I naufragatori dell'Oregon/13. Tra le foreste del Borneo

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13. Tra le foreste del Borneo

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CAPITOLO XIII.

Tra le foreste del Borneo.


L’olandese ed il soldato, entrambi pratici della lingua malese, non avevano perduto una sola parola di quel dialogo. Ormai ne sapevano abbastanza delle intenzioni di quei pirati e soprattutto di quel malese, di quel servo del naufragatore dell’Oregon.

Non potevano più ingannarsi: quelle parole «domani li prenderemo» le avevano udite perfettamente, malgrado i sordi muggiti prodotti dalla risacca nel frangersi contro la grande scogliera. [p. 105 modifica] [p. 107 modifica]

Entrambi erano rimasti immobili, stupiti, guardandosi l’un l’altro. Il soldato ruppe pel primo il silenzio.

– Mi ero ingannato, signore, quando poco fa vi dicevo che avrei voluto trovarmi molto lontano da questa costa?...

– Ma che abbiano tramato contro di noi un piano infernale?... – mormorò il signor Held. – Ma quell’O’Paddy?...

– Io credo, signore, che voi abbiate fatto male a raccontargli lo scopo del vostro viaggio.

– Ma credete che anche lui sia un miserabile, o che sia vittima della perfidia del suo servo?...

– Io non lo so, signore, ma penso che qui non spira buon’aria per noi e che faremo bene a sloggiare più presto che si può. È mezzanotte e fra quattro ore l’alba spunterà.

– Ma non possiamo inoltrarci nella foresta con questa oscurità.

– Attenderemo l’aurora ed intanto veglieremo accuratamente. Finchè vediamo le scialuppe attorno all’Oregon, nulla abbiamo da temere.

– Furfante di malese!...

– Sono tutti pirati, signore, perfidi e traditori.

– E forse ha tradito anche O’Paddy.

– Può averlo fatto, quantunque quel capitano mi abbia sempre destato dei sospetti. Cosa volete?... Quella speronata coi fanali spenti mi torna sempre alla memoria.

– Ma a quale scopo volete che abbia sventrato l’Oregon?

– Per poi saccheggiarlo.

– Con quella tempesta!...

– Avete ragione, ma... orsù, non occupiamoci che di noi. Se il suo servo lo ha tradito, penserà lui a trarsi d’impiccio come può. Noi non possiamo liberarlo.

– Non dite nulla ad Amely di quanto abbiamo scoperto. È una ragazza coraggiosa, ma è meglio non metterle indosso delle inquietudini.

– Sarò muto come un pesce.

Fecero ancora una perlustrazione nei dintorni della rupe, poi tornarono alla caverna. Il signor Held guardò verso il giaciglio e vide che la giovanetta e Dik dormivano tranquillamente, l’uno presso all’altra. Anzi un sorriso sfiorava le labbra di Amely. [p. 108 modifica]

– Sogna, la povera fanciulla – mormorò. – E chissà come e se usciremo vivi da questo disgraziato viaggio!...

Si sedette presso il soldato che masticava con visibile soddisfazione un pezzo di sigaro e s’immerse in profondi pensieri, pur tenendo gli occhi ben aperti dal lato della foresta e dal lato del mare e tendendo gli orecchi.

La notte però fu tranquilla. Nella tenebrosa foresta si udirono bensì delle urla che annunziavano la vicinanza delle fiere, ma nessun animale osò avventurarsi presso la caverna.

Alle tre del mattino, ai primi chiarori dell’alba, si scorsero le scialuppe ed i canotti abbandonare l’Oregon e tornare verso la baia, ma si tennero così lontani dalle scogliere, che nè il soldato, nè l’olandese poterono distinguere le persone che li montavano.

Alle tre e mezza, quando gli astri cominciavano ad impallidire ed il mare a tingersi, verso oriente, dei primi riflessi dell’aurora, Held svegliò Amely e Dik.

– Bisogna partire, ragazzi miei – diss’egli. – Non dobbiamo rimanere qui.

– È accaduto qualche cosa di grave, signor Held? – chiese Amely.

– No, ragazza mia, ma siamo certi che O’Paddy è stato fatto prigioniero dai pirati, e temiamo che quei furfanti cerchino d’impadronirsi anche di noi.

– E lo lasciamo nelle mani di quegli uomini?...

– Te l’ho detto che nulla possiamo fare per lui. Un giorno però, quando non correremo più alcun pericolo, ti prometto di venirlo a cercare e di punire quegli uomini.

– Ma se lo uccidono?

– I pirati preferiscono di fare degli schiavi colla speranza di ottenere, più tardi, dei lucrosi riscatti. Partiamo, o sarà troppo tardi.

