I Mille/Capitolo XLV
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CAPITOLO XLV.
Or superbi, or umili, |
Il fiero e grandissimo Astigiano tali epiteti infliggeva alla sua casta, quando sdegnoso ed irato ai patrii numi. E veramente le eccezioni sono poche, e sventuratamente sempre vediamo servir di cariatidi al dispotismo, sotto qualunque forma, i titolati antichi e moderni.
Giorgio Pallavicino Trivulzio è un’onorevole eccezione però, alla regola; e quando l’Italia, scevra da certe miserie, che la tribolano anche al dì d’oggi, farà l’enumerazione de’ suoi martiri più benemeriti, certo non conterà fra gli ultimi il nome del nostro Giorgio.
Rinchiuso nello Spielberg dall’Austria per quattordici anni, col solo delitto d’aver amato la libertà del suo paese, egli s’è mantenuto incrollabile ne’ suoi principii di libertà ed unità nazionale.
A Pallavicino e a Manin, più che ad altri, si deve certamente l’avvicinamento della Monarchia ai Repubblicani d’Italia. Fatto importante per le sorti del nostro paese, e che comunque si dica, ha prodotto, se non la libertà, certo la quasi unificazione nazionale, primo bisogno della penisola.
Fatto importante, coadiuvato veramente da felici combinazioni, ma che non tolgono all’Italia, anche con meschinissimi reggitori, di scuotere l’antica sua cervice sovrana, e far intendere a certi suoi insolenti detrattori, che questa non è poi la terra dei morti, e della gente che non si batte.
Dovendo conciliare principii diametralmente opposti, essi dovettero certamente accarezzare una parte e l’altra, e ne avvenne, com’è naturale, sembrar dessi troppo repubblicani ai monarchici, e viceversa ai repubblicani.
Ripeto: quando l’Italia sarà guarita da certe miserie, essa ricorderà gli eminenti servigi di quei suoi grandi.
Pallavicino era prodittatore a Napoli ne’ tempi da noi descritti. Egli è pieno di capacità politica ed amministrativa, ma come succede generalmente alla gente onesta, era poco diffidente. — Conosceva l’esistenza della camorra, vi aveva mandato i segugi della polizia locale a vigilarla, ma era lontano d’aver delle informazioni esatte sulla terribile associazione, essendovi affiliati molti dei poliziotti; — e quindi egli stesso era la prima vittima designata al pugnale dei vendicatori, come si chiamavano allora i sostenitori dell’altare e del trono.
L’assassinio del Gambardella, virtuoso popolano, e d’alcuni altri plebei di parte nostra, era stato un saggio, o piuttosto una prova di ferri, che doveva continuare dal basso all’alto, e finire poi coll’eccidio generale nel giorno del giudizio, come lo chiamavano i preti, cioè nel giorno della vaticinata vittoria.
Spinte le cose dalle impazienze monarchiche, insofferenti di stare a bocca asciutta davanti alla splendida preda, quale è la ricca Partenope, i sabaudi si misero a vociferare annessione, e mi obbligarono quindi, come già accennai, a lasciare l’esercito sulla sponda sinistra del Volturno in presenza d’un esercito superiore, ed alla vigilia d’una battaglia, per recarmi a Palermo, ove il popolo, messo su da’ cagnotti cavouriani, voleva anch’esso annessione, ed in conseguenza cessazione della brillante campagna da parte nostra, per lasciar fare a chi tocca.
Come miglior partito, e più breve, io mi decisi d’imbarcarmi per Palermo, ove non mi fu difficile persuadere quel bravo popolo, non esser giunto il tempo di parlare d’annessione, ma bensì di proseguir l’opera di unificazione nazionale, anche sino alla città eterna, se possibile. I figli del Vespro m’intesero subito, ed in pochi giorni io potei essere di ritorno all’esercito.
Comunque, la mia breve assenza avea stimolato i reazionari della Metropoli Napoletana, e senza l’attività del Pallavicino e del generale Türr, che in quei giorni facea da capo di polizia, non so come sarebbero andate le cose.
Era nella seconda quindicina di settembre; la brezza del mare avea soffiato tutto il giorno, e rinfrescata l’atmosfera.
