I moribondi del Palazzo Carignano/II

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I III
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II.


Il conte di Cavour. — La sua giovinezza. — Paggio. — Luogotenente del genio. — Viaggio in Inghilterra ed in Francia. — Scrive nelle Riviste. — Suo stile. — Ritorna in Piemonte. — Il Risorgimento. — Il conte di Cavour deputato. — Sue evoluzioni parlamentari. — Ministro. — Motto del re al signor d’Azeglio. — Cavour al congresso di Parigi. — Dopo la pace di Villafranca. — Carattere e genio di quest’uomo di Stato. — Cavour oratore. — La sua tenuta nel Parlamento. — Dopo la sua morte.


Torino, 1 maggio 1861.


Io non so se la biografia del presidente del Consiglio sia universalmente conosciuta. Ad ogni modo, e’ non sarà fuor di proposito che io ne dia qui un riassunto sommario. Il conte Camillo Benso di Cavour nacque nel 1810. Fu educato alla scuola militare e instrutto molto sommariamente. Poi esordì nel mondo, o per meglio dire alla Corte, in qualità di paggio di Carlo Felice.

Il re trovò che il suo paggio non aveva la vocazione voluta per servire in una Corte bigotta e triviale come la sua, e gli dette congedo. Il conte di Cavour se ne vendicò dicendo: Che gli avevano ritirato il basto. Ritornò al collegio [p. 52 modifica]militare, ed a diciotto anni ne uscì col grado di luogotenente del genio. Ma il signor conte non fu più fortunato nell’esercito, che non lo era stato alla Corte. Nel 1831 e’ trovavasi a Genova per sorvegliare alcuni lavori di fortificazione. Mostrò delle tendenze liberali: disse qualche parola smozzicata sugli avvenimenti della Francia di allora. Per punirlo di questa audacia, fu mandato di guarnigione nel forte di Bard. Il conte di Cavour dette la sua dimissione e si mise in viaggio.

Visitò la Francia e l’Inghilterra, ove fissò principalmente la sua residenza e dove si prese di amore per le istituzioni inglesi e per la politica d’Inghilterra — cui egli neglesse di poi.

L’uomo inclinò verso la Gran Bretagna: il ministro si appoggiò sulla Francia.

E ritornando in Francia scrisse qualche articolo di Rivista. Io non ne segnalerò che due, i più caratteristici, l’uno Sullo stato attuale dell’Irlanda e sul suo avvenire; l’altro, Delle idee comuniste e dei mezzi di combatterne lo sviluppo. Nel primo articolo egli si mostra partigiano del sistema di Malthus e dà ragione all’Inghilterra; nel secondo egli dà ragione, come doveva essere, agli economisti su i socialisti. Egli spera molto dalla beneficenza dei signori e dalla carità legale. Ammira Pitt e ne fa un ritratto rimarchevole. In generale, lo stile del conte di Cavour è arido, interrotto, nervoso, senza altri ornamenti che una logica serrata e sottile. Il conte di Cavour non ha il tempo di adornare un modello — mannequin; egli cerca un uomo. [p. 53 modifica]

Il conte di Cavour ritorna in Piemonte saturo d’idee e di fatti, senza avere largamente studiato, ma avendo molto osservato. Egli volle utilizzarsi pel suo paese e entrò nella Direzione degli asili infantili. Ma egli era sospetto di già. Egli riportava la peste del liberalismo: veniva tutto pregno del profumo di progresso che respiravasi a quell’epoca in Francia, come in Inghilterra, in tutto lo sviluppo della vita pubblica. Il presidente degli asili lo pregò, pel bene della società, di uscire dalla Direzione. Egli entrò nell’Associazione agraria e nella Commissione della statistica.