Si caricarono dei viveri e delle armi e volsero risolutamente le spalle al mare, dirigendosi verso la grande foresta. Il soldato si era messo alla testa, tenendo in mano la scure per poter aprire dei passaggi attraverso a quel caos di vegetali.

Ben presto si trovarono in piena foresta. A destra, a sinistra, dinanzi e di dietro s’alzavano alberi d’ogni specie, banani selvatici, mangli d’ogni sorta, palme dalle foglie immense, arbusti e canne colossali, gli uni addosso agli altri, confusamente intrecciati e collegati [p. 109 modifica] fra di loro da liane grosse, lunghissime, resistenti, che salivano fino ai rami più alti, scendevano descrivendo mille curve capricciose e che correvano in tutti i sensi, rendendo il passaggio quasi impossibile.

Una semioscurità regnava sotto quegli ammassi di foglie, le quali avevano per lo più dimensioni straordinarie. I raggi del sole non dovevano mai essere penetrati attraverso a quelle vôlte di verzura.

Pochi uccelli si scorgevano fra quelle migliaia e migliaia di rami: qualche copsykus saularis, uccello che ha le penne bianche e nere; qualche colomba coronata che fuggiva rapida appena scorgeva i viaggiatori; qualche epimaco regale, splendido uccello che ha le ali nero-turchine, verdi e rosse, e qualche loris scarlatto, colla gola nera e porporina.

Abbondavano invece le lucertole volanti e si vedevano svolazzare d’albero in albero a battaglioni, emettendo i loro siki-siki niente piacevoli.

Il siciliano, quantunque sotto quelle piante regnasse un’atmosfera da serra calda che snervava e faceva sudare abbondantemente, manovrava la scure con suprema energia, abbattendo smisurati bambù, i quali cadevano con lunghi crepitìi, cespugli e liane rappresentati dai gambir uncaria e dalle giunta wan (ercola elastica), piante arrampicanti pregiatissime, poichè mentre la prima dà una specie di gomma adoperata con molto successo per fissare i colori, specialmente sulle sete, la seconda produce una sostanza assai attaccaticcia, che dai malesi viene adoperata come vischio per accalappiare gli splendidi uccelli di quelle regioni.

Dietro al soldato veniva Dik, il quale cercava di sbarazzare il passaggio dai rami tagliati, per far maggior posto ad Amely, e ultimo Held, il quale era incaricato di sorvegliare la foresta, potendo improvvisamente piombare addosso a loro qualche pericolosa fiera.

La marcia divenne però ben presto così difficile, che il siciliano era costretto a fare delle frequenti fermate e richiedere l’aiuto dell’ex-ufficiale per aprire un passaggio.

Si erano impegnati in mezzo ad una boscaglia di pepe selvatico, pianta arrampicante che somiglia alla vite, che cresce alla rinfusa quando non è coltivata, intrecciandosi in mille guise. Il marinaio ed il signor Held avevano un gran da fare per aprirsi il passo in mezzo a quella moltitudine di gambi sarmentosi.

Alle nove del mattino però riuscivano ad attraversarla, e rientravano [p. 110 modifica] nella grande foresta, forse più folta sì, ma dove l’aria almeno poteva circolare più liberamente.

Il soldato e l’olandese, estenuati da quella lotta contro quei molteplici ostacoli, s’arrestarono.

– Abbiamo percorso almeno quattro miglia – disse Held, tergendosi il copioso sudore che inondavagli la fronte. – Sono certo che, in mezzo a questo caos di vegetali, quei furfanti non potrebbero mai trovarci, se a loro saltasse il ticchio d’inseguirci.

– Riposiamoci qualche ora, signor Held – disse Amely. – Dopo ci rimetteremo in marcia.

– Cerchiamo prima un po’ d’acqua – disse il soldato. – Io sono assetato.

– Temo che sia un po’ difficile trovarne – rispose Held – però cercheremo di avere un liquido. To'!... Ecco là degli alberi che fanno per noi.

– Un albero che ci darà dell’acqua? – esclamarono Amely e Dik.

– E zuccherata – aggiunse l’olandese. – Avete un recipiente qualunque?

– Ho un bicchiere di cuoio – disse il soldato.

– Seguitemi.

Egli si diresse verso una specie di palma adorna di grandi foglie piumate e che portava delle frutta riunite in grossi racemi. Afferrò la scure e fece sul tronco, presso un nodo, una incisione profonda; tosto un liquido chiaro e limpido sgorgò, raccogliendosi nella tazza di cuoio che il soldato teneva sotto quella ferita.

