I drammi della schiavitù/9. Il re dei baccalai

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9. Il re dei baccalai

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IX.


Il re dei Baccalai


La Guadiana, nella terribile lotta sostenuta contro i due incrociatori che avevano tentato di catturarla prima che lasciasse le coste africane col suo carico di schiavi, era stata protetta da una fortuna straordinaria.

Malgrado quel furioso abbordaggio, quel terribile cannoneggiamento impegnato col London e quel formidabile colpo di sperone, che aveva sventrato l’incrociatore facendolo colare a picco, aveva subìto delle perdite relativamente lievi e dei danni quasi insignificanti. La sua prua, che doveva essere di una solidità a prova di scoglio, era uscita quasi incolume dall’immensa apertura fatta nel fianco della nave da guerra; si era constatata solamente la spaccatura di un corbetto, proprio alla sua congiunzione coll’asta e con uno dei madieri, ma che non poteva produrre, almeno pel momento, alcuna grave conseguenza, tanto più che si trovava sopra la linea di galleggiamento. Le palle avevano fatto una strage di corde e gran numero di queste erano state recise, ma nel magazzino di prua abbondavano e si potevano facilmente sostituire. Anche l’alberatura aveva sofferto: tre pennoni erano stati fracassati, la delfiniera del bompresso erasi spezzata nell’urto e la coffa dell’albero maestro era stata danneggiata, ma la Guadiana ne teneva altri in riserva ed a bordo non mancavano gli abili carpentieri.

Le perdite dell’equipaggio invece, erano state rilevanti. Dieci uomini erano stati uccisi e altri sei erano stati trasportati nell’infermeria in gravissimo stato; degli schiavi sette erano stati ammazzati da una granata scoppiata nel frapponte, presso la base dell’albero di trinchetto, e altri quattro avevano riportato delle ferite non però molto gravi. Mentre Esteban si affaccendava a curare tutti quei disgraziati, che mandavano strazianti gemiti, mastro Hurtado aveva dato l’ordine di accomodare o di ricambiare gli attrezzi danneggiati e di gettare in mare i cadaveri, operazione questa che fu eseguita al momento, con grande piacere dei pescicani, che seguivano la nave negriera. [p. 69 modifica]

Quando il secondo apparve sul ponte, la Guadiana filava verso l’ovest con una rapidità di sette nodi all’ora, spinta dall’eliseo che soffia costantemente da oriente ad occidente. Diede uno sguardo all’attrezzatura, un altro all’oceano, che era lievemente agitato, poi fissò gli sguardi verso l’est. Ai primi albori si scorgevano ancora le coste dell’Africa, che però andavano rapidamente sfumando per la distanza che cresceva di minuto in minuto. In quella direzione, perduti sull’ampia distesa d’acqua, si vedevano spiccare come punti neri, le scialuppe dell’incrociatore montate dai superstiti, che cercavano di raggiungere la baia di Lopez.

Stette parecchi istanti immobile, cogli occhi fissi su quei punti neri, immerso in profondi pensieri, colla fronte aggrottata, le labbra contratte, le braccia strettamente incrociate sul petto come se volesse soffocare la sorda collera che ruggivagli nel petto, poi si scosse bruscamente come se avesse presa una rapida risoluzione, attraversò la tolda e discese nel frapponte.

Gli schiavi, sdraiati sul duro tavolato, dormivano gli uni addosso agli altri, come lo permetteva il poco spazio. I più vigorosi, che erano incatenati agli anelli del frapponte, sorreggevano i più deboli i quali dormivano appoggiati sui robusti petti di loro. Le madri, stipate a poppa, si tenevano stretti al seno i figli, quasi temessero che durante il sonno venissero a loro strappati.

Quattro marinai, colle carabine in mano e lo staffile alla cintola, vegliavano ai quattro angoli del frapponte, pronti a reprimere il più piccolo tentativo di ribellione.

