Gerusalemme liberata/Canto settimo
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Fugge Erminia, e un pastor l’accoglie; intanto |
CANTO SETTIMO.
Intanto Erminia infra l’ombrose piante
D’antica selva dal cavallo è scorta:
Nè più governa il fren la man tremante;
4E mezza quasi par tra viva e morta.
Per tante strade si raggira e tante
Il corridor che in sua balía la porta;
Ch’alfin dagli occhj altrui pur si dilegua,
8Ed è soverchio omai ch’altri la segua.
II.
Qual dopo lunga e faticosa caccia
Tornansi mesti ed anelanti i cani
Che la fera perduta abbian di traccia,
12Nascosa in selva dagli aperti piani;
Tal pieni d’ira e di vergogna in faccia
Riedono stanchi i cavalier Cristiani.
Ella pur fugge, e timida e smarrita
16Non si volge a mirar s’anco è seguita.
III.
Fuggì tutta la notte, e tutto il giorno
Errò senza consiglio e senza guida,
Non udendo o vedendo altro d’intorno
20Che le lagrime sue, che le sue strida.
Ma nell’ora che ’l Sol dal carro adorno
Scioglie i corsieri, e in grembo al mar s’annida,
Giunse del bel Giordano alle chiare acque,
24E scese in riva al fiume, e quì si giacque.
IV.
Cibo non prende già, chè de’ suoi mali
Solo si pasce, e sol di pianto ha sete:
Ma ’l sonno, che de’ miseri mortali
28È col suo dolce oblio posa e quiete,
Sopì co’ sensi i suoi dolori, e l’ali
Dispiegò sovra lei placide e chete:
Nè però cessa Amor, con varie forme,
32La sua pace turbar mentre ella dorme.
V.
Non si destò finchè garrir gli augelli
Non sentì lieti e salutar gli albóri,
E mormorare il fiume e gli arboscelli,
36E con l’onda scherzar l’aura e co’ fiori:
Apre i languidi lumi, e guarda quelli
Alberghi solitarj de’ pastori:
E parle voce udir, tra l’acqua e i rami,
40Ch’ai sospiri ed al pianto la richiami.
VI.
Ma son, mentre ella piange, i suoi lamenti
Rotti da un chiaro suon ch’a lei ne viene,
Che sembra ed è di pastorali accenti
44Misto, e di boscarecce inculte avene.
Risorge, e là s’indrizza a passi lenti,
E vede un uom canuto all’ombre amene
Tesser fiscelle alla sua greggia a canto,
48Ed ascoltar di tre fanciulli il canto.
VII.
Vedendo quivi comparir repente
Le insolite arme, sbigottir costoro;
Ma gli saluta Erminia, e dolcemente
52Gli affida, e gli occhj scopre e i bei crin d’oro.
Seguite, dice, avventurosa gente
Al Ciel diletta, il bel vostro lavoro;
Chè non portano già guerra quest’armi
56All’opre vostre, ai vostri dolci carmi.
Ma gli saluta Erminia, e dolcemente |
VIII.
Soggiunse poscia: o padre, or che d’intorno
D’alto incendio di guerra arde il paese,
Come quì state in placido soggiorno
60Senza temer le militari offese?
Figlio, ei rispose, d’ogni oltraggio e scorno
La mia famiglia e la mia greggia illese
Sempre quì fur; nè strepito di Marte
64Ancor turbò questa remota parte.
IX.
O sia grazia del Ciel che l’umiltade
D’innocente pastor salvi, e sublime;
O che, siccome il folgore non cade
68In basso pian ma sulle eccelse cime;
Così il furor di peregrine spade
Sol de’ gran Re le altere teste opprime;
Nè gli avidi soldati a preda alletta
72La nostra povertà vile e negletta.
X.
Altrui vile e negletta, a me sì cara,
Chè non bramo tesor nè regal verga;
Nè cura o voglia ambiziosa o avara
76Mai nel tranquillo del mio petto alberga.
Spengo la sete mia nell’acqua chiara,
Che non tem’io che di venen s’asperga:
E questa greggia e l’orticel dispensa
80Cibi non compri alla mia parca mensa.
XI.
Chè poco è il desiderio, e poco è il nostro
Bisogno, onde la vita si conservi.
Son figlj miei questi ch’addíto e mostro
84Custodi della mandra, e non ho servi.
Così men vivo in solitario chiostro,
Saltar veggendo i capri snelli e i cervi,
Ed i pesci guizzar di questo fiume,
88E spiegar gli augelletti al ciel le piume.
XII.
Tempo già fu, quando più l’uom vaneggia
Nell’età prima, ch’ebbi altro desio,
E disdegnai di pasturar la greggia,
92E fuggii dal paese a me natío:
E vissi in Menfi un tempo, e nella reggia
Fra i ministri del Re fui posto anch’io:
E benchè fossi guardian degli orti,
96Vidi, e conobbi pur le inique corti.
XIII.
E lusingato da speranza ardita,
Soffrii lunga stagion ciò che più spiace.
Ma poi ch’insieme con l’età fiorita
100Mancò la speme, e la baldanza audace;
Piansi i riposi di quest’umil vita,
E sospirai la mia perduta pace:
E dissi: o corte, addio. Così agli amici
104Boschi tornando, ho tratto i dì felici.
XIV.
Mentre ei così ragiona, Erminia pende
Dalla soave bocca intenta e cheta:
E quel saggio parlar, ch’al cor le scende,
108De’ sensi in parte le procelle acqueta.
Dopo molto pensar, consiglio prende
In quella solitudine secreta
Infino a tanto almen farne soggiorno,
112Ch’agevoli fortuna il suo ritorno.
XV.
Onde al buon vecchio dice: o fortunato,
Ch’un tempo conoscesti il male a prova,
Se non t’invidj il Ciel sì dolce stato,
116Delle miserie mie pietà ti mova:
E me teco raccogli in questo grato
Albergo; ch’abitar teco mi giova.
Forse fia che ’l mio cor, infra quest’ombre,
120Del suo peso mortal parte disgombre.
XVI.
