Hypnerotomachia Poliphili/VII
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POLIPHILO NARRA LA BENIGNITATE DILLA INVENTA PATRIA, OVE ISSO ERA INTRATO, NELLA QUALE VAGANDO TROVÒ UNA EXQUISITA FONTANA, ET MOLTO CONSPICUA. ET COME VIDE VENIRE CINQUE LEGIADRE DAMIGELLE VERSO AD ESSO. ET QUELLE DIL SUO ADVENTO IVI ASSAI MERAVEGLIANTISE. PIETOSAMENTE RESICURATOLO AD SUI SOLATII PARE CUM ELLE LO INVITANO.
ORA USCITO DIL HORRENDO BARAthro, et di quelle interne tenebre et quasi horcico loco (quantunque che gli fusse il sancto et sacrato Aphrodisio) ad la desideratissima luce et amicabile aire, et divenuto in questo gratissimo loco, ad mirare retrorso me voltai donde era stato il mio egresso. Et ove la vita mia, vita giamai non istimava, in quel ponto molesta la vidi et periclitante. Io reguardai una non rata montagnia cum moderato acclivo tutta di verdissime et lente fronde arborosa, di glandifere Roburi, di Fagi, di Querci, Iligni, Cerri, Esculi, Suberi, et le due Ilice, Smilace la una, overo Aquifolia, overo Acilon. Daposcia verso la planitie, era densata di cornuli, di coryli, di olenti, et florigeri ligustri, et di odorante fiore albiscente, Naxi bicolori nel aspecto di Aquilo rubenti, et di meridionale albente, Carpini et Fraxini, et di simiglianti in tale aspecto cum germinanti arbusculi. Invilupati di verdigiante et scandente Periclymeno, et di volubili lupuli, rendeano umbra fresca et opaca. Sotto ad gli quali era il Cyclamino ad Lucina nocevole, et il laciniato Polypodio, et la Trientale Scolopendria, overo Asplenon. Et ambi gli Melampodii dal pastore denominati et la trifolia tora, overo triangularis, et il Senniculo et di altri assai umbriphile herbe et Silvane arbore alcune sencia et tale cum floratura, loco niente dimeno abrupto et confragoso et di arbori occupatamente circuncluso.La apertione dunque per la quale fora uscivi di quelle abditissime latebre alquanto era nella montagna alta tutta arbustata. Et quanto che io poteva coniecturare. Fu al incontro dill’altra antedicta fabricata, comprehendeva et similmente questa essere stata mirifica operatura, postica et quella antica. Ma l’invida et aemula antiquitate et di accesso arcta et per gli murali arbusculi maxime di edera et d’altre frasche l’havea silveculata. Che apena illo cerniva essere exito, overo hiato alcuno. Loco solamente di uscire, ma non di regresso indicante suprema difficultate. Alhora ad me tanto facillimo , perché io el mirava tutto circumcirca foltamente infrondato et lavernato. Per la quale conditione, non si saperia quasi ad essa remeare. Tra le fauce dilla vallecula, cum superextense rupe, fusco assiduamente per gli concepti vapori. Onde quella luce atra, maiore mi se praestoe, che a Delo il divino parto. Hora da questa frondificata et obturata porta, per alquanta proclinatione dilapso partitomi, perveni ad uno denso dumeto di Castane al pedi dil monte, statione suspicando de Pana o Silvano, cum humecti pascui et cum grata umbra, per sotto la quale cum piacere transeunte, trovai uno marmoreo et vetustissimo ponte di uno assai grande, et alto arco. Sopra dil quale dagli singuli lateri degli appodii era percommodamente constructi sedili. Gli quali quantunque ad la mia lassitudine che nel mio uscire opportuni se offerirono, niente di manco alhora al mio excitato progresso grati niente gli aestimai.
