Hypnerotomachia Poliphili/VI

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[p. 58 modifica]INTRATO ALQUANTO POLIPHILO NELLA DESCRIPTA PORTA, CUM GRANDE APIACERE ANCORA VEDEVA EL MIRO ORNATO DIL SUO INGRESSO. ET VOLENDO POSCIA RETRO RITORNARE, VIDE EL MONSTRIFERO DRACONE, ET ELLO OLTRA EL CREDERE PERTERREFACTO PER LOCHI SUBTERRANEI PREHENDE FUGA. ALLA FINE EXPECTATISSIMO EXITO RETROVANDO PERVENE IN UNO LOCO AMENO.

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AGNA ET LAUDABILE COSA SENCIA fallo sarebbe il potere facilmente narrare, et ad puncto disertare la incredibile factura, et inopinabile componimento dilla vastissima structura, et la granditudine di tanto aedificamento, et dilla spectatissima porta in loco aedito et conspicuo commodamente situata. Diqué il dilecto dil contemplare excedeva la grande mia admiratione, perché me Iove arbitrava ad gli superi ardua non essere qualunque factura, sospicando quasi che da niuno artifice, et da humano sapere, non poterse componere tanta vastitate et tali amplissimi concepti exprimere, et tanta novitate excogitare, et cum tanta elegantia ornare, et disponere cum tanta singulare symmetria, sencia supplemento et correctione perfectamente definire, dilla praefata structura la sua praeclara et inexcogitabile ostentatione.

Per tale ragione non dubitarei unquantulo che si il naturale historico mirato questo o inteso havesse, che spreta l’Aegypto, et la industria et lo ingegnio degli artifici sui mirando. I quali in distincte et diverse officine distributi, da essi statuarii electa una parte scalpenda et consignata la proceritate. Et cum tanta Symmetria perfectamente poscia tutte cum il suo frusto consentivano et alla compositione di uno ingente colosso tanto definitamente, quanto si da uno solo artifice depolito fusse. Et la sagace solertia di Satyro architecto et de gli altri famosi. Et praecipuamente ad Simandro l’opera mirifica dil praestante Memnone di tre magne statue dil summo Iove in uno solido saxo exscalpte. Dille quale una sedendo li pedi overo la pianta septeni cubiti excedeva. Harebbe cum ragione parvifacto. Harebbe et simigliantemente ceduto quivi il stupendo miraculo dilla statua dilla magnanima Semirami nel monte Bagistano di stadii .x. et .vii. inscalpta. Et tacendo ancora dilla insolente magnitudine [p. 59 modifica]dille Memphitice Pyramide gli scriptori, più diffusamente harebbeno scripto di questa. Et neglecto gli famosi Theatri, et Amphitheatri, et Therme, et Aede, sacre et prophane, et Aquaeducti, et Colossi, il miraveglioso et di stupore pieno Apolline da Lucullo translato. Et Iove a Claudio Caesare dicato, et quello di Lysippo ad Tarento, et il miracolo di Care lindio ad Rhodo. Et di Xenodoro in Gallia, et in Roma. Et Serapi colosso de nove cubiti di Smaragdo incredibile facto. Et il famoso labyrintho di Aegypto. Et la solida statua di Hercule in Tyro, harebbe praetermesso, et accommodato lo eloquio suo iocundissimamente praedicando, questo summa cum laude scripto sopra tutti mirabilissimo, quantunque che inextimabile spectaculo si praestasse nel delubro dil magno Iove lo Obelisco di quadrageni cubiti, di quatro frusti compacto, in uno fronte quatro, et nell’altro dui cubiti.