Chè se di gemme e d’or, che ’l volgo adora
Siccome idoli suoi, tu fossi vago;
Potresti ben, tante n’ho meco ancora,
124Renderne il tuo desio contento e pago.
Quinci versando da’ begli occhj fuora
Umor di doglia cristallino e vago,
Parte narrò di sue fortune: e intanto
128Il pietoso pastor pianse al suo pianto.
XVII.
Poi dolce la consola, e sì l’accoglie,
Come tutt’arda di paterno zelo;
E la conduce ov’è l’antica moglie
132Che di conforme cor gli ha data il Cielo.
La fanciulla regal di rozze spoglie
S’ammanta, e cinge al crin ruvido velo;
Ma nel moto degli occhj e delle membra
136Non già di boschi abitatrice sembra.
XVIII.
Non copre abito vil la nobil luce
E quanto è in lei d’altero e di gentile:
E fuor la regia maestà traluce
140Per gli atti ancor dell’esercizio umíle.
Guida la greggia ai paschi, e la riduce
Con la povera verga al chiuso ovile;
E dall’irsute mamme il latte preme,
144E in giro accolto poi lo stringe insieme.
XIX.
Sovente, allor che su gli estivi ardori
Giacean le pecorelle all’ombra assise,
Nella scorza de’ faggj e degli allori
148Segnò l’amato nome in mille guise:
E de’ suoi strani ed infelici amori
Gli aspri successi in mille piante incise:
E in rileggendo poi le proprie note
152Rigò di belle lagrime le gote.
XX.
Indi dicea piangendo: in voi serbate
Questa dolente istoria, amiche piante:
Perchè se fia ch’alle vostr’ombre grate
156Giammai soggiorni alcun fedele amante,
Senta svegliarsi al cor dolce pietate
Delle sventure mie sì varie e tante:
E dica: ah troppo ingiusta empia mercede
160Diè Fortuna ed Amore a sì gran fede!
XXI.
Forse avverrà, se ’l Ciel benigno ascolta
Affettuoso alcun prego mortale,
Che venga in queste selve anco tal volta
164Quegli, a cui di me forse or nulla cale:
E rivolgendo gli occhj ove sepolta
Giacerà questa spoglia inferma e frale,
Tardo premio conceda a’ miei martiri
168Di poche lagrimette, e di sospiri.
XXII.
Onde, se in vita il cor misero fue,
Sia lo spirito in morte almen felice:
E ’l cener freddo delle fiamme sue
172Goda quel ch’or godere a me non lice.
Così ragiona ai sordi tronchi, e due
Fonti di pianto da’ begli occhj elíce.
Tancredi intanto, ove fortuna il tira
176Lunge da lei, per lei seguir, s’aggira.
XXIII.
Egli, seguendo le vestigia impresse,
Rivolse il corso alla selva vicina.
Ma quivi dalle piante orride e spesse
180Nera e folta così l’ombra dechina;
Che più non può raffigurar tra esse
L’orme novelle, e ’n dubbio oltre cammina,
Porgendo intorno pur l’orecchie intente,
184Se calpestío, se romor d’armi sente.
XXIV.
E se pur la notturna aura percuote
Tenera fronde mai d’olmo o di faggio:
O se fera od augello un ramo scuote;
188Tosto a quel picciol suon drizza il viaggio.
Esce alfin della selva, e per ignote
Strade il conduce dela Luna il raggio
Verso un romor che di lontano udiva,
192Insin che giunse al loco ond’egli usciva.
XXV.
Giunse dove sorgean da vivo sasso
In molta copia chiare e lucide onde:
E fattosene un rio volgeva abbasso
196Lo strepitoso piè tra verdi sponde.
Quivi egli ferma addolorato il passo,
E chiama, e solo ai gridi Eco risponde:
E vede intanto con serene ciglia
200Sorger l’aurora candida e vermiglia.
XXVI.
Geme cruccioso, e incontra il Ciel si sdegna
Che sperata gli neghi alta ventura:
Ma della donna sua, quand’ella vegna
204Offesa pur, far la vendetta giura.
Di rivolgersi al campo alfin disegna,
Benchè la via trovar non s’assicura;
Chè gli sovvien che presso è il dì prescritto
208Che pugnar dee col cavalier d’Egitto.
XXVII.
Partesi, e mentre va per dubbio calle,
Ode un corso appressar ch’ognor s’avvanza:
Ed alfine spuntar d’angusta valle
212Vede uom che di corriero avea sembianza.
Scotea mobile sferza, e dalle spalle
Pendea il corno sul fianco a nostra usanza.
Chiede Tancredi a lui, per quale strada
216Al campo de’ Cristiani indi si vada.
XXVIII.
Quegli Italico parla: Or là m’invio,
Dove m’ha Boemondo in fretta spinto.
Segue Tancredi lui che del gran zio
220Messaggio stima, e crede al parlar finto.
Giungono al fin là dove un sozzo e rio
Lago impaluda, ed un castel n’è cinto,
Nella stagion che ’l Sol par che s’immerga
224Nell’ampio nido ove la notte alberga.
XXIX.
Suona il corriero in arrivando il corno,
E tosto giù calar si vede un ponte.
Quando Latin sia tu, quì far soggiorno
228Potrai, gli dice, infin che ’l Sol rimonte;
Chè questo loco, e non è il terzo giorno,
Tolse ai Pagani di Cosenza il Conte.
Mira il loco il Guerrier, che d’ogni parte
232Inespugnabil fanno il sito e l’arte.
XXX.
Dubita alquanto poi ch’entro sì forte
Magione alcuno inganno occulto giaccia.
Ma come avvezzo ai rischj della morte,
236Motto non fanne, e nol dimostra in faccia;
Ch’ovunque il guidi elezione o sorte,
Vuol che sicuro la sua destra il faccia.
Pur l’obligo ch’egli ha d’altra battaglia,
240Fa che di nova impresa or non gli caglia.
XXXI.
Sicchè incontra al castello, ove in un prato
Il curvo ponte si distende e posa,
Ritiene alquanto il passo, ed invitato
244Non segue la sua scorta insidiosa.
Sul ponte intanto un cavaliero armato
Con sembianza apparia fera e sdegnosa;
Ch’avendo nella destra il ferro ignudo,
248In suon parlava minaccioso e crudo.