Il bretone strappò uno di quei staffili ad una sentinella e senza pronunciare parola si mise a percorrere quell’immensa sala carica già di acri esalazioni, come se cercasse, fra quell’ammasso di corpi color dell’ebano, qualcuno.

Ad un tratto s’arrestò ed il suo staffile piombò con sordo rumore sulle spalle d’un negro gigantesco, che dormiva in uno spazio che pareva gli fosse lasciato libero dai suoi compagni di sventura.

– Su, Niombo! – esclamò il bretone, con voce rauca.

Il re africano, svegliato bruscamente da quella brutale aggressione, scattò in piedi come un leone ferito, scuotendo furiosamente le pesanti catene, che lo legavano all’anello infisso nella parete.

Vedendo il secondo si trattenne, facendo uno sforzo prodigioso, ma saettò su di lui uno di quegli sguardi da far fremere.

– Cosa volete da me? – chiese egli, con una voce che pareva il ruggito d’una fiera in furore.

– Olà! – esclamò il bretone. – Per chi mi prendi tu? Non [p. 70 modifica] sai che in questo momento sono io il padrone?... È inutile, schiavo maledetto, che tu mi guardi con quegli occhi.

Il gigante non rispose, ma il lampo d’odio profondo che brillava nei suoi occhi, non si spense.

– Voglio parlarti – disse il bretone. – Conosci tu Seghira?

– Sì.

– Da dove viene?

– Dall’alto Ogobai.

– Chi era suo padre?

– Un capo della tribù dei Pacuini.

– E sua madre?

– Una portoghese di Bihè.

– E come una donna bianca si unì ad un re negro?

– Mi dissero che era stata rapita da una banda di cacciatori di uomini, i quali poi la vendettero al capo dei Pacuini per un prezzo enorme.

– Sono vivi i suoi genitori?

– Sono stati uccisi dalle bande dell’infame Bango.

– È stata dispersa la tribù?

– Sì, dispersa, o uccisa o fatta schiava.

– Vi sono degli uomini della sua tribù qui?

– No, sono stati tutti venduti ad un negriero giunto prima di voi.

– Ha dei fratelli Seghira?

– No.

– Chi ti ha detto tutto ciò?

– Seghira.

– Eri forse il suo confidente? – chiese il secondo, con ironia.

– Si era affidata a me, per proteggerla contro le brame dell’infame Bango.

– Gran che, la protezione d’uno schiavo!

– Sono un re! – esclamò Niombo, con fierezza. – La mia tribù è ancora potente sull’alto Ogobai e Bango mi temeva, anche incatenato.

– Ah! Tu eri il suo protettore?... – disse il bretone, con maggior ironia. – Accetteresti un patto?

– Parlate.

– Sai che ella ama il capitano?

– Il padrone! – esclamò Niombo, con accento di dolore. Poi rimettendosi aggiunse:

– Seghira è libera e può amare chi meglio le piace. [p. 71 modifica]

– Ma io non lo voglio! – esclamò il bretone, con accento minaccioso. – Mi comprendi?... Io non lo voglio!...

Il negro lo guardò al colmo della sorpresa. Quello scoppio improvviso di rabbia, non riusciva a comprenderlo.

– Cosa volete dire? – chiese.

– Voglio dire che quella donna deve essere mia – rispose il bretone.

– L’avete detto or ora che ama il padrone.

– E non voglio che lo ami.

– Si odiano anche i bianchi adunque?...

– Forse più dei negri.

– Dunque voi odiate il padrone.

– Ciò non ti riguarda, schiavo – rispose brutalmente il secondo.

– E cosa volete adunque da me?... Dallo schiavo?...

– Tu sei l’amico di Seghira.

– È vero.

– Io ti accorderò la libertà quando noi avremo attraversato l’oceano e ti darò i mezzi per tornartene in patria, se accetti il patto.

– Quale? – chiese Niombo, nei cui sguardi balenò un lampo di speranza.

– Che tu persuada Seghira a diventare mia.

– L’amate voi, adunque?