Nel medio degli quali appodii alquanto superemineva a llibella dil supremo dil cuneo dil subiecto arco uno Porphyritico quadrato, cum uno egregio cimasio, di polito liniamento, uno da uno lato, et uno pariforme dal altro ma di lapide Ophites. Nel dextro alla mia via, vidi nobilissimi hieraglyphi aegyptici di tale expresso. Una antiquaria galea cum uno capo di cane cristata. Uno nudo capo di bove cum dui rami arborei infasciati alle corna di minute fronde, et una vetusta lucerna. Gli quali hieraglyphi exclusi gli rami, che io non sapea si d’abiete, o pino, o larice, o iunipero, o di simiglianti si fusseron, cusì io li interpretai.
PATIENTIA EST ORNAMENTUM CUSTODIA ET PROTECTIO VITAE.
Da l’altra parte tale elegante scalptura mirai. Uno circulo. Una ancora sopra la stangula dilla quale se rovolvea uno delphino. Et questi optimamenti cusì io li interpretai. ΑΕΙ ΣΠΕΥΔΕ ΒΡΑΔΕΩΣ. Semper festina tarde. Sotto dil quale anticho solido et egregio ponte scaturiva una larga vena di chiarissima aqua viva. La quale dividentese faceva dui correnti fluenticuli, uno alla dextra, et alla sinistra l’altro. Discorrevano per gli fresi, et derosi alvei, et per arrose et incile ripe susurranti frigidissimi, coperte le saxee et umbrate ripe d’arbori. Ne le quale ripe apparevano discoperte le varicante radice, et in quelle pendeva il Trichomanes, et Adianto, et la Cymbalaria, et comate d’altri olusculi silvatici amanti, le amnice ripe. Il quale arboroso et fresco nemore era d’intuito piacevole et di spatiato appetibile, et di fronde iocundo pieno di silvie avicule et montane. Oltra il ponte alquanto ancora se extendeva verso una grata planitie per tutto risonante dil suave garrito. Quivi saltavano gli instabili Sciuri et gli somnolenti Gliri. Et di altri innoxii animaletti incolato. Per questo recensito modo dunque se dimonstrava questa silvosa contrata circunclusa dall’arborifera montagna assai ad gli ochii spectanda et la planitie di varietate di herbe per tutto contecta. Et gli chiarissimi fluvioli per gli pedi dille degliscente montagnie in convallio susurrabondi defluevano. Ornati dil florido et amaro Oleandro, et di Vinci, et di Farfugio, et di Lisimachia, ombrati di alti Populi nigri et bianchi, et il fluviale Alno et Orni. Et per gli monti, vedeva l’alto et unistirpio Abiete, et gli lachrymosi Larigni, et Sapini et di altre nobile specie di simigliante frondatura. Per la quale cosa considerando il loco tanto amoeno et commodissima statione et grato reducto di pastori, loco invitabondo certatamente a cantare buccolice camoene, stava non mediocremente stupefacto, et dil animo suspeso, vedando sì benigna patria ma di gente deserta et inculta. Et dirigendo gli ochii poscia alla ornata planitie solicitamente il praedicto loco praeteriendo, mirai una fabrica marmorea, tra gli arbori apparendo, et sopra le tenelle cime, il suo fastigio. Diqué tutto alacre effecto arbitrando già havere habitatione et finalmente qualche diffugio invento. Ad quella sencia mora festivo perveni. Trovai uno octogonio aedificio cum una mirabile et egregia fontana. La quale ancora non vanamente se offeritte dolce invitamento alla mia tanto retenta, et non fin qui satisfacta et extincta sete. Questa fabrica di culmo octogono fastigiata, et di plumbo contecto, in uno fronte havea uno saxo tanto più alto quanto era uno semi dil suo quadrato di candido et luculeo marmoro. Di latitudine essere iudicai pedi sei. Di questa nobile petra diligentemente fue exacte due semi columnelle striate cum le base suppeditante una porrecta Sima cum gula et adiecta denticulatura et cordicule, cum gli capitelli subiecti ad una Trabetta, Zophoro et Coronice. Sopra la quale ancora era adiuncto uno quarto dil quadrato, condemnato per il frontespicio. Omni liniamento nudo di ornato dil proprio et unico saxo, se non che nel angulare aureola, overo piano dil frontespicio, vidi una strophiola. Due columbine in uno vasculo bevendo continente. Poscia tutto il spatio incluso tra le columnule, gulatura et trabe, intervacuo et excavato retinia una elegante Nympha interscalpta. Et sotto la Sima era l’altro quarto. Il quale nel pedamento undulava cum Thori, Torque, et Scotie, et Plintho.