La popolazione della grande città inondava, per prendere il fresco verso sera, tutti i dintorni della stessa, ed una circolazione straordinaria di carrozze e pedoni stipava una delle vie secondarie, che dal centro di Napoli guidano verso la stazione di Caserta. In quella via piuttosto angusta, e già quasi per uscirne ed abbordare la stazione della via ferrata a destra andando trovasi uno di quei bugigatti di meschinissima apparenza, ma in sostanza molto importante, come vedremo procedendo. Lunga e stretta la stanza terrena, avea piuttosto l’aria d’un corridoio che d’un appartamento d’albergo. Due lunghissime panche e strettissime tavole, erano il solo adornamento del sudicio locale, e tali suppellettili lasciavano un passaggio strettissimo nel mezzo. A destra e a sinistra entrando, per compir l’apparato di casa, trovavansi due cucine ambulanti, ove due untissime donne stavano eternamente occupate a friggere, ciò che provava esser numerosi gli avventori.
Circa all’antichità poi dell’osteria della Bella Giovanna, si raccontava con orgoglio dagli odierni tenitori (discendenti dagli antichi), che la vigilia della famosa rivoluzione napoletana contro la dominazione spagnuola, il prode Masaniello colla sua schiera di coraggiosi pescatori Partenopei, avea mangiato le triglie fritte, e che fra tutti avean vuotato due grandi fusti di lacrimacristi, e due barili di Falerno. — Pare in quel tempo facessero miglior vita dei moderni, quei pescatori, giacchè oggi, essi pescano bensì le triglie, ma mangiano generalmente gattuzzi.
Nel fondo della stanza-osteria, sedeva dietro un banco guernito d’ogni ben di Dio, alla distanza di circa tre metri dall’entrata, la dea titolare del tempio, giacchè questo dal di lei nome e da quello d’una sua nonna, nomavasi col modesto titolo di Osteria della Bella Giovanna, e dagli avanzi rispettati da trentacinque anni compiti, potevasi congetturare esser stata la Giovanna a vent’anni un boccone plebeo sì, ma sempre un bel boccone e da preti. Speriamo tale denominazione sarà presto posta tra le anticaglie dal buon senso de’ miei concittadini: non più bocconi da prete. Essa però avea cominciato ad impinguare troppo, sia per la vita sedentaria, sia forse per soddisfazioni e contentezze d’una esistenza fuori dei trambusti e delle avventure.
Giovanna era gentile con tutti, e dovea esserlo facendo l’ostessa; comunque, la sua riputazione di sobrietà e di pudicizia era incontestata. Il 7 settembre però, colla cacciata dei Borboni, avea cacciato pure la pace dall’anima della nostra ostessa, e l’entrata dei rompicolli avea marcato un’era nuova nei sentimenti sin ora invariabili della bella Giovanna.
Un furbaccione, ma proprio dei bulli della compagnia o battaglione dei Carabinieri Genovesi, col pretesto di andare a mangiar le trippe dalla bella Giovanna, era pervenuto a destare un Vesuvio d’affetti in quel cuore fino allora inespugnato.
Per fortuna della Giovanna, Bajaicò non era un depravato, e corrispondeva santamente alla bella innamorata.
Nel fondo del fondaco che non abbiam finito di descrivere, innalzavasi il tempio di Giovanna, e potevasi chiamare realmente così, poichè era il solo punto nel locale che meritasse di fermar l’occhio, sia per l’avvenenza dell’ostessa sempre pulita e risplendente d’abiti a colori simpatici, sia per la profusione di frittelle, pesci fritti e tanti altri manicaretti, che se non erano teoricamente e francesemente preparati, potevano, senza rischio di essere rifiutati, presentarsi a qualunque palato; massime poi dacchè la nostra Giovanna era innamorata cotta di Bajaicò, il suo abbigliamento era più accurato, il banco più adorno e più pulito ancora, ed una vera profusione di fiori completava il gastronomico altaretto della nostra buona e bella popolana. — Ed a me, plebeo sino alla midolla delle ossa, solletica cotale semplice ma fervido innamoramento, ove l’amore presiede generalmente più sincero che nelle regioni principesche.
Due lampade, una a destra e l’altra a sinistra del tempietto, quasi eternamente accese, per l’oscurità del locale anche in pieno meriggio, indicavano l’entrata d’altri due corridoi, conducenti nell’interno; e quell’interno era veramente la parte più importante dello stabilimento. — Congiungevansi i due corridoi laterali in un sotterraneo spaziosissimo, capace di contenere migliaia di persone, e tale sotterraneo era adorno di tavole, sedie e panche, e lateralmente di una ragguardevole quantità di fusti, pieni di vino, acquavita e bibite d’ogni specie.
Due robusti giovani, fratelli di Giovanna, avean la vigilanza dell’interno, e distribuivano, aiutati da garzoni, ogni cosa richiesta dagli avventori.