Insaturabilmente dunque speculando mo una mo l’altra bellissima et molosa opera, tacitamente diceva. Si gli fragmenti dilla sancta antiquitate et rupture et ruinamento et quodammodo le Scobe ne ducono in stupenda admiratione, et ad tanto oblectamento di mirarle, quanto farebbe la sua integritate? Et cusì ancora cogitai fra me ragionevolmente, forsi negli penetrali è la veneranda Ara degli mysteriosi sacrificii, et sacre fiamme, overamente la statua dilla Divina Venere, overo il suo sanctissimo Aphrodisio, et dil suo arcigero et sagittante filiolo, et cum divota veneratione il dextro pede posito sopra il sacrato limine obvio mi occorse dinanti uno fugaculo et candido Sorice. Di subito sencia altro pensare curioso, cum scrutarii ochii nell’aperto laxamento et lucido adito alquanto intrato, ad me cose digne di aeterno respecto sa praesentorono. Quivi al dextro et sinistro lato, di expolitissimi marmori era il tabulato pariete. Dil quale nella mediana parte dil alamento era impacta una grande rotonditate, inclaustrata di circuitione d’una frondosa gioia cum egregia associatione di caelatura. Il quale (simile all’altro per opposito) era di petra nigerrima, al duro ferro contentibile di nitore speculabile. Tra gli quali (di essi disaveduto) facendo transito, fui dilla propria imagine da repentino timore invaso. Niente dimeno, da uno inopinato piacere fui retemperato. Perché in quelli se offeriva chiaramente el iudicio dille historie di musea operatura spectabilmente depincte. Et nelle ambe parte inferiore sotto gli illustri speculi erano longitrorso lapidei sessorii. Il pavimento netto et di polvere mundo, lavorato di novo et gratioso Ostraco. Et cusì ancora il colorato suffito era immune di textura dil improbo Araneo, perché ivi continuamente traheva spirando freschissima aura, gli tabulati parieti sotto del ligamento giungea. Il quale ligamento di subtilissimo concepto, dagli capituli dille drictissime ante se extendeva, fina all’extremitate del dicto adito. Longo quanto ad arbitrio [p. 60 modifica]perspectivo aestimai duodeci passi. Sopra la quale perpolita ligatura il suffito principiava inarcuare, conforme il fornicato flexo ad quello dilla porta. Di tale excogitato foecundo dilectabile offerivase cum tale praestante caelatura, piena concinnamente di aquatici monstriculi nell’aqua simulata et negli moderati plemmyruli semihomini et foemine, cum spirate code pisciculatie. Sopra quella appresso il dorso acconciamente sedeano, alcune di esse nude amplexabonde gli monstri cum mutuo innexo. Tali Tibicinarii altri cum phantastici instrumenti. Alcuni tracti nelle extranee Bige sedenti. Dagli perpeti Delphini, dil frigido fiore di nenufaro incoronati, tali vestitose di le proprie foliacie. Alcuni cum multiplici vasi di fructi copiosi, et cum stipate copie. Altri cum fasciculi di achori, et di fiori di barba Silvana, mutuamente se percotevano. Tali erano cincti di trivuli. L’altra parte sopra gli hippopotami aequitanti luctavano. Et altre diverse belve et invise cum protectione Chilonea. Et qui dava opera ad la lascivia, et qui a iochi varii et feste, cum vivaci conati et movimenti optimamente scalpati et expressi. Completamente dal uno et l’altro capo ornavano.

Nel voltato dil fornice, vidi diligentissima opera vermiculata di exquisita thessellatura vitricularia, cum dorata superficie, et di qualunque gratissimo coloramento. Et primo se appraesentava uno phrygio di latitudine di dui pedi. Il quale ambiendo ornava le extremitate incluse di tutto il spatio voltato dagli illigamenti recitati in su, et per longo dil fastigio di fornicato cum coniugio sociale, di vivace colorature existente. Né altramente cha si alhora fusseron compositi, cum naturale foliatura di smaragdino virore, cum gli reversi di colore Puniceo, cum fiori Cianei, et Phoenicei, et adulterati, cum gratiosi involuti et innodatura. Nel contento spatio di questi, mirai tale antiqua historia depicta.