Nel 1847 fondò un giornale politico coi signori Balbo, Galvagno, Santa Rosa, Il Risorgimento, il quale aveva a scopo di propagare le idee di progresso, di riforma, d’unione tra principi e popoli, e l’indipendenza d’Italia. Il signor di Cavour era lo più vivo ed audace tra i redattori di questo periodico ed uno dei più arditi pensatori del Piemonte. Lo mostrò quando una deputazione di Genova venne a domandare a Carlo Alberto l’espulsione dei gesuiti e l’organamento della guardia nazionale. Il conte di Cavour appoggiò Brofferio, il quale scappò fuori con un grido «La migliore delle riforme è la Costituzione; dimandiamola senza indugio!» Valerio, Galvagno ed altri respinsero questa idea audacissima. La petizione al re fu solo segnata da Cavour, Brofferio, d’Azeglio, Durando e Santa Rosa — e la si fece capitare a S. M.

La condotta del conte di Cavour, la petulanza delle sue idee, la sua indipendenza, lo misero [p. 54 modifica]molto male col partito aristocratico, egualmente che col partito democratico — a quell’epoca molto più avanzato che oggidì in Piemonte. Dopo le cinque giornate di Milano, Cavour consigliò al re l’audacia e la guerra immediata.

Alle seconde elezioni, Torino l’inviò al Parlamento come suo deputato, ed il nobile conte prese posto al centro destro, onde tener testa, come fece, alle esigenze immoderate della destra come della sinistra. Qui comincia veramente la sua carriera politica.

Dopo la disfatta di Custoza, il conte di Cavour si arrolò come volontario, ma non ebbe il tempo di partire, perchè le cose precipitarono con una spaventevole rapidità. La capitolazione di Milano ebbe luogo. Egli restò al Parlamento e sostenne il Gabinetto formato dal re, il 19 agosto 1848, sotto la presidenza del marchese Alfieri. Combattè Gioberti, che era allora il capo del partito democratico.

Nelle elezioni di gennajo 1849 il conte di Cavour non fu eletto. Malgrado ciò, trovando giusta la politica di Gioberti, il quale voleva far occupare Roma e la Toscana da soldati italiani, la difese nel suo giornale. Gioberti cadde. Il conte di Cavour sostenne il ministero Ratazzi, il quale, nella condizione terribile cui gli aveva fatta la situazione di quell’epoca di delirio, dovette dichiarare la guerra all’Austria. La rotta di Novara fece cadere il Ministero.

D’Azeglio convocò un nuovo Parlamento; e Torino nominò di nuovo il conte di Cavour. La [p. 55 modifica]Camera era ministeriale. Cavour divenne capo del centro destro; Ratazzi del centro sinistro. E d’allora la divergenza fra questi due uomini di Stato divenne ancora più pronunziata. Nondimeno, il conte di Cavour si oppose altrettanto, e forse più alla destra che alla sinistra. D’Azeglio lo vedeva innalzarsi e spuntar all’orizzonte come ministro. Dopo la morte di Santa Rosa egli gli affidò il portafogli del commercio e della marina. Infine, eccolo all’opera.

Vittorio-Emanuele, che ha l’istinto di presentire la superiorità, lo indovinò. Egli disse a d’Azeglio, che glielo proponeva: «Va benissimo, ma quell’uomo lì vi rovescerà tutti!» Poteva dire, ci dominerà tutti. D’Azeglio non se ne sbigottì. Poco dopo, Cavour accoppiò ai due suoi portafogli poco serii, quello importantissimo delle finanze, cui conservò dal mese di aprile 1851 fino al maggio 1852. A quell’epoca, il conte di Cavour appoggiò Ratazzi, capo della sinistra, come candidato alla presidenza della Camera. Ciò spiacque a Galvagno, il quale, nel Ministero, rappresentava l’elemento conservatore ad oltranza. Il Gabinetto, fu sciolto.

D’Azeglio ne compose uno a nuovo, il quale non potè vivere a causa delle dissensioni sopravenute tra il Piemonte e Roma. D’Azeglio consigliò al re di nominar capo del Governo il conte di Cavour, il quale si era recato al Congresso economico di Bruxelles. Traversando Parigi, egli si presentò per la prima volta all’imperatore Napoleone III. Cavour divenne presidente del [p. 56 modifica]Consiglio e prese il portafogli delle finanze. Poi, quindi a poco, Buoncompagni essendosi ritirato, egli invitò Ratazzi al ministero della giustizia. Il conte di Cavour si alligava al centro sinistro.