XXXII.
O tu, che (siasi tua fortuna, o voglia)
Al paese fatal d’Armida arrive,
Pensi indarno al fuggire: or l’arme spoglia,
252E porgi ai laccj suoi le man cattive.
Entra pur dentro alla guardata soglia
Con queste leggi ch’ella altrui prescrive:
Nè più sperar di riveder il cielo
256Per volger d’anni, o per cangiar di pelo,
XXXIII.
Se non giuri d’andar con gli altri sui
Contra ciascun che da Gesù s’appella.
S’affisa a quel parlar Tancredi in lui,
260E riconosce l’arme, e la favella.
Rambaldo di Guascogna era costui,
Che partì con Armida, e sol per ella
Pagan si fece, e difensor divenne
264Di quell’usanza rea ch’ivi si tenne.
XXXIV.
Di santo sdegno il pio guerrier si tinse
Nel volto, e gli rispose: empio fellone,
Quel Tancredi son io che ’l ferro cinse
268Per Cristo sempre, e fui di lui campione:
E in sua virtute i suoi rubelli vinse,
Come vuò che tu veggia al paragone;
Chè dall’ira del Ciel ministra eletta
272È questa destra a far di te vendetta.
XXXV.
Turbossi, udendo il glorioso nome,
L’empio guerriero, e scolorissi in viso.
Pur celando il timor, gli disse: or come,
276Misero, vieni ove rimanga ucciso?
Quì saran le tue forze oppresse e dome,
E questo altero tuo capo reciso:
E manderollo ai Duci Franchi in dono,
280S’altro da quel che soglio oggi non sono.
XXXVI.
Così dice il Pagano; e perchè il giorno
Spento era omai, sì che vedeasi appena;
Apparir tante lampade d’intorno,
284Che ne fu l’aria lucida e serena.
Splende il castel, come in teatro adorno
Suol fra notturne pompe altera scena:
Ed in eccelsa parte Armida siede,
288Onde, senz’esser vista, ed ode e vede.
XXXVII.
Il magnanimo eroe frattanto appresta
Alla fera tenzon l’arme e l’ardire:
Nè sul debil cavallo assiso resta,
292Già veggendo il nemico a piè venire.
Vien chiuso nello scudo, e l’elmo ha in testa,
La spada nuda, e in atto è di ferire.
Gli move incontra il Principe feroce
296Con occhi torvi, e con terribil voce.
XXXVIII.
Quegli con larghe rote aggira i passi
Stretto nell’armi, e colpi accenna e finge.
Questi, sebben ha i membri infermi e lassi,
300Va risoluto, e gli s’appressa, e stringe:
E là donde Rambaldo addietro fassi,
Velocissimamente egli si spinge:
E s’avanza, e l’incalza, e fulminando
304Spesso alla vista gli dirizza il brando.
XXXIX.
E più ch’altrove, impetuoso fere
Ove più di vital formò natura,
Alle percosse le minacce altere
308Accompagnando, e ’l danno alla paura.
Di qua, di là si volge, e sue leggiere
Membra il presto Guascone ai colpi fura:
E cerca or con lo scudo, or con la spada,
312Che ’l nemico furore indarno cada.
XL.
Ma veloce allo schermo ei non è tanto,
Che più l’altro non sia pronto alle offese.
Già spezzato lo scudo, e l’elmo infranto,
316E forato e sanguigno avea l’arnese:
E colpo alcun de’ suoi, che tanto o quanto
Impiagasse il nemico, anco non scese:
E teme, e gli rimorde insieme il core
320Sdegno, vergogna, conscienza, amore.
XLI.
Disponsi alfin con disperata guerra
Far prova omai dell’ultima fortuna.
Gitta lo scudo, ed a due mani afferra
324La spada ch’è di sangue ancor digiuna:
E col nemico suo si stringe e serra,
E cala un colpo, e non v’è piastra alcuna
Che gli resista sì, che grave angoscia
328Non dia piagando alla sinistra coscia.
XLII.
E poi su l’ampia fronte il ripercuote,
Sicchè ’l picchio rimbomba in suon di squilla:
L’elmo non fende già, ma lui ben scuote,
332Talch’egli si rannicchia, e ne vacilla.
Infiamma d’ira il Principe le gote,
E negli occhj di foco arde e sfavilla:
E fuor della visiera escono ardenti
336Gli sguardi, e insieme lo stridor de’ denti.
XLIII.
Il perfido Pagan già non sostiene
La vista pur di sì feroce aspetto.
Sente fischiare il ferro, e tra le vene
340Già gli sembra d’averlo, e in mezzo al petto.
Fugge dal colpo, e ’l colpo a cader viene
Dove un pilastro è contra il ponte eretto.
Ne van le schegge e le scintille al cielo,
344E passa al cor del traditore un gelo.
XLIV.
Onde al ponte rifugge, e sol nel corso
Della salute sua pone ogni speme.
Ma il seguita Tancredi, e già sul dorso
348La man gli stende, e ’l piè col piè gli preme;
Quando ecco (al fuggitivo alto soccorso)
Sparir le faci, ed ogni stella insieme:
Nè rimaner all’orba notte alcuna,
352Sotto povero ciel, luce di Luna.
XLV.
Fra l’ombre della notte e degl’incanti
Il vincitor nol segue più, nel vede:
Nè può cosa vedersi a lato, o innanti,
356E muove dubbio e mal sicuro il piede.
Sul limitar d’un uscio i passi erranti
A caso mette, nè d’entrar s’avvede;
Ma sente poi che suona a lui diretro
360La porta, e ’n loco il serra oscuro e tetro.
XLVI.
Come il pesce colà dove impaluda
Ne’ seni di Comacchio il nostro mare,
Fugge dall’onda impetuosa e cruda,
364Cercando in placide acque ove ripare:
E vien che da se stesso ei si rinchiuda
In palustre prigion, nè può tornare;
Chè quel serraglio è con mirabil uso
368Sempre all’entrar aperto, all’uscir chiuso.
XLVII.
Così Tancredi allor, qual che si fosse
Dell’estrania prigion l’ordigno e l’arte,
Entrò per se medesmo, e ritrovosse
372Poi là rinchiuso, ond’uom per se non parte.