Europa adulescentula natante in Creta sopra il praestigiato bove. Et ad gli sui filioli lo edicto di Re Agenore, a Cadmo, Fenice, et Cilice. Che la vitiata sorore insequenti di ritrovare. Et non la ritrovando, al surgente fonte il squammoso Dracone strenuamente occiseron. Et dapò consultati, da Apolline determinorono cum gli comiti di aedificare la citade, ove la mugiente Iuvenca se affermasse. Diqué quella patria fin hogi dì aeternalmente serva el nome dil Boato mugire. Aedificava dunque Cadmo Athene. L’altro fratello Fenicia. Il tertio Cilicia. Optimamente disposita, et cum tirato ordine expedita, di fictione, di depicti di naturali colori come exigeva, gli acti, gli lochi, et dilla historia la opportuna expressione, era questa museaca pictura.

Dalla parte all’incontro, per questo medesimo modo mirai la petulca Pasiphae, succensa del infame amore, et mentiente nella machina lignea asconsa [p. 61 modifica]asconsa et obturata, et il robusto Tauro sopra il non cognosciuto coito lasciviante. Et poscia il Minotauro di monstrosa effigie, nel laborioso et devio labyrintho incluso, et incarcerato. Postremamente il sagace Daedalo fugibondo dal carceroso claustro ingeniosamente ad sé et ad Icaro le Ale fabricante. Il quale infelice non imitante il paterno iussu et vestigio, nel amplo pelago praecipite cadendo, alle aque Icaree moriente il suo nome dede, poscia il patre incolume reservatose, nel templo di Apolline la remigale machina di penne compaginata suspendendo per religioso voto promesso.

Acadette che io cum gli labri aperti intensissimamente remirava (le instabile et praestissime palpebre non moventise) cum l’animo rapto solamente attendando alle bellissime, et cusì bene disposite, et perfectamente ordinate, et artificiosamente depicte, et elegantemente expresse historie, relicte da qualunque ruptura inviolate, tanto tenace fue il rapace glutino che gli vitrei thessellati, suppressi paginatamente, et perpetuo cohaerenti constavano, fina a questa hora illaesi, et niuno dilla sua locatura remoto. Imperoché il praestante artifice ad questa excellente factura omni absoluta diligentia havea collecta. Et quivi pode enanti pede transportantime pertinacemente examinando cum quanta directione di arte picturaria observato havesse, di collocare cum pensiculata distributione le promptissime figure sopra gli iusti piani. Et come le linee dille fabriche allo obiecto trahevano. Et come dagli ochii alcuni lochi quasi se perdevano. Et le cose imperfecte reducte a poco a poco al perfecto, et cusì per contra, il suo iudicio ad gli ochii concedendo. Cum gli exquisiti parergi. Aque, fonti, monti, colli, boscheti, animali. Dipravato il coloramento cum la distantia, et cum il lume opposito, et cum gli concinni reflexi nelle plicature dille vestimente et nelle altre operature, non cum poca aemulatione dilla solerte natura. Intanto mirabondo et absorto che in me quasi non era praesente.

Per questo modo all’ultimo dil adito era pervenuto, ove terminavano le gratiose historie, perché oltra poscia era densissimo obscuro che non audeva intrare. Ma volvendome diciò al retrogresso. Ecco sencia pausamine sentiva per le abrupte ruine come uno fragore di ossa et di crepitante frasche. Io steti, repente interrupto et exciso il mio tanto dolce solacio. Et da poscia ancora più palesemente sentiva quasi uno trahere quale di grande bove morto, per il loco verucoso et per le aggerate ruine inaequale, sempre cum più propinquo et consono strepito inverso la porta venendo, et uditi uno grandissimo sibilare di excessivo serpe. Me obstupivi. Et interdicta la voce solevati gli capigli, non per fugire me assicurava, et in quello tenebrifico scuro improperare.