La quale bellissima Nympha dormendo giacea commodamente sopra uno explicato panno. Et sotto il capo suo bellamente intomentato et complicato in pulvinario grumo era. Et una parte poscia del dicto aptissimamente fue conducta ad coprire, quello che conveniente debi stare caelato. Cubendo et sopra il fianco dextro, ritracto il subiecto brachio cum la soluta mano sotto la guancia il capo ociosamente appodiava. Et l’altro brachio libero et sencia officio distendevasi sopra il lumbo sinistro derivando aperta al medio dilla polposa coxa. Per le papule (quale di virguncule) dille mammille dilla quale, scaturiva uno filo di aqua freschissima dalla dextera. Et dalla sinistra saliva fervida. Il lapso d’ambe due cadeva in uno vaso porphyritico, cum dui recipienti inseme coniugati in uno solido. Dalla Nympha pedi sei separati et distanti, dinanti a questo fonte sopra uno lapideo silicato compositamente collocato. Tra uno et l’altro degli recipienti, era uno alveolo intersito nel quale le aque se adversavano, incisi gli lymbi sui nel mediano di uno et dil altro recipiente, ove faceano le aque il suo obvio. Le quale aque commixte poscia in uno aquario sulco, overo rivoletto lapse emanavano. Diqué l’una per l’altra poscia temperate omni virentia facevano germinare, la fervente tanto alto saliendo, che essa ne l’altra, non impediva nocua, a chi le labra poneva alla mamilla, dextera, a ssuchiare, et bevere né al transito.
Hora questa spectatissima statua l’artifice tanto definitamente la expresse, che veramente dubitarei tale Praxitele Venere havesse scalpto. La quale Nichomede re degli Gnidii comparandola (come vola, la fama) tutto lo havere dil suo populo expose. Et quanto venustamente bellissima lui la expresse, tanto che gli homini in sacrilega concupiscentia di quella exarsi, il simulachro masturbando stuprorono. Ma quanto valeva aestimare dritamente arbitrai tale imagine mai fusse cusì perfecta di celte, overo di scalpello simulata, che quasi ragionevolmente io suspicavi, in questo loco de viva essere lapidita et cusì petrificata.
La quale alquanto teniva aperti al respirare gli labri accommodati, ove quasi giù vedevasi nel iugulo excavato et perterebrato. Dalla testa poscia le solute trece sopra il panno soppresso, inundante, la forma rugata, overo complicata dil inglomato panno, gli subtilissimi capegli aemulavano. Le coxe erano ancora debitamente pulpidule cum gli carnosi genui moderatamente alquanto ad sé ritracti, monstrando gli sui stricti petioli incitanti di ponere la mano et pertrectarli et strengerli. Et il residuo dil formosissimo corpo, provocava chi fortuito simigliante ella ritrovato se fusse.
Uno frondoso di non decidue foglie di Memerylo poscia era retro alla testa degli molli et rotondi Unedi copioso, et di aviculetti, che appariano garrire, et inducere causa di dolce somno. Ad gli pedi stava uno Satyro in lascivia pruriente et tutto commoto, cum gli pedi caprei stante. Cum il buccamento ad naso adhaerito, capreato et Simo, cum la barba nel mento distincta in due irriciature di Caprini Spirili, et cusì ad gli hirti fianchi et per questo pari modo alla testa, cum pilate auricule, et di fronde incoronato, cum effigie tra caprea, et humana adulterata. Excogitai che al suo acutissimo ingegnio il lithoglypho habilissimamente et al libito havesse l’opificio dilla natura praesente nella Idea.
