I drammi della schiavitù/16. Odio ed amore

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16. Odio ed amore

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15. Un'ecatombe umana 17. Sotto l'equatore


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XVI.


Odio ed amore.


La Guadiana era colata a picco a circa seicento miglia dalle coste della Guinea inferiore ed a circa quattrocento dalla Costa d’Oro o degli Schiavi, distanza assai breve per una nave che poteva attraversarla in qualche settimana, ma immensa per una zattera, che è la più lenta e la meno manovrabile di tutti i galleggianti.

È bensì vero che le zattere sono infinitamente più sicure delle baleniere, delle scialuppe, e delle lance, che una ondata può rovesciare, poichè resistono perfettamente anche con mare grosso, e anche sfasciandosi possono sempre offrire ai naufraghi dei sostegni, ma per la loro forma, per la loro pesantezza, per la loro velatura che è sempre imperfetta e per la loro direzione che è sempre incerta, procedono a stento ed è molto se riescono a percorrere quaranta o cinquanta miglia al giorno, con vento favorevolissimo.

La situazione adunque dei naufraghi della Guadiana non era invidiabile, specialmente trovandosi in quell’oceano battuto dai venti alisei, che spingono le navi verso occidente e dalla corrente equatoriale, che risale verso il golfo del Messico, anzichè avvicinarsi alle coste d’Africa. Potevano inoltre sopraggiungere le grandi calme equatoriali ed immobilizzare la zattera per delle intere settimane, sotto un sole fiammeggiante, sotto una vera pioggia di fuoco.

Dopo breve consiglio, l’equipaggio decise adunque di tentare di raggiungere le coste del continente che erano le più vicine o quelle degli Schiavi se il vento soffiava dal sud o quelle di Loango, se soffiava dall’ovest e di mettere a razione tutti, per non consumare troppo presto i viveri, che non dovevano abbondare.

Fu fatto l’appello e si constatò che mancavano nove uomini compreso mastro Hurtado. Erano quindi in ventisei, calcolando Niombo e Seghira.

Si fece tosto l’inventario dei viveri. Un gran numero di casse e di barili erano stati gettati sulla zattera dagli uomini incaricati dell’approvvigionamento, ma nella confusione avevano imbarcato gran numero di oggetti inutili. [p. 122 modifica]

Vi erano casse piene di olio di elais destinate all’alimentazione dei negri, ma incompatibili con gli stomachi dei bianchi che non riescono ad abituarsi a quel cibo sostanzioso, sì, ma eccessivamente nauseante: sette di biscotti del peso complessivo di quattrocento chilogrammi, una di conserve alimentari, tre barili di farina, due di porco salato, quattro di acqua dolce della capacità complessiva di trecentosessanta litri e uno di tafià. Tutte le altre casse contenevano vesti, munizioni, armi e oggetti di scambio, cose quasi affatto inutili in pieno Oceano.

Tutto sommato, riducendo le razioni ai minimi termini, ciò che potevasi fare trovandosi i naufraghi sotto l’equatore, vi era di che cibarsi, a tutto rigore, per due settimane, ma la provvista d’acqua sarebbe durato tanto?... Ecco ciò che si chiedevano con ispavento i marinai, i quali non ignoravano che sotto quei torridi calori la sete è costante e che di rado si spegne.

Kardec, che comprendeva forse meglio di tutti la gravità della situazione, fece accumulare i viveri attorno all’albero e stendere sopra le casse e i barili una tenda per ripararli dal sole e dalle onde, minacciando di far appiccare all’estremità del pennone, colui che avesse osato di toccarli senza suo ordine.

Mentre si faceva ciò, il dottore si sforzava a far tornare in sè la giovane schiava, che Niombo aveva adagiato sotto una piccola tenda rizzata in un angolo della zattera. Non possedendo nulla, giacchè la piccola farmacia era andata a picco assieme alla nave ed avendo perfino perduto, nell’orribile confusione, i suoi istrumenti, strappò al negro la penna d’aquila che portava sul capo, distintivo di re, e accesala l’accostò alle nari della svenuta.

Quell’odore sgradevole, ottenne un successo insperato. Seghira si scosse bruscamente, facendo con le mani un gesto come per allontanare la penna che le toccava quasi il viso, poi emise un profondo sospiro e finalmente aprì i suoi grandi occhi, fissandoli sul dottore.