Nel 1857, Ratazzi avendo lasciato il portafoglio dell’interno, il conte di Cavour accumulò quello degli affari stranieri, dell’interno, dell’istruzione pubblica e la presidenza. Fu ministro fino alla pace di Villafranca.

Il conte di Cavour aveva carezzate le idee inglesi, essendo deputato e giornalista: arrivato al potere, ei comprese la parte che l’imperatore Napoleone andava a far rappresentare alla Francia, e si appoggiò apertamente e con abbandono sur essa. Ei fece decidere la spedizione di Crimea, il di cui successo lo condusse al Congresso di Parigi, Quivi egli si diede a conoscere meglio all’Imperatore, cui meglio conobbe. Essi s’indovinarono, forse si compresero. E forse ei bisogna datare da quest’anno quell’accordo che si manifestò di poi per un seguito di avvenimenti fortunati per l’Italia. La questione italiana fu iniziata, anzi posta nel Congresso di Parigi dal conte di Cavour, con il consentimento dell’Imperatore, l’Inghilterra favorendolo. A Plombières furono convenute forse l’alleganza di famiglia e l’alleganza nazionale. E la guerra del 1859 spuntò in quel firmamento ove dovevasi vedere quindi a poco la stella d’Italia brillare, quella dell’Austria impallidire.

Ma un malinteso si era frapposto tra il ministro del re Vittorio Emanuele e l’Imperatore. Il [p. 57 modifica]ministro voleva un’Italia intera, un’Italia italiana; l’Imperatore aveva fatto delle riserve, delle reticenze, aveva dei fini occulti. Cavour non volle tradire l’Italia. E la convenzione di Villafranca fu precipitata.

Anche il re rinnegò il suo ministro!

Ratazzi, il quale rimpiazzò il conte di Cavour, obbligato a ritirarsi, Ratazzi si trovò imbarazzatissimo con la Francia. Egli non osò nè bravarla, nè cedere. La caparbia resistenza del barone Ricasoli, in Toscana, salvò l’Italia. Cavour fu richiamato agli affari. Egli accettò l’annessione del Centro e segnò la sua pace con le Tuileries, mediante la cessione, dolorosissima, ma giustissima, astuta, politica, di Nizza e della Savoja. Egli inaugurava il principio dell’Italia una, che contraponeva ai principj del trattato di Vienna. Un altro atto del grande dramma italiano era ancora rappresentato. Restava il quarto.

Il conte di Cavour lascia i volontari organizzarsi e li ajuta, sotto mano, come può. Egli lascia partir gli argonauti che vanno alla conquista del vello d’oro — l’unità d’Italia — a Marsala, ma non senza uno stringimento di cuore, dubitando dell’esito. Egli li lascia vincere, procedere, marciare, rovesciar la dinastia borbonica, e poi, una volta sul Volturno, in faccia di quella ridicola Capua che barrica loro la strada di Roma, il conte di Cavour si finge debordé, secondo la parola dell’Imperatore, dalla rivoluzione e dai rivoluzionarj, e gitta l’esercito del re negli Stati del Papa. Egli salva Garibaldi, la rivoluzione, [p. 58 modifica]l’Italia. Il resto è noto. Ciò fu un colpo di genio come ve ne ha pochi nella storia.

Io ho corso, ho divorati i dettagli. Ho fretta di riassumere, perchè desidero di esser corto.