O me infoelice et di fortuna tristo. Ecco di subito io vedo apertamente al lime dilla porta giungere, non quale ad Androdo il claudicante leone nel antro. Ma uno spaventevole et horrendo Dracone, le trisulche et tremule [p. 62 modifica] lingue vibrante cum le pectinate maxille di pontuti et serrati denti stridente, cum la corpulentia di squammeo corio, labente sopra lo ostracato pavimento scorrendo, cum le ale verberante il ruvido dorso, cum la longa coda lapsi anguinei, grandi nodi strictamente inglobava instabili. Omè moribondo da spaventare il Belligero et loricato Marte, et di far trepidare il terribile et alexicaco Hercule, cum tutta la sua torosa et molorchia Clava. Et di rivocare Theseo dalla tentata impresa, et dal temerario incepto. Et da perterrire il gigante Typhone più che gli superni Dei non fureno perterriti da lui. Et da perdere qualunque hirsuto, obstinato, et impenetrabile core, quantunque mai si fusse. Heu me da ritrahere il coelifero Atlante dal suo officio, non che homo adolescente et micropsycho, et tra lochi incogniti solo inerme et sospectoso di periculo ritrovantise. Et avidutomi che egli era fumivomo di tetro fiato, et exitiale come dritamente suspicava, diffiso di qualunque vasura, et di campare il mortale periculo, sencia quasi spirito, nel pauculo animo, ciascuna divina potentia tremendo et perterrefacto divotamente invocai.

Et sencia mora converse le spalle nella obscuritate intrando, alla presta fuga me commisi, referendo solicitamente per fugire, gli già incitati pedi. Cum summa pernicitate inscio nelle interiore parte dil tenebricoso loco acupedio penetrando, per diverse et oblique rivolutione et ambage di meati perfugendo. [p. 63 modifica]Ove fermamente tenia essere nella inextricabile fabrica dil sagace Daedalo pervenuto, overo di Porsena continente tanti inexplicabili occorsi et ricorsi cum frequente porte ad falire lo exito, et in quegli medemi errori ritornare, overo nella cubiculosa spelunca dil terrifico Cyclope, et nella tetra Caverna dil furace Caco. In tanto che quantunque gli ochii fusseron alquanto nella obscuritudine assuefacti niente di manco per niuno modo me misero valeva alcuna cosa cernere. Ma cum li brachii inanti protensi alla facia, per non arietare currendo in alcuno pilone andava, quelle degli mei tenebrati ochii lo officio facendo. Quale Cochlea del suo guberno gerula nelle sue mollicule cornule pretendando et resiliendo, et praetentando la via et ad gli obstaculi contrahendole. Et io il simigliante palpitando per non offendere in quegli maximi substentamenti della montagna et Pyramide. Et verso la porta volvendomi per mirare si il crudele et formidoloso dracone retro me venisse, la luce totalmente era expirata.

Me ritrovava dunque nelle caece viscere et devii meati dille umbrose caverne, et in maiore terrore et mortale erumne che Mercurio facendose Ibi, et Apolline in Threicia, et Diana in Chlomone avicula, et Pana in bina formatione, et in maiore di quelle di Oedipo, di Cyro, di Croeso, et di Perseo, et in maiore spavento et exitio, del ursato Thrasileo latrone, et in maiore angustie di Psyche et in più laboriosi periculi dil asinato Lucio. Et quando egli sentiva il consilio degli latroni dil suo interito, sencia alcuna consiliabile optione veramente ignaro et desperato. In quel puncto sopra tutte praenominate paure terrori et spaventi facto pavidissimo et anxio, accedeva ancora il volato frequente dille lucifuge noctue intorno al capo a geminare la timorosa angustia. Et tale fiata per il suo Cicire, sencia mora me credeva di essere tra gli puntuti denti dil venenoso Dracone, et tra le stringente fauce quale serra dentate firmamente detento, sencia differire succedeva sopra ad questo ad redoplicare, et il mio periculoso et grave terrore, et il mio cordolio verificare, in mente me venia il viduto lupo, si per aventura gli fusse stato pernicioso prodigio, et dil mio misero successo nuncio. In qua et in là errabondo discorrendo, quale frugilega formica che lo odore dil suo trito perde errante, cum le pervigile urechie di persentire si ad me doloroso se fusse advenuto lo horrendo monstro, cum il periculo di lerneo et valido veneno et la horribile framea et foedissimo devoramento. Et però omni cosa che mi se offeriva in quello primo accessorio quello proprio ad essere io sospectava.