Ben con robusta man la porta scosse,
Ma fur le sue fatiche indarno sparte;
E voce intanto udì che, indarno, grida,
376Uscir procuri, o prigionier d’Armida.
XLVIII.
Quì menerai (non temer già di morte)
Nel sepolcro de’ vivi i giorni, e gli anni.
Non risponde, ma preme il Guerrier forte
380Nel cor profondo i gemiti e gli affanni:
E fra se stesso accusa amor, la sorte,
La sua schiocchezza e gli altrui feri inganni:
E talor dice, in tacite parole,
384Leve perdita fia perdere il Sole.
XLIX.
Ma di più vago Sol più dolce vista
Misero i’ perdo, e non so già se mai
In loco tornerò che l’alma trista
388Si rassereni agli amorosi rai.
Poi gli sovvien d’Argante, e più s’attrista:
E troppo, dice, al mio dover mancai:
Ed è ragion ch’ei mi disprezzi e scherna.
392O mia gran colpa, o mia vergogna eterna!
L.
Così d’amor, d’onor cura mordace
Quinci e quindi al Guerrier l’animo rode.
Or mentre egli s’affligge, Argante audace
396Le molli piume di calcar non gode;
Tanto è nel crudo petto odio di pace,
Cupidigia di sangue, amor di lode;
Che delle piaghe sue non sano ancora
400Brama che ’l sesto dì porti l’aurora.
LI.
La notte che precede, il Pagan fero
Appena inchina per dormir la fronte:
E sorge poi che ’l cielo anco è sì nero,
404Che non dà luce in su la cima al monte.
Recami l’arme, grida al suo scudiero,
E quegli aveale apparecchiate e pronte:
Non le solite sue; ma dal Re sono
408Dategli queste, e prezioso è il dono.
LII.
Senza molto mirarle egli le prende,
Nè dal gran peso è la persona onusta;
E la solita spada al fianco appende,
412Ch’è di tempra finissima e vetusta.
Qual con le chiome sanguinose orrende
Splender cometa suol per l’aria adusta,
Che i regni muta, i feri morbi adduce,
416E ai purpurei Tiranni infausta luce;
LIII.
Tal nell’arme ei fiammeggia, e bieche e torte
Volge le luci ebre di sangue e d’ira.
Spirano gli atti feri orror di morte,
420E minacce di morte il volto spira.
Alma non è così sicura e forte
Che non paventi, ove un sol guardo gira.
Nuda ha la spada, e la solleva, e scuote
424Gridando, e l’aria, e l’ombre invan percuote.
LIV.
Ben tosto, dice, il predator Cristiano,
Ch’audace è sì ch’a me vuole agguagliarsi,
Caderà vinto e sanguinoso al piano,
428Bruttando nella polve i crini sparsi;
E vedrà vivo ancor da questa mano,
Ad onta del suo Dio, l’arme spogliarsi:
Nè, morendo, impetrar potrà co’ preghi
432Che in pasto a’ cani le sue membra i’ neghi.
LV.
Non altramente il tauro, ove l’irriti
Geloso amor con stimoli pungenti,
Orribilmente mugge, e co’ muggiti
436Gli spirti in se risveglia, e l’ire ardenti,
E ’l corno aguzza ai tronchi; e par ch’inviti
Con vani colpi alla battaglia i venti:
Sparge col piè l’arena, e ’l suo rivale
440Da lunge sfida a guerra aspra e mortale.
LVI.
Da sì fatto furor commosso, appella
L’araldo, e con parlar tronco gl’impone:
Vattene al campo, e la battaglia fella
444Nunzia a colui ch’è di Gesù campione.
Quinci alcun non aspetta, e monta in sella
E fa condursi innanzi il suo prigione.
Esce fuor della terra, e per lo colle
448In corso vien precipitoso e folle.
LVII.
Dà fiato intanto al corno, e n’esce un suono
Che d’ogn’intorno orribile s’intende:
E in guisa pur di strepitoso tuono
452Gli orecchj e ’l cor degli ascoltanti offende.
Già i Principi Cristiani accolti sono
Nella tenda maggior dell’altre tende.
Quì fè l’araldo sue disfide, e incluse
456Tancredi pria, nè però gli altri escluse.
LVIII.
Goffredo intorno gli occhj gravi e tardi
Volge con mente allor dubbia e sospesa:
Nè perchè molto pensi e molto guardi,
460Atto gli s’offre alcuno a tanta impresa.
Vi manca il fior de’ suoi guerrier gagliardi:
Di Tancredi non s’è novella intesa;
E lunge è Boemondo, ed ito è in bando
464L’invitto Eroe ch’uccise il fier Gernando.
LIX.
Ed oltre i dieci che fur tratti a sorte,
I migliori del campo e i più famosi
Seguir d’Armida le fallaci scorte,
468Sotto il silenzio della notte ascosi.
Gli altri, di mano e d’animo men forte,
Taciti se ne stanno e vergognosi:
Nè v’è chi cerchi in sì gran rischio onore;
472Chè vinta la vergogna è dal timore.
LX.
Al silenzio, all’aspetto, ad ogni segno,
Di lor temenza il Capitan s’accorse;
E tutto pien di generoso sdegno,
476Dal loco ove sedea repente sorse,
E disse: ah ben sarei di vita indegno,
Se la vita negassi or porre in forse,
Lasciando ch’un Pagan, così vilmente
480Calpestasse l’onor di nostra gente.
LXI.
Sieda in pace il mio campo, e, da sicura
Parte, miri ozioso il mio periglio.
Su su datemi l’arme: e l’armatura
484Gli fu recata in un girar di ciglio.
Ma il buon Raimondo, che in età matura
Parimente maturo avea il consiglio,
E verdi ancor le forze a par di quanti
488Erano quivi, allor si trasse avanti.
LXII.
E disse a lui rivolto: ah non sia vero
Che in un capo s’arrischi il campo tutto.
Duce sei tu, non semplice guerriero:
492Pubblico fora, e non privato il lutto.
In te la fe s’appoggia, e ’l santo impero.