– Dove sono io? – chiese, con voce rotta.

Poi con una mossa da leonessa s’alzò a sedere, girando all’intorno uno sguardo smarrito. Allora la memoria le ritornò con la rapidità del lampo: tutto si rammentò.

– L’hanno ucciso adunque? – chiese ella con voce cupa.

– Sì, Seghira, ma sii tranquilla – rispose Esteban.

– Sono calma, dottore: guardate, non ho una sola lagrima negli occhi!... Eppure per quell’uomo avrei compiuto qualsiasi sacrificio.

La giovane schiava stette zitta alcuni istanti comprimendosi con [p. 123 modifica] ambe le mani il seno come se volesse soffocare i battiti del cuore, poi riprese, mentre i suoi grandi occhi s’illuminavano d’una tetra fiamma:

– Me l’hanno ucciso i maledetti, ma Seghira non perdona no!... Vi scoprirà... dovesse ritornare in Africa... dovesse ridiventare schiava... dovesse affrontare ancora le orribili tribolazioni della catena vivente... sotto l’implacabile sferza dei pombeiros!... Ah! Me l’hanno ucciso, i maledetti!

Poi volgendosi verso il dottore, gli chiese bruscamente:

– Conoscete gli assassini?... Sì, dovete conoscerli.

– Forse, Seghira.

– Voglio sapere tutto, tutto!... – riprese ella con esaltazione.

– Quando sarai più tranquilla. Una parola, un’imprudenza, potrebbe perderti.

– Sono tranquilla, dottore, guardate; nè lagrime, nè sussulti. Appartengo ad una razza, che sa frenare i propri impulsi e che sa attendere, con pazienza del leone, che spia la preda nelle grandi foreste, il momento opportuno per la vendetta.

– Una domanda, prima.

– Parlate, dottore.

– Perchè hai lasciato solo Alvaez?

– Io!... Fu lui che mi fece trasportare sulla zattera da Niombo. Io non volevo abbandonarlo, sentivo per istinto che una sventura terribile lo minacciava, ma a nulla valsero le mie preghiere. Il pericolo incalzava, già l’acqua era comparsa nel quadro e Niombo, obbedendo al comando del padrone, mi afferrò e mi trasportò sulla zattera, balzando dal sabordo di poppa.

– Credi Niombo capace di commettere un assassinio?

– Lui!... Oh! Mai, dottore, e poi a quale scopo?

– Chissà, la gelosia, un impeto d’odio contro Alvaez per averlo strappato dalle coste dell’Africa.

– No, Niombo non odiava Alvaez e quantunque egli forse m’ami nel profondo del suo cuore, è troppo leale, troppo fiero per assassinare un uomo impotente a difendersi e poi il tempo gli sarebbe mancato, perchè quando rientrò nella cabina voi vi eravate già.

– È vero – disse Esteban. – Dunque non rimane che l’altro, ma a quale scopo? Che possa averlo prima ferito lo comprendo, aspirando a impadronirsi della nave, ma dopo, quando ormai la Guadiana era perduta? Che abbia voluto vendicarsi del licenziamento?... Che quell’uomo nutrisse un odio così feroce?... Eppure quando vide in mia mano quel brano di stoffa, è diventato [p. 124 modifica] orribilmente pallido e nei suoi sguardi ho sorpreso un lampo di terrore.

– Di chi intendete parlare, dottore? – chiese Seghira, afferrandolo per le braccia.

– Di Kardec – mormorò Esteban.

– Lui!... Anche voi dunque credete che sia stato lui?

– Sì, ma tu, su cosa basi i tuoi sospetti, Seghira?

– Ascoltatemi, dottore – diss’ella con viva agitazione. – Vi rammentate che appena cessato il combattimento coll’incrociatore, Kardec discese nella cabina a visitare il padrone?

– Sì, me lo ricordo.

– Vi rammentate di averci lasciati soli, mentre il capitano era addormentato?

– Sì Seghira. Ero risalito in coperta assieme a Hurtado, per visitare i feriti.

– Ebbene, quando io alzai lo sguardo su quell’uomo, vidi che mi fissava con due occhi di fuoco.

– Ah! – esclamò Esteban, trasalendo. – Sarebbe possibile che ti...