Et quivi ritrovantime nudo et privo di omni suffugio in tanta mortale angustia et dissoluto dolore, benché naturalmente la odibile morte non sia per modo alcuno grata, ma pur in questa hora gratiosa la istimava. La [p. 64 modifica]quale io poteva volerla, ma non valeva quella non volere. Et la constantia di aspectarla, per la incerta, infoelice, et trepida vita, suadevame. Omè che tale dissociatione di spirito me faceva di quella renitente, la sua qualitate respuere, et iustamente reluctare il suo malvagio advento. Perché fortemente incendevami cogitando.Heumè che sencia alcuno effecto dil mio immenso amore, tanto dolcemente infiammatosi, defructo dovesse perire, quantunque si al praesente caso repentina praesentata si fusse, unquantulo la harei aestimata. Ma incontinente ritornando al mio fixo et habituato obiecto, illachrymabondo per il perdimento di due tanto appetibile cose. Polia cioè et la pretiosa vita, quella sedulo invocante, cum suspirabile et singultive voce, intonante per quel denso aire, incluso sotto ingenti fornici, et nel latebroso loco contogato da me ad me dicendo. Si io moro quivi cusì misero et dolente, et in tutto sconsolato, chi merito successore sarae di tale et tanta appretiata gemma? Chi possiderà tanto inextimabile et talentoso thesoro? Quale serenato coelo raquistarà sì chiaro lume? O miserrimo Poliphilo ove perditissimo vai tu? Ove drici la tentata fuga? Ove speri più tu di revidere alcuno optato bene? Ecco abruptamente disiecti et interrotti tutti gli tui gratiosi piaceri fabricati da dolce amore nella impigliata mente. Ecco già in momento truncati et annihilati tutti gli tui amorosi et sì alti cogitamenti. Heu me quale iniqua sorte, et maligna stella te ha cusì perniciosamente in queste erumnose obscuritate conducto? Et copiosi et mortali languori crudelmente exposito et deiecto? Et alla saevissima voracitate et subitosa ingluvie di questo terrifico Dracone interituro destinato? Che heu me sia integro nelle foede et spurcissime et stercorarie viscere a putrefarmi traiectato? Et d’indi poscia al non cogitando exito fuori egesto? O plorabile et insueto interito, o exito dilla mia vita miserando, ove sono quegli ochi tanto sterili, sucti et exhausti, et privi di humore, che in grossissime lachryme stillanti non tutti se liquasseron? Ma ecco moribondo me che io a spalle il sento. Chi vide unque in sé rivoltata più atroce et difforme saevitia di fortuna? Ecco la infoelice et proterva morte, et la suprema hora et maledicto puncto alla praesentia, in questa tenebrosa opacitate, et che il corpo et la carne mia humana, sia sacietate di questa terribile bestia? Che feritate? Che rabie? Che miseria più monstrosa poteno gli mortali patire? che la dolce et amicabile luce ad gli viventi essere tolta, et la terra agli mortui denegata? O quanto ancora più larvosa calamitate et enorme miseria sì dolorosamente et tanto importuna optata abandonando la pergratissima mia et integerrima Polia, Vale, Vale dunque praestante lume di virtute et di omni vera et reale bellecia Vale. Per questa tale et cusì facta afflictione et perturbamento exagerato, oltra omni cogitato strugentime amaramente exasperava l’alma mia. Sopra tutto intentamente [p. 65 modifica] dava urgente opera di potere evadere il pertimescendo periculo et campare la contaminata breve et exigua vita, o per questa violentia sencia rimedio alcuno dolorosamente ispasmando morire, et senza hogi mai diferrire, che io non sapea confusissimo che me fare vagabondo, perfugo, et discolo per incerti lochi et devii diverticuli. Et debilitate hogi mai le gambe torpente et conquassata omni virtute corporale languescente, exanimo, et dil tutto cerito et quasi larvato.