Per te fia il regno di Babel distrutto:
Tu il senno sol, lo scettro solo adopra;
496Altri ponga l’ardire, e ’l ferro in opra.
LXIII.
Ed io, bench’a gir curvo mi condanni
La grave età, non fia che ciò ricusi.
Schivino gli altri i marziali affanni;
500Me non vuò già che la vecchiezza scusi.
Oh foss’io pur sul mio vigor degli anni
Qual sete or voi, che quì temendo chiusi
Vi state, e non vi move ira o vergogna
504Contra lui che vi sgrida, e vi rampogna:
LXIV.
E quale allora fui, quando al cospetto
Di tutta la Germania, alla gran corte
Del secondo Corrado, apersi il petto
508Al feroce Leopoldo, e ’l posi a morte.
E fu d’alto valor più chiaro effetto
Le spoglie riportar d’uom così forte,
Che s’alcuno or fugasse, inerme e solo,
512Di questa ignobil turba un grande stuolo.
LXV.
Se fosse in me quella virtù, quel sangue,
Di questo altier l’orgoglio avrei già spento.
Ma qualunque io mi sia, non però langue
516Il core in me, nè vecchio anco pavento.
E s’io pur rimarrò nel campo esangue,
Nè il Pagan di vittoria andrà contento:
Armarmi io vuò; sia questo il dì ch’illustri,
520Con novo onor, tutti i miei scorsi lustri.
LXVI.
Così parla il gran vecchio; e sproni acuti
Son le parole onde virtù si desta.
Quei che fur prima timorosi e muti,
524Hanno la lingua or baldanzosa e presta.
Nè sol non v’è che la tenzon rifiuti;
Ma ella omai da molti a gara è chiesta.
Baldovin la domanda, e con Ruggiero
528Guelfo, i due Guidi, e Stefano, e Gerniero;
LXVII.
E Pirro, quel che fè il lodato inganno,
Dando Antiochia presa a Boemondo;
Ed a prova richiesta anco ne fanno
532Eberardo, Ridolfo, e ’l prò Rosmondo:
Un di Scozia, un d’Irlanda, ed un Britanno,
Terre che parte il mar dal nostro mondo:
E ne son parimente anco bramosi
536Gildippe ed Odoardo amanti e sposi.
LXVIII.
Ma sovra tutti gli altri il fiero vecchio
Se ne dimostra cupido ed ardente.
Armato è già; sol manca all’apparecchio
540Degli altri arnesi il fino elmo lucente.
A cui dice Goffredo: o vivo specchio
Del valor prisco, in te la nostra gente
Miri, e virtù n’apprenda: in te di Marte
544Splende l’onor, la disciplina, e l’arte.
LXIX.
Oh pur avessi fra l’etade acerba
Dieci altri di valor al tuo simíle,
Come ardirei vincer Babel superba,
548E la Croce spiegar da Battro a Tile.
Ma cedi or, prego, e te medesmo serba
A maggior opre, e di virtù seníle:
E lascia che degli altri in picciol vaso
552Pongansi i nomi, e sia giudice il caso.
LXX.
Anzi giudice Dio, delle cui voglie
Ministra e serva è la Fortuna, e ’l Fato.
Ma non però dal suo pensier si toglie
556Raimondo, e vuol’anch’egli esser notato.
Nell’elmo suo Goffredo i brevi accoglie:
E poi che l’ebbe scosso ed agitato,
Nel primo breve che di là traesse,
560Del Conte di tolosa il nome lesse.
LXXI.
Fu il nome suo con lieto grido accolto:
Nè di biasmar la sorte alcun ardisce.
Ei di fresco vigor la fronte e ’l volto
564Riempie: e così allor ringiovenisce,
Qual serpe fier, che in nuove spoglie avvolto,
D’oro fiammeggi, e incontra il Sol si lisce.
Ma più d’ogn’altro il Capitan gli applaude,
568E gli annunzia vittoria, e gli dà laude.
LXXII.
E la spada togliendosi dal fianco,
E porgendola a lui, così dicea:
Questa è la spada, che in battaglia il Franco
572Rubello di Sassonia oprar solea;
Ch’io già gli tolsi a forza, e gli tolsi anco
La vita allor di mille colpe rea.
Questa, che meco ogn’or fu vincitrice,
576Prendi; e sia così teco ora felice.
LXXIII.
Di loro indugio intanto è quell’altero
Impaziente, e li minaccia, e grida:
O gente invitta, o popolo guerriero
580D’Europa, un uomo solo è che vi sfida.
Venga Tancredi omai che par sì fero,
Se nella sua virtù tanto si fida;
O vuol, giacendo in piume, aspettar forse
584La notte ch’altre volte a lui soccorse?
LXXIV.
Venga altri, s’egli teme: a stuolo a stuolo
Venite insieme, o cavalieri, o fanti;
Poichè di pugnar meco a solo a solo
588Non v’è fra mille schiere uom che si vanti.
Vedete là il sepolcro, ove il figliuolo
Di Maria giacque; or chè non gite avanti?
Chè non sciogliete i voti? ecco la strada.
592A qual serbate uopo maggior la spada?
LXXV.
Con tali scherni il Saracino atroce,
Quasi con dura sferza, altrui percuote;
Ma più ch’altri Raimondo a quella voce
596S’accende, e l’onte sofferir non puote.
La virtù stimolata è più feroce,
E s’aguzza dell’ira all’aspra cote:
Sicchè tronca gl’indugj, e preme il dorso
600Del suo Aquilino, a cui diè ’l nome il corso.
LXXVI.
Sul Tago il destrier nacque, ove talora
L’avida madre del guerriero armento,
Quando l’alma stagion che n’innamora,
604Nel cor le instiga il natural talento,
Volta l’aperta bocca incontra l’ora,
Raccoglie i semi del fecondo vento:
E de’ tepidi fiati (o maraviglia!)
608Cupidamente ella concépe, e figlia.
LXXVII.
E ben questo Aquilin nato diresti
Di quale aura del Ciel più lieve spiri;
O se veloce sì, ch’orma non resti,
612Stendere il corso per l’arena il miri;
O se ’l vedi addoppiar leggieri e presti,
A destra ed a sinistra, angusti giri.