Il conte di Cavour, senza contestazione, è il terzo uomo di Stato d’Europa — con lord Palmerston e l’Imperator Napoleone. La perdita di questo uomo, nelle circostanze attuali, sarebbe, per l’Italia, una sventura irreparabile. La forza del conte di Cavour non è nei suoi principii; egli non ne ha alcuno d’inesorabilmente determinato. Ma egli ha uno scopo, uno scopo fisso, netto, la di cui grandezza avrebbe data la vertigine a tutt’altro uomo — dieci anni fa — quello cioè di formare un’Italia una ed indipendente. Gli uomini, i mezzi, le circostanze, gli sono stati, gli sono tuttora indifferenti. Egli cammina diritto, sempre saldo, sovente solo, sacrificando i suoi amici, le sue simpatie, qualche volta il suo cuore, spesso la coscienza. Nulla gli è duro. La pieghevolezza del suo spirito è maravigliosa. Egli indovina tutto, e raramente s’inganna, non già sulla verità, ma sul successo dell’opera. Egli riunisce la solidità di calcolo del temperamento inglese, con quel genio politico senza scrupoli, senza idealismo, sovente senza generosità, del carattere italiano. Il conte di Cavour è un tratto di unione tra sir Robert Peel e Macchiavello. Egli ha qualche cosa di bizantino: l’astuzia, la logica fina, il risultato sempre reale anche nel paradosso. Leggete le sue note diplomatiche. Egli è impossibile di aver ragione, ed [p. 59 modifica]anche di avere torto, con un scintillamento di argomenti più solidi, più urgenti, che vi prendono alla gola con la loro eloquenza. Se ne resta colpiti ed abbacinati — e sovente convinti.

Il conte di Cavour, il quale sventuratamente non ha sempre lo ingegno d’indovinare gli uomini, ha sempre quello d’indovinare una situazione, e più ancora, d’indovinare il lato possibile di una situazione. Ed è questa maravigliosa facoltà che ha contribuito a formare l’Italia di oggidì. Ministro di una potenza di quarto ordine, egli non poteva creare le situazioni, come l’Imperatore Napoleone, nè appoggiarsi ad una grande forza nazionale, come lord Palmerston.

Il conte di Cavour doveva trovare una fessura nell’addentellato della politica europea, e guizzarvi dentro, ed appiattarvisi, e praticarvi una mina, cagionarvi un’esplosione. Ed è per questo modo ch’egli vinse l’Austria e si assicurò l’ajuto della Francia e dell’Inghilterra. Ove altri uomini di Stato avrebbero rinculato, il conte di Cavour si gittò testa in giù, dopo avere scandagliato il precipizio ed aver calcolato perfino i profitti della caduta. La spedizione di Crimea, la sua attitudine al Congresso di Parigi, la cessione di Nizza, l’invasione degli Stati pontificii nell’ultimo autunno sono state la conseguenza della vigorosa tempra del suo spirito.

Ecco in breve l’uomo della politica straniera. Egli è forte, egli è al livello della situazione, degli uomini del suo tempo e dei tempi.

L’uomo della politica interna è meno completo, [p. 60 modifica]meno finito. Il signor di Cavour possiede la conoscenza generale degli affari; egli ha delle idee larghe, molto liberali, niente complicate; ma egli manca dell’abilità pratica della messa in scena. Inoltre, egli ha sovente la mano infelice nella scelta degli uomini. Testimone, la serie di agenti ch’egli ha spediti nell’Italia meridionale — il signor Nigra compreso ed il Principe di Carignano. Il conte di Cavour si sente al disopra del dettaglio, il quale è nondimeno importante nell’amministrazione, ed è questo il lato vulnerabile della sua politica; perchè, negli affari stranieri, alcuno non contesta la sua superiorità.

Evvi ancora un altro punto che urta talvolta nella condotta del conte di Cavour — ed è la sua personalità. Cavour si conosce, egli conosce la gente che lo attornia; la stima poco, forse punto, ed ha il torto di farglielo sentire. E’ non tollera eguali, non essendo abituato ad incontrarne molti. Quantunque egli tocca, deve piegare, deve rassegnarsi a vedersi manipolato, pètri, da questa mano potente. Il Re stesso ne subisce il magnetismo, ne freme, ne è geloso e tenta invano di ribellarsi. Ora chi non consente a lasciarsi assorbire dal conte di Cavour, si classifica, senza transazione, tra i suoi nemici, o per meglio dire tra i suoi avversarj — perocchè il conte di Cavour sa portare il broncio, conservar per un tempo il rancore; odiare no.