Il dicto Satyro havea l’arboro Arbuto per gli rami cum la sinistra mano violente rapto, et al suo valore sopra la soporata Nympha flectendolo, indicava di farli gratiosa umbra. Et cum l’altro brachio traheva lo extremo di una cortinetta, che era negli rami al tronco proximi innodata. Intra l’arboro comaro, et il Satyro, assidevano dui Satyruli infanti. Uno cum uno vaso nelle mano, et l’altro cum le sue invilupate di dui circumvoluti serpi.
Non potria sufficiente exprimere, quanto delicato, quanto elegante,
et perfecto era questo figmento, accedeva et alla venustate il lustro dil-
la petra quale striso eburo. Mirava summamente ancora l’arte dil
optimo et pervio tripanato degli rami et foliatura cedrina, et dille avicule cum gli pediculi sui di tutta exactura et expres
so, et per il simigliante dil Satyro. Sotto di questa ta
le et mirabile scalptura, tra le gulature,
et undule, nella piana fascia, vidi in-
scalpto, questo mysterioso di
cto di egregio Chara-
ctere Atthico.
PANTA
TOKA
ΔI
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ΠΑΝΤΩΝ ΤΟΚΑΔΙ
Per la quale cosa io non saperei definire, si la diuturna et tanta acre sete pridiana tolerata ad bere trahendo me provocasse, overo il bellissimo suscitabulo dello instrumento. La frigiditate dil quale, inditio mi dede che la petra mentiva. Circuncirca dunque di questo placido loco, et per gli loquaci rivuli fiorivano il Vaticinio, Lilii convallii, et la florente Lysimachia, et il odoroso Calamo, et la Cedovaria, Apio, et Hydrolapato, et di assai altre appretiate herbe aquicole et nobili fiori, et il canaliculo poscia
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dil fonte emisario intrava et irriguo in una fractea, overo clausura non diforme di altecia di compositi rosarii, et ordinatamente impexi, di multiplice maniere ornati di olente rose. Irrorava fundentise in uno praedio, di papiracie Mixe, overo muse, cum grandissime foglie, lacerate dalle flante aure, cum il stipato grumo pendente dil dulcissimo fructo. Et di altri gratissimi fructeti referto, era ancora la Cynara grata a Venere, et la verdigiante Colocassia cum le scutacee foglie, et di infiniti Sativi. Et remirando alla planicie vidi in omni parte verdissimo, di varietate diseminata di fiori ornatamente depicto, di gialli dil ranunculo, et di pede ranino overo buphthalmo, et di pavonaci dil Satyrione, dilla minora Centaurea, et dil coronario Melliloto, et degli minuti dilla Eufragia, et degli aurei dilla Scandice, et degli fioriti Naponculi et degli azurini dilla Sclareola, et di Gladioli segietali, et di Frage cum fiori et fructi, et la minuta Achillea cum candidi muscarioli et la Seratula, et Pancuculo, et d’infiniti altri bellissimi floruli. Diqué di mirifica amoenitate perdito consolabondo me sentiva. Et indi et quindi cum mensurata et digesta distantia et intervallo, cum gratiosi spatii compositamente et ad libella erano gli verdiferi Naranci et limonarii et pomarii adami, cum gli rami aequati uno passo da terra sospesi, folti de fronde, quale il colore Hyalino appare di turbinata forma, cioè di fastigiata longecia et nel imo rotundati cum ubertate degli sui fiori et fructi, cum suavissimo odore spiranti. Dal quale non parcamente il serato core sentiva summamente ricentare (forsi invaso dal pestilente fetore et tabifico fiato anguineo).