Sovra tal corridore il Conte assiso
616Move all’assalto, e volge al Cielo il viso.
LXXVIII.
Signor, tu che drizzasti incontra l’empio
Golía l’arme inesperte in Terebinto:
Sicch’ei ne fu, che d’Israel fea scempio,
620Al primo sasso d’un garzone estinto;
Tu fà ch’or giaccia (e fia pari l’esempio)
Questo fellon da me percosso, e vinto:
E debil vecchio or la superbia opprima,
624Come debil fanciul l’oppresse in prima.
LXXIX.
Così pregava il Conte: e le preghiere,
Mosse dalla speranza in Dio sicura,
S’alzar volando alle celesti spere,
628Come va foco al Ciel per sua natura.
Le accolse il Padre eterno, e fra le schiere
Dell’esercito suo tolse alla cura
Un che ’l difenda: e sano, e vincitore
632Dalle man di quell’empio il tragga fuore.
LXXX.
L’Angelo, che fu già custode eletto
Dall’alta provvidenza al buon Raimondo,
Insin dal primo dì che pargoletto
636Sen venne a farsi peregrin del mondo;
Or che di novo il Re del ciel gli ha detto
Che prenda in se della difesa il pondo,
Nell’alta rocca ascende, ove dell’oste
640Divina tutte son l’arme riposte.
LXXXI.
Quì l’asta si conserva, onde il serpente
Percosso giacque, e i gran fulminei strali:
E quegli ch’invisibili alla gente
644Portan l’orride pesti e gli altri mali:
E quì sospeso è in alto il gran tridente,
Primo terror de’ miseri mortali,
Quando egli avvien che i fondamenti scuota
648Dell’ampia terra, e le città percuota.
LXXXII.
Si vedea fiammeggiar fra gli altri arnesi
Scudo di lucidissimo diamante:
Grande che può coprir genti e paesi,
652Quanti ve n’ha fra il Caucaso, e l’Atlante:
E sogliono da questo esser difesi
Principi giusti, e città caste e sante.
Questo l’Angelo prende, e vien con esso
656Occultamente al suo Raimondo appresso.
LXXXIII.
Piene intanto le mura eran già tutte
Di varia turba; e ’l barbaro Tiranno
Manda Clorinda, e molte genti instrutte,
660Che, ferme a mezzo il colle, oltre non vanno.
Dall’altro lato in ordine ridutte
Alcune schiere di Cristiani stanno:
E largamente a’ due campioni il campo
664Voto riman fra l’uno e l’altro Campo.
LXXXIV.
Mirava Argante, e non vedea Tancredi,
Ma d’ignoto campion sembianze nuove.
Fecesi il Conte innanzi; e, quel che chiedi,
668È, disse a lui, per tua ventura altrove.
Non superbir però chè me quì vedi
Apparecchiato a riprovar tue prove:
Ch’io di lui posso sostener la vice,
672O venir come terzo a me quì lice.
LXXXV.
Ne sorride il superbo, e gli risponde:
Che fa dunque Tancredi, e dove stassi?
Minaccia il Ciel con l’arme, e poi s’asconde,
676Fidando sol ne’ suoi fugaci passi.
Ma fugga pur nel centro, o in mezzo l’onde,
Chè non fia loco ove sicuro il lassi.
Menti, replica l’altro, a dir ch’uom tale
680Fugga da te; ch’assai di te più vale.
LXXXVI.
Freme il Circasso irato, e dice: or prendi
Del campo tu, chè in vece sua t’accetto:
E tosto e’ si parrà come difendi
684L’alta follia del temerario detto.
Così mossero in giostra, e i colpi orrendi
Parimente drizzaro ambi all’elmetto:
E ’l buon Raimondo, ove mirò, scontrollo,
688Nè dar gli fece nell’arcion pur crollo.
LXXXVII.
Dall’altra parte il fero Argante corse
(Fallo insolito a lui) l’arringo invano:
Chè ’l difensor celeste il colpo torse
692Dal custodito cavalier Cristiano.
Le labbra, il crudo, per furor si morse,
E ruppe l’asta, bestemmiando, al piano.
Poi tragge il ferro, e va contra Raimondo
696Impetuoso al paragon secondo.
LXXXVIII.
E ’l possente corsiero urta per dritto,
Quasi monton ch’al cozzo il capo abbassa.
Schiva Raimondo l’urto, al lato dritto
700Piegando il corso, e ’l fere in fronte, e passa.
Torna di novo il cavalier d’Egitto:
Ma quegli pur di novo a destra il lassa;
E pur sull’elmo il coglie, e indarno sempre;
704Chè l’elmo adamantine avea le tempre.
LXXXIX.
Ma il feroce Pagan, che seco vuole
Più stretta zuffa, a lui s’avventa e serra.
L’altro, ch’al peso di sì vasta mole
708Teme d’andar col suo destriero a terra,
Quì cede, ed indi assale; e par che vole,
Intorniando con girevol guerra;
E i lievi imperj il rapido cavallo
712Segue del freno, e non pone orma in fallo.
XC.
Qual Capitan ch’oppugni eccelsa torre
Infra paludi posta o in alto monte,
Mille aditi ritenta, e tutte scorre
716L’arti e le vie; cotal s’aggira il Conte.
E poi che non può scaglia all’arme torre
Ch’armano il petto, e la superba fronte;
Fere i men forti arnesi, ed alla spada
720Cerca, tra ferro e ferro, aprir la strada.
XCI.
Ed in due parti o in tre forate, e fatte
L’arme nemiche ha già tepide e rosse:
Ed egli ancor le sue conserva intatte,
724Nè di cimier, nè d’un sol fregio scosse.
Argante indarno arrabbia, a voto batte,
E spande senza pro l’ire e le posse.
Non si stanca però; ma raddoppiando
728Va tagli e punte, e si rinforza errando.
XCII.
Alfin tra mille colpi il Saracino
Cala un fendente, e ’l Conte è così presso,
Che forse il velocissimo Aquilino
732Non sottraggeasi, e rimaneane oppresso;
Ma l’ajuto invisibile vicino
Non mancò a lui di quel superno messo,
Che stese il braccio, e tolse il ferro crudo
736Sovra il diamante del celeste scudo.