– Aspettate, dottore – continuò Seghira con maggior animazione. – Egli, dopo alcuni istanti si avvicinò ed a bruciapelo mi chiese se volevo diventare sua, promettendomi di farmi libera e ricca. Rifiutai con indignazione ed egli mi rispose con uno di quegli sguardi che mai si dimenticano. Da quel momento quell’uomo deve aver meditata la morte del capitano, sapendo che ero ormai amata.

– Ora comprendo! – esclamò il dottore, battendosi la fronte. – Dimmi, Seghira, ti ha più parlato dopo?

– No, poichè non discese più nella cabina, ma tutte le volte che io salivo sul ponte io incontravo quello sguardo di fuoco, fisso su di me.

– Sì – disse il dottore come parlando a se stesso – ora comprendo tutto. Kardec aveva cercato di assassinare Alvaez per impadronirsi della nave ed andare a pirateggiare nell’Oceano Indo-Malese, poi lo ha assassinato per rubargli la donna. Quell’uomo è capace di tutto!

– Dunque voi credete che sia stato lui? – chiese Seghira, con accento d’odio.

– Sì, Seghira, è stato lui.

– Lo ucciderò!...

– Guardati dal farlo, Seghira.

– Sì, ripeto che vendicherò il padrone.

– Per farti poi uccidere dall’equipaggio? [p. 125 modifica]

– Che mi cale ormai la vita? E poi, l’equipaggio quando saprà che l’ho ucciso per vendicare il loro capitano, non oserà alzare una mano sopra di me.

Il dottore crollò il capo.

– Kardec è oggi possente, Seghira, poichè è lui che qui comanda e so che ha molti partigiani. E poi, dove sono le prove per accusarlo?

– Lo costringerò a confessare il suo delitto.

– In qual modo?

– Lo saprete più tardi.

– Voglio saperlo, Seghira; tu puoi commettere qualche imprudenza.

– Sarò astuta come un serpente, ma tremenda come una leonessa ferita.

– Infine cosa vuoi fare? Dinanzi a me tu puoi parlare; io sono l’amico di Alvaez e anch’io voglio punire l’assassino.

– Voglio strappargli dalle labbra la confessione del suo delitto.

– Ma in qual modo? Non sarà così pazzo da dirtelo.

– Io so che egli mi ama e quell’amore lo perderà.

– Ti comprendo, Seghira – disse Esteban. – Ma bada, sii prudente e sta’ in guardia! Quell’uomo è capace di tutto e l’ho veduto poco fa cercare di perdere perfino Niombo, accusandolo di avere assassinato il capitano.

– Niombo è sotto la mia protezione e guai chi lo tocca, dottore. Egli mi protesse durante la terribile marcia attraverso ai grandi boschi dell’Africa sotto la sferza dei cacciatori d’uomini, ed io lo difenderò qui – disse Seghira con suprema energia. – Ah! Non mi si conosce ancora!... Ho il sangue di due razze nelle vene: uno intraprendente ed energico, l’altro selvaggio e feroce. Kardec lo proverà!...

– Pst!

– Cosa avete, dottore?

– Silenzio, Seghira; Kardec si dirige verso di noi.

– Mi troverà carezzevole – disse la schiava con accento strano.

Infatti il bretone, che aveva terminato l’inventario dei viveri e che aveva finito di far sbarazzare la zattera di tutte le casse ed i barili che la ingombravano per lasciare maggior campo agli uomini incaricati della manovra, s’avvicinava tenendo gli sguardi fissi su Seghira.

Vedendo sdraiato verso la piccola tenda Niombo, il quale [p. 126 modifica] pareva che si fosse posto colà per impedire che qualcuno disturbasse il colloquio del dottore con Seghira, lo spinse ruvidamente col piede, dicendogli aspramente:

– Cosa fai qui, schiavo? Il tuo posto è altrove.

Niombo si alzò di scatto gettando su quell’uomo, che gli arrivava appena al petto, uno sguardo sprezzante e non si mosse.

– Olà, negro del malanno! – gridò il bretone. – Ti ho detto di andartene altrove, mi hai capito?... Per caso, piacerebbero le belle donne all’ex monarca dell’alto Ogobai?... Seghira non è per te, figliuol mio: vattene!...

Ma nemmeno questa volta Niombo si mosse; aveva incrociato le sue formidabili braccia sull’atletico petto e continuava a guardare il bretone, come se fosse indeciso fra l’obbedire o scaraventarlo nell’Oceano.