Per la quale cosa molto istava cogitabondo sospeso et pieno di stupore in quale loco al praesente me ritrovasse, tanto ad gli mei sensi delectabile, praecipuamente havendo la miravegliosa fontana accuratamente speculato, la varietate di herbe, il coloramento degli fiori, il loco di arbori consito. La nobile et accommodissima dispositione dil sito, il suave canto et irrequieto degli ucielli, il temperamento et dil aire purgatissimo. Tutto per questo contento me reputato harei, si incola alcuno io quivi ritrovato havessi. Et alquanto mi angeva la petulantia di procedere, iucundo sempre più offerentisi ad me il benigno loco, avegna che totalmente non se fossi ancora disglutinato dilla rapace memoria né eradicato il terrore praeterito. Et per questa sola cagione ancipite me affermai, non sapendo, ove et da quale parte ire et aviarme.
Stante dunque in tale suspensione d’animo, tutto commoto pensando dil terrifico dracone, et essere entrato ove non sapea subito pululando nella memoria gli hieraglyphi dil lato sinistro dil ponte, dubitai de improperare in qualche adverso accidente. Et non essere vanamente posto ad gli transeunti tale monumento, digno di caelatura aurea. SEMPER FESTINA TARDE. Ecco che io retrorso sento repente uno grande fragore et strepito alla simigliancia dil quassamento dille ossee ale dil dracone, et a ritrorso, omè sentivi uno sonare di Tuba. Di subito misero me ispasmato me gyrai, et vedo da una parte molte arbore di Silique Aegyptie, cum gli maturati fructi praelungi dependuli quassabonde, che per il vento se havevano l’uno cum l’altro alquanto combatuti. Diciò praestamente in me ritornato, et per cusì facto caso occorso in riso, me mossi.
Per la quale cosa alhora religiosamente invocai gli benigni Dii Iugantino, Collatina Dea, et Vallonia, che peragrando per gli sui sacrati loci, propitiati mi se praestasseron. Conciosia cosa che quasi dubitai di militare exercito per il sonito tubale, ma pensitando arbitrai di pastorale tube corticie, onde più praesto me assicurai che diffidarme altramente. Ma da poscia di questo non istete longa mora, che io odo cantando venire una comitiva (alla voce di tenere et di florente aetate) di damigelle legiadre (come arbitrava) et belle, scherciando et per le floribonde herbe, et per le gratiose et fresche ombre solaciantise, libere di qualunque ritardante sospecto. Et per gli venusti fiori cum magno applauso peragrando. La incredibile suavitate dilla modulata voce, dalle temperate et rorifere aure convecte per il loco dilectoso diffundevase, et cum il dulcissimo sono di lyra consorte riportate.
Per la quale novitate explorabondo inclinatome per sotto gli bassi rami, et verso ad me vidi quelle cum gresso gestuoso. Cum la puellare testa di spectatissime vitte di fili d’oro congeste, involuta et di sopra di florente Myrtho, et di multiplici fiori instrophiate et redimite. Et per il niveo fronte pampinulavano le flave et tremule Antie. Et da poscia per le bianchissime spalle decore deflue le prolixe trece, cum nymphale politione et arte composite elegante. Vestite di carpantico habito di seta ornatissimo, et di vario coloramento et textura. Erano tre tuniche, la una più breve di l’altra et distincte. La infima conchiliata, di sopra sequiva la sericea di verdissimo colore intramata d’oro. La suprema bombicina tenuissima, croceata et crispula, succincte di torque aureo sotto al termine dille rotonde mammillule. Le distese brace erano investite di l’ultima tunica, et copiosamente ricoperte dilla bombicina, concedendo ad summa gratia il subiecto colore. Et propinquo alle tumidule mano cum cordicelle di fina seta acconciamente invinculate, cum ansulette d’oro, voluptico artificio. Et alcune di esse, cum duple solee, cum multiplice illigamento di filatura d’oro et di seta purpurante haveano gli pediculi sui egregiamente illaqueati. Calciate alcune poscia sopra le extente calige di cocineo et verdigiante panno, et tale sopra il nudo di mollicolo et gratioso corio luculeo, et altre di camussato di bellissimi coloramenti tincto, senza accusare gli detta.