Quel liquido però scendeva lentamente e ci vollero non meno di dieci minuti prima che la tazza fosse piena.

– A voi, signorina – disse il siciliano porgendola ad Amely.

La giovinetta l’accostò alle labbra e la sorseggiò.

– Ma è acqua dolcissima, zuccherata – diss’ella.

– Sì – rispose Held, sorridendo.

– Ma che pianta è questa?

– Una palma preziosissima, che chiamasi arenga saccarifera, molto diffusa in tutte le isole dell’arcipelago della Sonda. Incisa in uno qualunque dei suoi nodi, dà questo liquido assai zuccherino che i malesi chiamano toddy. Ne produce circa un litro al giorno, e fatto bollire finchè diventa sciroppo e poi, versato entro vasi, si converte in [p. 111 modifica] uno zucchero di colore oscuro bensì, ma molto eccellente; se si lascia invece fermentare, diventa una bibita inebriante, che si chiama tùwak, una specie di arak.

Ma questa palma produce ben altre cose e non meno utili. Dalle sue foglie si ricava una specie di crine assai resistente che serve per fare le corde, gomuti; produce una sostanza cotonacea che viene adoperata come esca; la midolla del suo tronco, che è molto farinacea, serve a fare del pane, che viene molto usato dalle classi povere e che è assai sostanzioso, e persino le sue frutta vengono mangiate, specialmente dai chinesi, che le candiscono. Se trovate di quelle frutta guardatevi bene dal porre in bocca le bucce, perchè sono velenosissime e dagli indigeni vengono adoperate per bagnare le loro frecce.

– Ma vi sono altri alberi, è vero, signor Held, che dànno dei liquidi zuccherini? – chiese il soldato.

– Sì, anche i sontar, i barassus flabelliformes dei naturalisti, dànno un succo assai dolce che viene poi tramutato in zucchero, mettendolo a bollire.

– Ma... signor Held – disse in quell’istante il piccolo Dik, che da qualche tempo fiutava l’aria. – Non vi pare di udire un odore di canfora?...

– Di canfora!... Qui in mezzo alla foresta!... – disse Amely.

– Non vi è da sorprendersi – disse l’olandese. – Il Borneo è il paese che produce la canfora migliore. Vi sarà qualche albero in questi dintorni.

– Eccola laggiù dietro a quel gruppo di betel – esclamò il soldato. – Corpo d’una fregata! Che colosso!...

Infatti, dietro a quel gruppo di piante si rizzava un albero di dimensioni enormi, non in quanto alla sua altezza, ma alla grossezza, poichè cinque uomini non avrebbero potuto abbracciarlo.

Precisamente da quella parte venne un profumo di canfora abbastanza acuto.

– È un vero dryobalanops camphorae – disse il signor Held, che era un po’ botanico. – Avendo del tempo si potrebbe ricavare una bella somma da quel colosso, poichè la canfora del Borneo è la più pregiata di tutte.

– Ma dove contiene la canfora? – chiese Amely.

– Nel suo tronco e ne’ suoi rami, radunata in piccole concrezioni, [p. 112 modifica] mentre dalla linfa si ottiene quel prezioso liquido chiamato olio canforato.

– Spaccano l’albero per ricavarla?

– Sì, e si paga molto cara dai chinesi, i quali a quella che si estrae da queste piante attribuiscono delle virtù miracolose e speciali. I bornesi non ne fanno uso però, anzi di queste piante hanno un timore superstizioso e non fanno la raccolta che dopo apposite cerimonie, alle quali, non ne so il motivo, le donne non possono assistere.

– Ma a Macao ho veduto delle piante somiglianti a questa, sebbene più piccole.

– Sì, ma quelle sono d’altra specie conosciute dai botanici col nome di laurus camphora e la materia profumata si ricava in altro modo. Dapprima si tagliano i rami in pezzetti, si fanno bollire a lungo entro recipienti, sui quali si pongono delle coppe di paglia destinate a raccogliere la resina odorifera, che poi si cristallizza.

Quella canfora, che è la comune e che si spedisce anche in Europa, viene chiamata chaug-nau dai chinesi e quella ricavata dalla blumea balsamifera invece la chiamano ugai ed è la più stimata dopo quella che si estrae dal Borneo.

Queste altre varietà di canfore crescono in China, nel Giappone e nell’isola di Formosa...

– Zitti!... – esclamò in quell’istante il soldato. – Qualcuno si avvicina.

– Degli uomini? – chiese il signor Held, armando precipitosamente la carabina.

– No... un animale... guardatelo! Mille vascelli!... Si direbbe un piccolo elefante!...