XCIII.
Frangesi il ferro allor (chè non resiste
Di fucina mortal tempra terrena
Ad armi incorruttibili ed immiste
740D’eterno fabbro) e cade in su l’arena.
Il Circasso, ch’andarne a terra ha viste
Minutissime parti, il crede appena.
Stupisce poi, scorta la mano inerme,
744Ch’arme il campion nemico abbia sì ferme.
XCIV.
E ben rotta la spada aver si crede
Su l’altro scudo, onde è colui difeso:
E ’l buon Raimondo ha la medesma fede,
748Chè non sa già chi sia dal Ciel disceso.
Ma, perocch’egli disarmata vede
La man nemica, si riman sospeso;
Chè stima ignobil palma, e vili spoglie
752Quelle ch’altrui, con tal vantaggio, uom toglie.
XCV.
Prendi, volea già dirgli, un’altra spada:
Quando novo pensier nacque nel core:
Ch’alto scorno è de’ suoi, dove egli cada,
756Chè di pubblica causa è difensore.
Così nè indegna a lui vittoria aggrada,
Nè in dubbio vuol porre il comune onore.
Mentre egli dubbio stassi, Argante lancia
760Il pomo e l’else alla nemica guancia.
XCVI.
E in quel tempo medesmo il destrier punge,
E per venire a lotta oltra si caccia.
La percossa lanciata all’elmo giunge,
764Sicchè ne pesta al Tolosan la faccia.
Ma però nulla sbigottisce, e lunge
Ratto si svia dalle robuste braccia;
Ed impiaga la man, ch’a dar di piglio
768Venia più fera che ferino artiglio.
XCVII.
Poscia gira da questa a quella parte,
E rigirasi a questa, indi da quella:
E sempre, e dove riede, e donde parte
772Fere il Pagan d’aspra percossa e fella.
Quanto avea di vigor, quanto avea d’arte,
Quanto può sdegno antico, ira novella,
A danno del Circasso or tutto aduna;
776E seco il Ciel congiura, e la Fortuna.
XCVIII.
Quei di fine arme, e di se stesso armato
Ai gran colpi resiste, e nulla pave:
E par senza governo, in mar turbato,
780Rotte vele ed antenne, eccelsa nave;
Che pur contesto avendo ogni suo lato
Tenacemente di robusta trave,
Sdruciti i fianchi al tempestoso flutto
784Non mostra ancor, nè si dispera in tutto.
XCIX.
Argante, il tuo periglio allor tal era,
Quando ajutarti Belzebù dispose.
Questi di cava nube ombra leggiera
788(Mirabil mostro!) in forma d’uom compose:
E la sembianza di Clorinda altera
Gli finse, e l’arme ricche e luminose:
Diegli il parlare, e, senza mente, il noto
792Suon della voce e ’l portamento e ’l moto.
C.
Il simulacro ad Oradino esperto
Sagittario famoso andonne, e disse:
O famoso Oradin, ch’a segno certo,
796Come a te piace, le quadrella affisse;
Ah gran danno saria, s’uom di tal merto,
Difensor di Giudea, così morisse:
E di sue spoglie il suo nemico adorno
800Sicuro ne facesse a’ suoi ritorno.
CI.
Quì fà prova dell’arte, e le saette
Tingi nel sangue del ladron Francese:
Ch’oltra il perpetuo onor, vuò che n’aspette
804Premio al gran fatto egual dal Re cortese.
Così parlò, nè quegli in dubbio stette,
Tosto che ’l suon delle promesse intese.
Dalla grave faretra un quadrel prende,
808E su l’arco l’adatta, e l’arco tende.
CII.
Sibila il teso nervo, e fuori spinto
Vola il pennuto stral per l’aria, e stride:
Ed a percuoter va dove del cinto
812Si congiungon le fibbie, e le divide;
Passa l’usbergo, e in sangue appena tinto
Quivi si ferma, e sol la pelle incide;
Chè ’l celeste guerrier soffrir non volse
816Ch’oltra passasse, e forza al colpo tolse.
CIII.
Dell’usbergo lo stral si tragge il Conte,
Ed ispicciarne fuori il sangue vede:
E con parlar pien di minacce ed onte
820Rimprovera al Pagan la rotta fede.
Il Capitan, che non torcea la fronte
Dall’amato Raimondo, allor s’avvede
Che violato è il patto: e perchè grave
824Stima la piaga, ne sospira e pave.
CIV.
E con la fronte le sue genti altere,
E con la lingua a vendicarlo desta:
Vedi tosto inchinar giù le visiere,
828Lentare i freni, e por le lancie in resta;
E quasi in un sol punto alcune schiere
Da quella parte muoversi, e da questa.
Sparisce il campo, e la minuta polve,
832Con densi globi, al ciel s’innalza e volve.
CV.
D’elmi e scudi percossi, e d’aste infrante
Ne’ primi scontri un gran romor s’aggira.
Là giacere un cavallo, e girne errante
836Un altro là senza rettor si mira:
Quì giace un guerrier morto, e quì spirante
Altri singhiozza e geme, altri sospira.
Fera è la pugna, e quanto più si mesce
840E stringe insieme, più s’inaspra e cresce.
CVI.
Salta Argante nel mezzo agile e sciolto,
E toglie ad un guerrier ferrata mazza:
E, rompendo lo stuol calcato e folto,
844La rota intorno, e si fa larga piazza.
E sol cerca Raimondo, e in lui sol volto
Ha il ferro, e l’ira impetuosa e pazza:
E quasi avido lupo, ei par che brame
848Nelle viscere sue pascer la fame.
CVII.
Ma duro ad impedir viengli il sentiero
E fero intoppo, acciocchè ’l corso ei tardi.
Si trova incontra Ormanno, e con Ruggiero
852Di Balnavilla, un Guido, e due Gherardi.
Non cessa, non s’allenta, anzi è più fero,
Quanto ristretto è più da que’ gagliardi;
Siccome, a forza, da rinchiuso loco
856Se n’esce e muove alte ruine il foco.
CVIII.