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Cum oroli deorati, gli calciamenti sopra le nivee suffragine cum sinuata apertione, revincti strictamente confibulati cum corigie traiectate per le fibule d’oro, et altramente cum ansulette di torquei aurei cum exquisita innodatura commendati. Et ove era il confine dilla circunstantia dille fimbrie, di inexcogitabile cordellatura ornate da le moderate aure impulse le rotunde et elephantine gambe spesse fiate alquanto manifestare.
Elle dunque di me animadvertendo alhora, il Nympheo grado affermando steteron, vacabonde dal suo dolce canto, repentinamente invase da questa novitate di me in quello loco adventicio. Et mutuamente maravegliantise et curiose tacitamente explorantime, insolente gli apparve et inusitato. In quella celebre patria homo alieno et extrario cusì a caso essere pervenuto. Per la quale cagione per uno poco di spatio steteron tra esse una all’altra cum secreto murmurillo, et molte fiate a rimirarme scrutarie inclinantise. Quale si phantasma stato io fusse, omè io me sentiva in quel puncto tutte le viscere quassare. Quale foglie di Accori vibrante ad gli impetuosi venti. Imperoché apena rassicurato essendo dil crebro dicto spavento, che immediate et meritamente arbitrando in sé havere, oltra la conditione humana, altro non conoscendo, dilla divina visione dubitai che alla cinerea, Semele apparve, dalla simulata forma di Beroe Epidaura decepta. Heu me da capo incominciai di trepidare, più timido divenuto, che li pavidi hymnuli la fulva Leena di fame rugiente vedendo. Tra me contendente se ad terra supplice congenularme dovesse, overo regyrare et retro ritrarme (il perché certamente ad me se offerivano clemente fanciulle, et altro che humanitate havere et dil celeste) overo constante et immutabile cusì perseverare. Postremamente consultatome di volere fare periculo et arisicarme diciò che succedere potesse, tuttavia suadentimi, che per niuna coniectura, in queste trovare si potrebbe alcuna inhumanitate né saevitia. Et maxime che lo innocente seco porta la protectione. Excitai dunque il tepidato animo ancora refrenato da torpente verecundia, conoscendome indignamente in questo forsa sancto loco, et solatioso convento di delicatissime et dive Nymphe adventato. Ancora non cum sincero et tranquillato animo mi suadeva quivi ingresso et pervenuto, temerariamente forsa negli prohibiti lochi et vetata patria, et cum improbo auso. Rivolvendo adunque cusì facti cogitamenti da me ad me. Ecco una di queste più confisa et audace ardelia disse. Chi sei tu he? Alhora tuto conturbato tra la familiare paura et subito pudore, non sapea che dire né che respondere, et tra che la voce inseme cum il spirito interdicti, semivivo, et quale statua io rimansi. Ma quelle probe puelle animadvertendo, che in me era reale et humana effigie, ma territo, et formidoloso tutte se approximorono dicendo. O giovane qui qui sei, già mai quivi, gli nostri aspecti et praesentie non te doverebono formidare, dunque unquantulo non dubitare. Imperoché quivi non si usa saevitia alcuna, né dispiacere troverai per alcuno modo, dunque chi sei tu? Parla non temere.
Ad questa petitione havendo la voce alquanto reassumpta, da quegli illici et nymphei aspecti excitata, et dal dolce parlare rivocata, respondendo li dissi. Dive Nymphe. Io sum el più disgratiato et infoelice amante che trovare al mundo unque se potesse. Amo, et quella che tanto ardente amo et cordialmente appetisco, io ignoro dove ella et me si sia. Et per il maiore et mortale periculo che mai sapesse exprimere, quivi conducto et pervenuto sum. Et già a gli ochii provocate le pietose lachrime, et in terra curvato et ad li virginali pedi provolutome, pietate per il summo Idio supplico suspirante io vociferai. De subito nel suo molliculo core da miseritudine et da pietosa dolceza tute exagitate, et quasi il simigliante a lachrymule commote, et per gli brachii da terra officiose et certante trahendome, me sublevorono, et cum dolcissimo et blandiculo eloquio lepidule mi disseron.
