sì, come è quel pronto e leve.
Vibra ei, presa nel mezzo, una zagaglia:
La spada al fianco tien ritorta e breve:
E con barbara pompa in un lavoro
656Di porpora risplende intesta e d’oro.
LXXXIII.
Mentre il fanciullo, a cui novel piacere
Di gloria il petto giovenil lusinga,
Di qua turba e di là tutte le schiere,
660E lui non è chi tanto o quanto stringa;
Cauto osserva Argillan tra le leggiere
Sue rote il tempo, in che l’asta sospinga:
E colto il punto, il suo destrier di furto
664Gli uccide, e sovra gli è, ch’appena è surto.
LXXXIV.
Ed al supplice volto, il quale invano
Con l’arme di pietà fea sue difese,
Drizzò, crudel, l’inesorabil mano,
668E di Natura il più bel pregio offese.
Senso aver parve, e fu dell’uom più umano
Il ferro, che si volse e piatto scese:
Ma che pro? se, doppiando il colpo fero,
672Di punta colse ove egli errò primiero.
LXXXV.
Soliman, che di là non molto lunge
Da Goffredo in battaglia è trattenuto,
Lascia la zuffa, e ’l destrier volve e punge,
676Tosto che ’l rischio ha del garzon veduto:
E i chiusi passi apre col ferro, e giunge
Alla vendetta si, non all’ajuto:
Perchè vede, ahi dolor! giacerne ucciso
680Il suo Lesbin, quasi bel fior succiso.
LXXXVI.
E in atto sì gentil languir tremanti
Gli occhj, e cader sul tergo il collo mira:
Così vago è il pallore, e da’ sembianti
684Di morte una pietà sì dolce spira;
Ch’ammollì il cor, che fu dur marmo innanti
E ’l pianto scaturì di mezzo all’ira.
Tu piangi, Soliman! tu che distrutto
688Mirasti il regno tuo col ciglio asciutto?
LXXXVII.
Ma come ei vede il ferro ostil che molle
Fuma del sangue ancor del giovinetto;
La pietà cede, e l’ira avvampa e bolle,
692E le lagrime sue stagna nel petto.
Corre sovra Argillano, e ’l ferro estolle,
Parte lo scudo opposto, indi l’elmetto,
Indi il capo e la gola; e dello sdegno
696Di Soliman ben quel gran colpo è degno.
LXXXVIII.
Nè di ciò ben contento, al corpo morto,
Smontato del destriero, anco fa guerra;
Quasi mastin che ’l sasso, ond’a lui porto
700Fu duro colpo, infellonito afferra.
Oh d’immenso dolor vano conforto,
Incrudelir nell’insensibil terra!
Ma frattanto de’ Franchi il Capitano
704Non spendea l’ire, e le percosse invano.
LXXXIX.
Mille Turchi avea quì che di loriche,
E d’elmetti, e di scudi eran coperti,
Indomiti di corpo alle fatiche,
708Di spirto audaci, e in tutti i casi esperti:
E furon già delle milizie antiche
Di Solimano, e seco ne’ deserti
Seguir d’Arabia i suo’ errori infelici,
712Nelle fortune avverse ancora amici.
XC.
Questi ristretti insieme in ordin folto
Poco cedeano o nulla al valor Franco.
In questi urtò Goffredo, e ferì il volto
716Al fier Corcutte, ed a Rosteno il fianco:
A Selin dalle spalle il capo ha sciolto:
Tronco a Rosseno il destro braccio e ’l manco.
Nè già soli costor; ma in altre guise
720Molti piagò di loro, e molti uccise.
XCI.
Mentre ei così la gente Saracina
Percuote, e lor percosse anco sostiene:
E in nulla parte al precipizio inchina
724La fortuna de’ Barbari, e la spene:
Nova nube di polve ecco vicina,
Che folgori di guerra in grembo tiene;
Ecco d’arme improvvise uscir un lampo,
728Che sbigottì degl’infedeli il campo.
XCII.
Son cinquanta guerrier, che in puro argento
Spiegan la trionfal purpurea Croce.
Non io, se cento bocche e lingue cento
732Avessi, e ferrea lena e ferrea voce,
Narrar potrei quel numero che spento,
Ne’ primi assalti, ha quel drappel feroce.
Cade l’Arabo imbelle, e ’l Turco invitto,
736Resistendo e pugnando, anco è trafitto.
XCIII.
L’orror, la crudeltà, la tema, il lutto
Van d’intorno scorrendo: e in varia imago
Vincitrice la Morte errar per tutto
740Vedresti, ed ondeggiar di sangue un lago.
Già con parte de’ suoi s’era condutto
Fuor d’una porta il Re, quasi presago
Di fortunoso evento; e quinci d’alto
744Mirava il pian soggetto, e ’l dubbio assalto.
XCIV.
Ma come prima egli ha veduto in piega
L’esercito maggior, suona a raccolta,
E con messi iterati, instando, prega
748Ed Argante, e Clorinda a dar di volta.
La fera coppia d’esequir ciò nega,
Ebra di sangue, e cieca d’ira, e stolta;
Pur cede alfine, e unite almen raccorre
752Tenta le turbe, e freno ai passi imporre.
XCV.
Ma chi dà legge al volgo, ed ammaestra
La viltade e ’l timor? la fuga è presa.
Altri gitta lo scudo, altri la destra
756Disarma: impaccio è il ferro, e non difesa.
Valle è tra il piano e la Città, ch’alpestra
Dall’Occidente al Mezzogiorno è stesa;
Quì fuggon’ essi, e si rivolge oscura
760Caligine di polve inver le mura.
XCVI.
Mentre ne van precipitosi al chino,
Strage d’essi i Cristiani orribil fanno;
Ma poscia che, salendo, omai vicino
764L’ajuto avean del barbaro tiranno,
Non vuol Guelfo d’alpestro erto cammino,
Con tanto suo svantaggio, esporsi al danno;
Ferma le genti, e ’l Re le sue riserra,
768Non poco avanzo d’infelice guerra.
XCVII.
Fatto intanto ha il Soldan ciò che è concesso
Fare a terrena forza, or più non puote;
Tutto è sangue e sudore, e un grave e spesso
772Anelar gli ange il petto, e i fianchi scuote.
Langue sotto lo scudo il braccio oppresso;
Gira la destra il ferro in pigre rote;
Spezza, e non taglia, e divenendo ottuso,
776Perduto il brando omai di brando ha l’uso.
XCVIII.
Come sentissi tal, ristette in atto
D’uom che fra due sia dubbio, e in se discorre
Se morir debba, e di sì illustre fatto,
780Colle sue mani, altrui la gloria torre;
O pur sopravanzando al suo disfatto
Campo, la vita in sicurezza porre.
Vinca (alfin disse) il Fato, e questa mia
784Fuga, il trofeo di sua vittoria sia.
XCIX.
Veggia il nemico le mie spalle, e scherna
Di novo ancora il nostro esiglio indegno;
Pur che di novo armato indi mi scerna
788Turbar sua pace, e ’l non mai stabil regno.
Non cedo io, nò: fia con memoria eterna
Delle mie offese, eterno anco il mio sdegno.
Risorgerò nemico ognor più crudo,
792Cenere anco sepolto, e spirto ignudo.