Arrogasi a ciò le sue maniere brusche, brevi, poco curevoli dell’altrui suscettività, il sorriso sarcastico cristalizzato sulla sua faccia; l’abitudine di dare [p. 61 modifica]degli ordini, il suo portamento e le sue fattezze borghesi, le quali non lasciano alcuna probabilità al successo neppur delle sue cortesie, delle sue piaggerie verso coloro che vuole rabbonire, inzuccherare, amadouer! Si aggiunga la sua parola spezzata ed imbarazzata; la sua voce acre e metallica che male affetta la prima volta; il suo gesto petulante, brusco, saccadè, e voi completerete l’uomo, il quale vi attira poco, quando non gli siete legato per altri vincoli.

Il conte di Cavour si tiene in Parlamento assolutamente come se la sinistra non esistesse, come se egli fosse nel suo salone, in mezzo dei suoi famigliari — sopratutto quando si annoja. Egli parla, egli ride, egli petulantemente volta le spalle ai suoi colleghi, egli si accoccola, sbadiglia, tormenta il velluto della tavola con il suo tagliacarte, fa degli epigrammi;.... se avesse le abitudini americane, metterebbe i piedi sul bureau! Egli non vede là che la maggioranza, vale a dire, degli amici fedeli — dei confidenti.

Il conte di Cavour non è un oratore nel senso francese, egli lo è piuttosto nel senso inglese. Egli ha la parola difficile, perocchè e’ non vuol dire una parola di troppo, una parola la quale non abbia la portata ch’egli vuol darle. Egli non parla per la Camera, ma per l’Europa. Egli ha un ragionamento serrato, sostanziale, lucido; tocca il cuore della quistione; e se non ha sempre ragione, egli non cade mai nella trivialità e nei nonsensi.

Conchiudo. Il diplomatico è un gigante; [p. 62 modifica]l’amministratore, mediocre; l’uomo, un antitesi. Con lui non si resta giammai in un’attitudine indeterminata: gli si ubbidisce o gli si addiviene ribelle. E’ non lascia menarsi dai suoi amici, non conta i suoi amici. È il pensiero d’Italia, all’estero; all’interno, ne è il cuore. Egli è l’anima sempre del Gabinetto, che in lui s’identifica, s'illusa, direbbe Dante.

Parlerò della sua politica attuale quando avrò abbozzati, a passo di carica, i suoi sette colleghi.

Quando io pubblicai il giudizio su riferito, i miei amici della sinistra mi lanciarono l’anatema, e poco mancò ch’e’ non mi dessero dell’apostata. Io fui considerato come un adulatore. Cavour me ne ringraziò. Due mesi dopo, il grande ministro moriva. E l’Europa intera, e l’Italia come un sol uomo mi davano ragione. Gli avvenimenti che sono sopravenuti hanno confermate le mie appreziazioni.

Si può, in questo momento, misurare un lembo, calcolare un lato dell’opera del conte di Cavour. Basta ravvicinare i due estremi: donde partì, vale a dire, e dove fermò il suo passo, colpito dalla morte.

Egli trovò il Piemonte — dopo Novara! — egli lascia l'Italia — dopo il Volturno e Gaeta.

Quantunque è stato fatto nell’intervallo, è stata opera sua, o egli ajutando. Egli ha sempre marciato in avanti; ed anche allorquando seguì al rimorchio gli avvenimenti che lo soverchiarono, anche quando lasciossi scappare l’iniziativa, la sua parte di secondo ordine non era che apparente. [p. 63 modifica]

Un dubbio gravita ora sulla sua tomba. Volle egli l’Italia una, ovvero un gran Piemonte — un regno d’Italia del Nord — o tutta la Penisola indipendente?

Io credo che la concezione dell’Italia una non gli venne che dopo l’annessione della Romagna. Innanzi a Roma — quantunque indifferente in materia religiosa — in faccia del papa, cui egli credeva più grande in realità nel mondo, più radicato nell’anima dei popoli, il conte di Cavour si arrestava, non già sbalordito o atterrito, ma dubbioso. La sua mano provava un’involontaria convulsione stendendosi alla tiara — o al triregno. Per tutto il resto, e’ procedè di un passo sicuro. In politica, e’ fu giuocatore avveduto. La sua messa contro l’Austria, era la ruina dell’Austria stessa — se dessa avesse vinto. Imperciocchè, stendendo la sua potenza sulla Penisola intera, l’Europa sarebbesi allarmata di tanto formidabile dominio. Ed il conte di Cavour non aveva a temere che l’Austria. Ed egli aveva conquistato l’appoggio della Francia e dell’Inghilterra.