Pensamo misello anci cusì è che per la via cusì facta per la quale mischino sei tu quivi introgresso rari poteno campare. Ma tra tutte le cose summamente lauda la divina potentia et la benignitate dilla tua stella. Imperoché uno extremo periculo horamai sei evaso. Ma al praesente più non è da dubitare alcuna cosa perturbativa, né molesta insultante, che per questa via forsa beato trovarte facilmente potresti, seda et retranquilla dunque et l’animo tuo conforta. Imperoché quivi, come manifesto tu vedi è loco di piacere et di dilecto, et non di dolore né de alcuno terriculamento. Perché la aetate uniforme, il sito sicuro invariabile, il tempo non curriculo, la iocunda commoditate, il gratioso et sotiale convicto,
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illectivamente a nui el suade, et perpetuamente ociare nel concede. Et questo ancora debi tu intendere, che si una di nui è piacevola, l’altra se praesta et più solatiosa Et il nostro delectevole et partiario coniugio intensivamente cum perpetuo glutino adhaerisse. Et una adauge. L’altra ad omni extrema dolcecia et commodissimamente induce solaciare, et subiunse. Quivi finalmente è Agro salubre, di termini latissimo, di herbe vario, et di piante in vista amoeno, di universe fruge ferace. Munito di celebri colli. Referto di tutti innoxii animali, et di qualunque voluptate conspicuo, et confertissimo. De omni fructo copioso, cum universale exuberantia, et di purissimi fonti ornato. Un’altra disse. Tene rato il tutto et fermo hospite caro. Questo foelice teritorio è più fertile dil foecundo monte Tauro, nel Aquilonare aspecto. Di cui la fama pervagante autuma. Il racemo dilla vite di cubiti dui. Et uno ficho di provento modii .70. dil suo fructo producere. Addendo poscia la tercia festevola, dixe.
Questa sacra plagia excede la ubertate dilla Hyperborea insula nel Oceano Indico iacente, né cusì sono gli Lusitani. Né Talge in Caspio monte. Di continuo la quarta cum più fervore affirmando diceva. Vana è la abundantia aegyptica in comparatione dilla nostra, quantunque chiamasi Oreo publico dil mundo. Novissimamente una nel aspecto ad omni praecipitio illectiva cum elegante pronunciatione adiunse. In questa alma patria non si trovarebbe occupamento di effusissimi paludi lacessenti cum il molesto aire. Né di abrutissimi monti inclusiva, ma di ornatissime colline. Et dalla parte exclusiva munitamente circumvallata di asperi et invii praecipitii. Et cusì per questo modo eliminata omni tristitia, quivi è omni cosa che pole conferire dilecto, et confugio degli dei, cum beata sicuritate di animo. Ultra di tutte queste dicte cose, assecle siamo de una inclyta et insigne regina, munificentissima et di effusissima largitate. Chiamata Eleuterilyda, di mira clementia pientissima. La quale quivi cum summo et valido sapere governa, et cum amplissimo imperio rege, et fausta et foelice cum cumulata gloria impera. Et grato gli sarae grandemente, quando che alla sua veneranda praesentia et maiestale conspecto te conduceremo. Et si a caso l’altre nostre di lei conserve et aulice il presentiscono, quivi catervate correreberon, ad riguardare quello che di raro quivi si vide, dunque da te fuga et excludi qualunque affligente tristitia et componi l’animo tuo festivamente consolabondo cum nui, et dà opera ad solacio et a piacere, depulsa omni trepidatione.