Ad questo tamen lachrymoso passo conducto, supplicemente invocati (extremo confugio) gli superni et omnipotenti Dei, et il mio bono Geniale cum l’animo insonte, di me forsa in questo miserabile caso per sua perenne pietate fortunati cura haventi. Ecco che io incominciai a discoprire uno paulatino di lume. Al quale heu me cum quanta alacritate velocemente tendendo, i’ vidi una suspesa lampada aeternalmente dinanti ad una divota Ara ardente. La quale quanto potui in momento alhora discorrere era alta pedi cinque et per il duplo lata, cum tre aurei simulachri assidenti. Quivi frustrato dilla conditione dil lume, non sencia religioso horrore io fui incusso ad queste venerande tenebre, nelle quale poco si videa quantunque ardesse la illuminante lampade, perché dil aire grosso et malo il lume è nemico. Et sempre cum intente urechie né mai vacuo dil domestico spavento, ma alquanto appariano le nigrate statue, et d’antorno se offerivano gli vasti et incerti laxamenti et paurose Itione subterranei, overo submontanei substentati de qui et de lì et in lochi infiniti distributi molti maximi pili tetragoni et exagoni et in altri lochi octogone fulture apena cernendole per il debile lume, aptamente subiecte a pproportione di sofrire la excessiva vastitate dilla premente Pyramide superna. Quivi uno pauculo di mora orante, sencia inducie tendeva sopra omni cosa alla ignota fuga. Diqué cusì exanimo non più praesto oltra la sanctissima Ara correndo havea transacto, che ancora mi apparve uno modiculo di desiderato lume che subluceva quasi per uno subtilissimo spiraculo de infundibulo vedentise. O cum quanta festa et cum quanta laetitia dello exhilarante core il mirava. Et ad quello sencia altro pensiculare Hilaramente festinando. Per adventura cum maiore pernicitate di Canistio et di Philonide. Né più praesto cum tanta effrenata laetitia et concupiscentia io il vidi. Che il repudio alhora dilla ingrata et molesta vita, gratissima rivocai, successivamente reserenando la mia perturbata mente et fluctuante animo, et alquanto refecto et quasi reassicuratome, et il mio exinanito et di amore evacuato core alquanto revocato, da capo di ripululante amore vegetatose, et tutto completo, omni perduto et exulato pensiero alla pristina opera reaptava. Et hora più ad la mia amabile Polia infixo, me cum innovati intricamenti, più compressamente [p. 66 modifica]ligantime, suadevami cum ferma et adulatoria speranza quello per l’avenire amorosamente et adoria conseguire, che immaturo morendo arbitrava dolorosamente perdere. O quanto extremamente me cruciava. Non recusava però ad qualunque subulliente et novitio accessorio d’amore. Che di novo nello perpesso et occupato core suppurando se ricentasse. Et pertanto da quello, omni obstaculo dissuasibile excusso, et summoto qualunque obice, peculiarmente gli donava speciosa apertione et lato et patente ingresso.

Dunque per l’alma luce essendo alquanto consolato, et reassumpti in me gli smariti et renunciati spiriti, et restaurata pianamente la prosternata forcia, il mio sospeso et invio camino et fuga recto reniso exhortava. Perché ad quella più appropinquandome multiplicarse la cerniva. Alla quale finalmente comitante il coeleste volere, et Polia dilectissima nel amoroso pecto vigorosamente dominante, perveni solicito. Ove gli Dii demeritamente benedicendo, et la obsequiosa fortuna et la mia auricoma Polia, trovai largo exito, et d’indi festinamente uscendo, et al fugire incitatamente unquantulo non prestolante. Et gli brachii già intenti per vitare la offensione degli crassissimi piloni al praesente opportunissime remige al fugire se percommodavano. Et d’indi enixo Sospite, perveni in uno gratissimo Sito et regione. Nel quale territo ancora per lo horribile monstro dubitai dil optato sedere et affermarme, tanto nella mente quello havendo impresso, che continuamente et sencia intervallo ad spalle quello pensava sentire. Et per tale cagione, tanto terrore non potea io sì praesto d’indi cusì facilmente dissolverlo né dislocare. Diqué iustamente ancora me insequente fusse dubitando arbitrava. Et etiam per multiplice suadele d’intrare et procedere era agitato. Primo per la amoenitate dil bellissimo loco, poscia il disconcio animo stimulante di praestamente fugire. Et praecipuamente cupido sempre mai di videre et trovare cose unque per aventura tra gli mortali consuete. Aequalmente tali respecti me provocorono omni modo d’intrare, et quanto più potesse ultra procedere et islungarme da lo exito. Ove potess’io in loco tutto quietamente tranquillarme et reserenare la mente mia, et di ponere in oblivione il transacto pavore, nella retinente memoria non ingrato soccorrendo nell’adito dilla porta la apparitione dil candido Sorice. Et questo ad inanimarme assai exhortabile suscitabulo accedeva, perché sempre grato fue negli auspicii et propitio et bono Omine.