– Sì – rispose il bretone, quasi con rabbia. – Quella donna mi ha messo un fuoco strano nelle vene: i suoi occhi mi seguono dovunque, mi hanno stregato e bisogna che diventi mia, mi comprendi Niombo?

– Vi comprendo, ma il padrone?...

– Ah!... In quanto a lui... morrà presto, lo spero – disse il bretone con voce cupa.

– E voi volete che io la dia a voi?...

– Sì, Niombo, ed avrai la libertà. Acconsenti?...

– Rifiuto!...

– Rifiuti?

– Sì.

Il bretone guardò il negro come trasognato, come se non avesse compreso bene.

– Tu rifiuti? – ripetè, con voce sibilante. – Tu, vile schiavo!

– Niombo è un re, figlio di re! – esclamò il negro con orgoglio. – La vostra libertà a tale patto, io la disprezzo!... [p. 72 modifica]

– Miserabile!... – urlò il bretone, alzando lo scudiscio. Il negro rizzò l’alta statura, sviluppando i suoi enormi muscoli, e guardò intrepidamente il bretone, dicendogli con voce ripiena di minaccia:

– Badate!...

Kardec che sembrava fosse impazzito pel furore, senza badare alla minaccia e sapendo d’altronde che lo schiavo era incatenato, alzò lo scudiscio e sferzò rabbiosamente, ma senza toccare la pelle del gigante.

Questi con una rapida mossa l’aveva afferrato in aria strappandolo dalla mano del secondo. Spezzare in due il manico ferrato come se fosse un semplice fuscello di paglia e scagliarla sul viso del bretone, fu l’affare d’un istante.

– Bianco! – ruggì Niombo. – Bada!...

– Ah! Cane! – urlo Kardec. – A me marinai!... Frustate questo miserabile!...

Niombo vedendo i quattro marinai di guardia accorrere colle fruste in mano, ebbe un accesso di furore spaventevole. Quel gigante, che doveva possedere una forza immensa, con una strappata irresistibile spezzò la catena che lo teneva unito alla parete e si slanciò attraverso al frapponte tuonando:

– Su, Baccalai!...

A quel grido che echeggiò nel ventre del vascello come un colpo di tuono, tenne dietro un immenso stridìo di catene, poi un clamore selvaggio che sembrò un immenso muggito, o lo scoppio improvviso di un uragano.

I cinquecento negri si erano risvegliati come un solo uomo, ma non erano più cinquecento negri avviliti, umili, paurosi dinanzi alla frusta degli aguzzini: parevano cinquecento leoni avidi di preda. I figli delle foreste africane si risvegliavano tremendi, pronti a vendicarsi d’un sol colpo dei lunghi patimenti, delle umiliazioni, delle frustate subite.

Vedendo il loro re libero balzare attraverso il frapponte, uomini, donne e perfino i ragazzi erano scattati in piedi mandando quei selvaggi clamori, pronti a tutto, anche a farsi sterminare pur di vendicarsi su qualcuno.

I quattro marinai che accorrevano in soccorso del bretone, in un momento furono afferrati da cinquanta braccia, disarmati, atterrati e sparvero sotto un’onda di corpi umani.

A quelle urla di belve feroci, a quel furioso stridìo di catene, alle grida d’aiuto dei marinai, che si sentivano strangolare e dilaniare, l’equipaggio intero della nave negriera col dottore e mastro [p. 73 modifica] Hurtado alla testa, irruppe nel frapponte armato di scuri, di arpioni, di asce, di manovelle, di fucili.

– Cosa succede qui? – gridò Esteban, fermando con un gesto i marinai, che stavano per scagliarsi contro gli schiavi.

– Mi difendo – tuonò Niombo, che stava ritto in mezzo al frapponte, tenendo in mano una carabina, che un negro aveva strappata a una sentinella.

– Tu, Niombo! – esclamò il dottore.

– Io, signore – rispose il monarca africano.

– E contro chi ti difendi?

– Contro costui che viene a frustarmi mentre io dormo. Sono schiavo vostro sì, ma qui sono re ancora!