– Mi hai capito? – urlò Kardec, furibondo. – Vattene, ti dico o ti faccio frustare come un cane!...

Niombo si alzò quanto era lungo, sviluppando la sua potente muscolatura e gli disse:

– Sono uomo libero e si frustano gli schiavi!...

– Ah! Tu sei uomo libero? – disse Kardec, sogghignando. – E chi te l’ha data, negro, la libertà?...

– Il padrone.

– Ed io che or qui comando e sono il padrone, te la ritolgo.

– Provati! – disse il negro, con accento minaccioso.

– Per mille fulmini!... Una frusta l’ho portata con me, per strapparti di dosso la tua brutta pelle.

– Il re dei Baccalai non si frusta due volte – rispose Niombo, con fierezza. – Te l’ho dimostrato nel frapponte della Guadiana.

A quel ricordo, gli occhi di Kardec s’iniettarono di sangue e la sua rabbia, a stento frenata, traboccò.

Raccolse dal ponte una scure, dimenticata là da qualche marinaio e si scagliò sul gigante, ma questi rapido come il lampo gli afferrò il pugno, glielo torse, glielo tenagliò facendogli abbandonare l’arma. Un grido di dolore, che si convertì in una orribile imprecazione, uscì dalle labbra del comandante.

I marinai, temendo che il gigante stesse per accopparlo con un pugno o per precipitarlo in mare fra i pescicani, che seguivano la zattera, stavano per accorrere in suo aiuto armati di fucili e di scuri, ma il dottore, che fino allora si era tenuto in disparte e Vasco che aveva abbandonata la barra del timone, con un gesto li trattennero, mentre Seghira uscita dalla tenda diceva: [p. 127 modifica]

– Niombo, lascialo libero, te lo comando.

Il negro allentò la stretta e si ritirò dietro la tenda, non senza lanciare sull’equipaggio uno sguardo che pareva di sfida.

Allora Seghira avvicinandosi a Kardec, che si strofinava imprecando il braccio semi-stritolato, gli disse con voce dolce, insinuante:

– Vi prego, Kardec, lasciate tranquillo quel povero re; ve ne sarò riconoscente, ve lo giuro.

Udendo quella voce, che aveva un accento supplichevole ed insieme carezzevole, Kardec trasalì e fissò sulla giovane schiava uno sguardo di stupore, ma in fondo al quale balenava un lampo di gioia. Un fugace rossore gli colorì le gote, che erano sempre smorte.

– Voi, Seghira – borbottò, come se stentasse a raccapezzarsi.

– Siate generoso, Kardec – continuò la schiava avvicinandoglisi fino quasi a toccarlo e affascinandolo coi suoi grandi occhi, che parevano emanassero un fluido potente, irresistibile. – Io so, che voi non siete cattivo.

Il bretone sembrava fosse inchiodato al ponte. Con le nari dilatate, pareva che aspirasse avidamente l’alito della giovane schiava, che in quel momento sembrava ai suoi occhi più bella che mai, ed un tremito agitava le sue membra. Quell’uomo così energico, così spietato dinanzi agli schiavi, pareva tremasse dinanzi a quella donna che era pure una schiava e che aveva pur, nelle vene, il sangue dei negri.

– Lo lascerò tranquillo, giacchè voi lo volete – disse con voce titubante. – Se voi non mi aveste pregato, quell’uomo non sarebbe più vivo.

– Grazie, Kardec – diss’ella senza staccare i suoi occhi da quelli del secondo e porgendogli la destra.

Il bretone gliela afferrò stringendola fra le sue ed a quel contatto tornò a trasalire, mentre le sue gote tornavano a colorirsi, come se un’ondata impetuosa di sangue gli montasse al viso.

Poi avvicinandosele le sussurrò agli orecchi:

– Vuoi diventare la padrona qui?...

– Cosa devo fare? – chiese ella coi denti stretti, mentre un lampo di trionfo le illuminava gli sguardi.

Il bretone non rispose: si liberò bruscamente dalla stretta di mano, poi s’allontanò, facendo un gesto di collera o di stizza, gridando a Vasco che era tornato alla barra:

– Poggia, Vasco: il vento sta per soffiare!... [p. 128 modifica]

Seghira non si mosse, ma sorrideva d’un riso strano.

– Ebbene? – le chiese il dottore, passandole accanto.

– Quell’uomo è mio – rispose ella, con voce sorda. – Cadrà fra le mie spire.