Uccide Ormanno, piaga Guido, atterra
Ruggiero infra gli estinti egro e languente.
Ma contra lui crescon le turbe, e ’l serra
860D’uomini e d’arme cerchio aspro e pungente.
Mentre, in virtù di lui, pari la guerra
Si mantenea fra l’una e l’altra gente;
Il buon Duce Buglion chiama il fratello,
864Ed a lui dice: or muovi il tuo drappello.
CIX.
E là dove battaglia è più mortale,
Vattene ad investir nel lato manco.
Quegli si mosse, e fu lo scontro tale
868Ond’egli urtò degli avversarj il fianco,
Che parve il popol d’Asia imbelle e frale;
Nè potè sostener l’impeto Franco
Che gli ordini disperde, e co’ destrieri
872L’insegne insieme abbatte, e i cavalieri.
CX.
Dall’impeto medesmo in fuga è volto
Il destro corno: e non v’è alcun che faccia,
Fuor che Argante, difesa; a freno sciolto
876Così il timor precipiti gli caccia.
Egli sol ferma il passo, e mostra il volto:
Nè chi con mani cento, e cento braccia
Cinquanta scudi insieme ed altrettante
880Spade movesse, or più faria d’Argante.
CXI.
Ei gli stocchi e le mazze, egli dell’aste
E de’ corsieri l’impeto sostenta:
E solo par che incontra tutti baste:
884Ed ora a questo, ed ora a quel s’avventa.
Peste ha le membra, e rotte l’arme e guaste,
E sudor versa e sangue, e par nol senta.
Ma così l’urta il popol denso e ’l preme,
888Ch’alfin lo svolge, e seco il porta insieme.
CXII.
Volge il tergo alla forza ed al furore
Di quel diluvio che ’l rapisce, e ’l tira.
Ma non già d’uom che fugga ha i passi, e ’l core;
892S’all’opre della mano il cor si mira.
Serbano ancora gli occhj il lor terrore,
E le minacce della solita ira:
E cerca ritener con ogni prova
896La fuggitiva turba, e nulla giova.
CXIII.
Non può far quel magnanimo ch’almeno
Sia lor fuga più tarda, o più raccolta:
Chè non ha la paura arte, nè freno,
900Nè pregar quì, nè comandar s’ascolta.
Il pio Buglion, che i suoi pensieri appieno
Vede Fortuna a favorir rivolta,
Segue della vittoria il lieto corso,
904E invia novello ai vincitor soccorso.
CXIV.
E se non che non era il dì che scritto
Dio negli eterni suoi decreti avea;
Quest’era forse il dì che ’l campo invitto,
908Delle sante fatiche al fin giungea.
Ma la schiera infernal che in quel conflitto
La tirannide sua cader vedea;
Sendole ciò permesso, in un momento
912L’aria in nube ristrinse, e mosse il vento.
CXV.
Dagli occhj de’ mortali un negro velo
Rapisce il giorno e ’l Sole: e par ch’avvampi
Negro, via più ch’orror d’inferno, il Cielo;
916Così fiammeggia infra baleni e lampi.
Fremono i tuoni, e pioggia accolta in gelo
Si versa, e i paschi abbatte, e inonda i campi:
Schianta i rami il gran turbo, e par che crolli
920Non pur le querce, ma le rocche, e i colli.
CXVI.
L’acqua in un tempo, il vento, e la tempesta
Negli occhj ai Franchi impetuosa fere:
E l’improvvisa violenza arresta,
924Con un terror quasi fatal, le schiere.
La minor parte d’esse accolta resta
(Che veder non le puote) alle bandiere.
Ma Clorinda, che quindi alquanto è lunge,
928Prende opportuno il tempo, e ’l destrier punge.
CXVII.
Ella gridava ai suoi: per noi combatte,
Compagni, il Cielo, e la giustizia aita.
Dall’ira sua le facce nostre intatte
932Sono, e non è la destra indi impedita:
E nella fronte solo irato ei batte
Della nemica gente impaurita,
E la scuote dell’arme, e della luce
936La priva: andianne pur, chè ’l Fato è duce.
CXVIII.
Così spinge le genti, e ricevendo
Sol nelle spalle l’impeto d’Inferno,
Urta i Francesi con assalto orrendo,
940E i vani colpi lor si prende a scherno.
Ed in quel tempo Argante anco, volgendo,
Fa de’ già vincitori aspro governo;
E quei, lasciando il campo a tutto corso,
944Volgono al ferro e alle procelle il dorso.
CXIX.
Percuotono le spalle ai fuggitivi
L’ire mortali, e le mortali spade,
E ’l sangue corre, e fa, commisto ai rivi
948Della gran pioggia, rosseggiar le strade.
Quì, tra ’l volgo de’ morti e de’ mal vivi,
E Pirro, e ’l buon Ridolfo estinto cade;
E toglie a questo il fier Circasso l’alma,
952E Clorinda di quello ha nobil palma.
CXX.
Così fuggiano i Franchi, e di lor caccia
Non rimaneano i Siri anco, o i Demoni.
Sol contra l’arme, e contra ogni minaccia
956Di gragnuole, di turbini, e di tuoni
Volgea Goffredo la sicura faccia,
Rampognando aspramente i suoi Baroni;
E fermo anzi la porta il gran cavallo,
960Le genti sparse raccogliea nel vallo.
CXXI.
E ben due volte il corridor sospinse
Contra il feroce Argante, e lui ripresse;
Ed altrettante il nudo ferro spinse
964Dove le turbe ostíli eran più spesse;
Alfin con gli altri insieme ei si ristrinse
Dentro ai ripari, e la vittoria cesse.
Tornano allora i Saracini: e stanchi
968Restan nel vallo, e sbigottiti i Franchi.
CXXII.
Nè quivi ancor dell’orride procelle
Ponno appieno schivar la forza, e l’ira;
Ma sono estinte or queste faci, or quelle,
972E per tutto entra l’acqua: il vento spira,
Squarcia le tele, e spezza i pali, e svelle
Le tende intere, e lunge indi le gira;
La pioggia ai gridi, ai venti, ai tuon s’accorda
976D’orribile armonia che ’l mondo assorda.