Il conte di Cavour lasciò la sua opera interminata. La sua morte ha forse anche ritardato il compimento di quest’opera. Ma forse altresì egli è morto a tempo per sè stesso. Egli avrebbe dovuto fare dei sagrifizi, ai quali il suo cuore avrebbe ripugnato, e cui la sua ragione, il suo calcolo di uomo di Stato avrebbero consigliati e sanzionati. La natura del suo ingegno, la tempra della sua mente, erano meno propri a questo periodo di persistenza, di ostinazione, di raideur, nel quale è entrata la [p. 64 modifica]quistione italiana — meno proprii che al periodo precedente, nel quale bisognava lottare, provocare, intrigare, mettere in sussulto l’Europa, gittare l’allarme, creare le difficoltà, tirar partito di una forza che l’Italia non aveva allora, e che è negletta oggidì.

L’eredità ch’egli ha lasciata non è imbrogliata, ma la gestione n’è difficile. Egli aveva messo in movimento l’energia italiana sotto tutte le sue forme — una parte per agire di concerto con lui, una parte per resistergli. Tutte le file gruppate nella sua mano rispondevano ad una delle funzioni della vita italiana. Lui morto, una specie di paralisi ha invaso il corpo sociale della Penisola. Si è creduto perfino inutile di resistere, di attaccare il potere. L’Italia si fa; ma forse più per gli errori dei suoi nemici che per l’iniziativa ed il concorso dei suoi amici. Vivente Cavour era l’inverso.

Il posto vuoto ch’egli ha lasciato resta inoccupato tuttavia. Le linee ch’egli aveva tracciate sono religiosamente seguite; ma il pensiero che poteva modificarle, dar loro la vita, farle deviare onde evitare un ostacolo, quel pensiero non è più — -non lo lasciò in eredità ad alcuno. Si traducono le sue idee liberamente — ma esse cominciano già a non essere più dell’epoca nostra. Sono la storia.

La potenza del genio del conte di Cavour si riassume in questo: che egli indovinò l’anima della nazione, e, forte di quest’appoggio morale e latente, plenipotenziario dell’Italia possibile — vale a dire dell’Italia del popolo — egli agì nel mondo [p. 65 modifica]officiale e la fece sentire all’Europa, non quale era, ma quale poteva essere. Piemontese, il conte di Cavour applicò tutte le risorse del suo spirito per vendicare la rotta di Novara. Italiano, egli si servì dello spirito rivoluzionario — tradizionale in Italia — per compiere la più grande opera di conservazione che si sia fatta dopo il congresso di Munster — il principio della ponderazione dell’Europa sulla base delle frontiere naturali.

Non si conosce ancora tutta l’estensione e la profondità dell’opera del conte di Cavour, perchè quest’opera, essendo stata in gran parte una cospirazione di tutte le ore, e dovunque, ed in tutto, l’epoca delle rivelazioni non è ancora arrivata. Ma io credo che quest’opera è stata immensa, avuto conto dell’intensità e dell’attività del suo spirito. Egli fu il nostro Pitt. Ed io sarei quasi per dire, più grande che lui — perocchè egli ebbe la costanza, la tenacità, la fissità dello scopo, l’implacabilità dell’odio contro il nemico del suo paese, come l’immenso uomo di Stato dell’Inghilterra, ed ebbe in più a lottare contro l’esiguità dei mezzi di cui appena poteva disporre l’Italia. Pitt agitava e rimoveva con una leva che chiamavasi la Gran Bretagna; Cavour con un pezzo di cuneo che chiamasi Piemonte. Ma come Pitt, egli usò di quella dittatura irresponsabile di cui l’avevano investito il suo re ed il suo paese — ed il risultato ch’egli ne ottenne fu cento volte più grandioso. Pitt abbattè un uomo; Cavour creò una nazione!

Io mi arresto. L’ora di comprendere il conte di Cavour e di valutare la sua parte non è ancora sonata.