Dunque suadevami opportunamente di dare opera di riservarme alla benignitate dilla fortuna, che alcuna fiata mi fia munifica et capillosa ministra delle cose prospere et secunde. Et per questo coacto et compulso movendo uno pauculo più il pigritato camino, et per le fesse et [p. 67 modifica]debilitate gambe frenato me aviava. Ma pur ancora trepidato decentemente di non pervenire in tale loco. Ove fortuito l’intrare, et il mio properato advento in patria incognita, non si sarebbe stato licito, ma nephario auso et confidentia, molto più che l’ingresso dilla magnifica porta. Et cusì cum il pecto assiduamente pulsatile et cum animo perpesso tra me diceva. Che cosa hogimai suademe retro ritornare? Non è quivi più facile il fugire et libera evasione? Et molto meglio io penso la dubitata vita in questa luce sub divo exponere, cha nelle caece tenebrositate crudelmente perire? Né però quasi ad quella apertura et exito io non saperei remeare. Et in momento dal profundo dil tristo core trahendo gli gemitosi sospiri, nella tenace reminiscentia replicava quanto piacere et dilecto in puncto haveano gli sensi mei perdito, imperoché quella operatura era piena di meraveglia, et di stupore. Ricogitando per quale modo i’ fui malamente privo. Imaginantime degli aerei Leunculi dil tempio dil sapientissimo iudaeo, gli quali per spaventare inducevano gli homini in oblivione.

Adunque per tale simigliancia che il dracone ad me facto havessi quasi dubitai. Che tante elegante et meravegliose facture, et stupendi cogitati non indicantise humane, di relato dignissime, io havendole diligentemente mirate, hora le devesse concedere dall’asucta memoria levemente fugire. Et che io per tale evento non le sapesse digestamente narrare. Diceva, per certo questo non è. Né non mi sento passione lethargica. Ma io servabile tuto pure ne lo intellecto et memorativa recentissimo tengo collocato, et depicto indelebile. Et realmente viva et non ficta quella immane bellua era, et tanto spaventevola, raramente tale viduta dagli mortali Heu me quale non vide Regulo. Et di lei reminiscente, gli demissi capigli di novo salivano, et io il grado pernice accelerava. Poscia in momento in me ritornando diceva. Quivi sencia dubio (sì come accortamente arbitro per la benignitate dil praesente sito) habitare non debino si non gente humana. Ma più praesto forsi divi spiriti et heroi sono quivi tutelarii, et diversorio di Nymphe, et degli antichi Dei. Pertanto l’appetito suasivo agevolemente il frenato grado provocando exhortava al incepto viagio. Là onde io come captivato dagli perseveranti stimoli, cum feroce animo proposi di sequire dovunque la ludibonda fortuna cadesse, ancora tabescente.

Considerando adunque la bella et amoena patria et gli feraci agri et fertili campi et il dilecto di quelli coniecturando summamente laudai tale invitatorio, et ad spalle reiecta qualunque trepidante refrenatione moesto pavore alquanto intrai. Ma prima la divina luce invocata, et gli prosperi Genii, che ad questo mio ingresso guidando se praestasseron praesenti, et alla mia erratica Proselytia Comiti, et dil suo sancto ducato largitori.