Solo allora il dottore s’accorse della presenza del secondo, il quale si era addossato alla parete di babordo per sfuggire all’assalto dei negri, i quali facevano sforzi sovrumani per rompere le catene ed afferrarlo.

– Cosa avete fatto, signor Kardec? – chiese Esteban, con accento acre. – Non vi basta esercitare la tratta; è necessario provocare ancora questi disgraziati a colpi di frusta?...

– Diventate tenero per queste pelli nere, signor Esteban? – chiese il bretone, che aveva prontamente riacquistata la sua audacia.

– Voi sapete, signore, che il capitano ha proibito lo staffile a bordo della sua nave.

– Volete che si diano degli zuccherini a questi cani di negri?... Quella canaglia si rifiutava di rispondere alle mie domande e io l’ho frustato, se vi garba.

– Signor Kardec! – esclamò il dottore. – Il padrone qui non siete ancora voi!...

– In questo istante comando io sulla Guadiana, signor Esteban.

– Ah no, per Iddio!... Uscite di qui signore!... Il comandante vive ancora malgrado la palla che lo colpì a tradimento!... Il padrone è lui, lui solo!...

Quelle parole parvero che producessero una profonda impressione sul bretone e fiaccassero completamente la sua audacia, poichè non fu capace che di rispondere un:

– Va bene, signore.

Rasentando le pareti uscì dal frapponte e salì in coperta, ma torvo, accigliato, e anche assai inquieto.

– Fa’ lasciare quegli uomini – continuò il dottore, rivolgendosi verso Niombo. [p. 74 modifica]

Ad un cenno del re, i quattro marinai di guardia furono rilasciati, ma col viso pesto e le vesti a brani.

– Ritorna al tuo posto, Niombo – riprese il dottore. – Nessuno più ardirà toccarti e giacchè hai spezzato le catene di schiavitù io ti proclamo, in nome del padrone, libero.

– Grazie, signore – rispose il gigante, gettando il fucile, mentre gli schiavi, ridiventati tranquilli, mormoravano con ammirazione:

– È un gran tobib.1

Poi il dottore, volgendosi verso l’equipaggio disse:

– Che nessuno tocchi questi disgraziati. È l’ordine del capitano e qui io rappresento il padrone.

Risalì in coperta seguito da mastro Hurtado e dall’equipaggio, ma appena mise il piede sulla tolda, mandò un grido di stupore.

A poppa, appoggiato con una mano alle spalle di Seghira, pallido come un cencio lavato, seminudo, ma tenendo in pugno una pistola, stava il capitano Alvaez. Malgrado la dolorosa e grave ferita, si teneva ritto e nei suoi occhi balenava un lampo di collera.

– Alvaez! – esclamò il dottore, slanciandosi verso di lui. – Quale imprudenza, disgraziato!...

– Cosa succede qui? – chiese il ferito. – Chi è che osa provocare una ribellione nel frapponte?...

– È tutto finito, Alvaez; ritorna nella tua cabina, imprudente. Vuoi ucciderti?

– Ho udito le urla di rivolta dei negri echeggiare nel frapponte – disse Alvaez. – Chi ha provocato quegli uomini? Voglio saperlo.

– Bah! È stato un colpo di frusta.

– La frusta?... Chi è che a bordo del mio legno osa frustare i miei schiavi? – gridò con collera.

– Kardec!

– Lui!...

E, vedendo il bretone che stava appoggiato alla murata di prua, fissò su di lui uno sguardo terribile, più acuto della punta d’un pugnale.

– Signor Kardec – disse con sorda rabbia. – Il padrone a bordo della Guadiana sono io!... Alla prima terra sbarcherete!...

Poi, come se avesse esaurita tutta la sua energia in quello scatto di collera, le forze improvvisamente gli mancarono e cadde fra le braccia del dottore e di Seghira, mentre dalle fasce scomposte gli usciva un getto di sangue che macchiò il ponte.


Note

  1. Un gran dottore.