I suicidi di Parigi/Episodio terzo/X

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Episodio terzo - X. Il duca di Balbek

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X.

Il duca di Balbek.

Il duca di Balbek era guardia del corpo.

Un servizio reso a due sovrani ne aveva fatto un diplomatico.

La condiscendenza di un ministro, suo parente, si era prestata a far destinare questo diplomatico all’ambasciata di Parigi.

Il favore e la compiacenza avevan potuto conferire la funzione, ma non crear l’uomo.

A quell’epoca, re Comodo era in delicatezza con la Rivoluzione di luglio.

Di tutti i principi, quegli che meno conosceva la Francia era quel re. Quegli che la conosceva peggio, era il suo ministro — il quale l’aveva vista ai più bei tempi della luna di mele di madama de Cayla.

Re e ministro s’immaginavano una Francia, in cui le Maintenon e le Pompadour menavano ancora gli affari, il governo, il re; bistrattavano i suoi consiglieri e davano del tu alla politica.

Essi facevano questo sorite mirobolante: a Parigi, la donna è regina; quale che siasi la sua condizione, però, ella à un signore. Ammesso l’aforismo che: fœmina quid quid est propter uterum est, il padrone che mena la donna mena per conseguenza la Francia. Se mandiamo dunque colà un bel giovane, suddito di S. M. Comodo V, che s’impadronisca dello spirito di quelle regine che regnano e governano, S. M. Comodo V sarà di fatto re di Francia.

Esaltati da questa logica, re Comodo V ed il principe di Celle videro nella nomina del duca di Balbek all’ambasciata di Parigi, non solo il prezzo di un servizio reso, ma un atto di eccellente politica.

Il duca di Balbek si recò dunque alla Corte delle Tuileries con la missione di fare della diplomazia di alcova; [p. 270 modifica]di preoccuparsi poco dei ministri, molto delle loro ganze, delle ganze-padroni, e delle padronesse dei padroni. Tutta la sua abilità doveva consistere nella scelta, ed, al peggio andare, in salvar la capra ed i cavoli: divenire il favorito di tutte senza offenderne alcuna!

Munito di queste istruzioni ad aures, il duca di Balbek giunse a Parigi.

L’altitudine delle sue funzioni lo inebriava.

Gli si avrebbe potuto augurare un poco più di penetrazione, uno spirito più pronto e più fino, un’istruzione più sostanziale, delle maniere più scelte, un’aria da più gran-signore. Ma, a parte ciò, e’ non poteva negarsi che il duca non fosse bravamente attagliato alla sua parte.

Lo si addimandava, nei saloni: l’Antinoo! È vero che si soggiungeva: dell’Auvergne! Ma che importa! dell’Auvergne o della Bauce, un bell’uomo è sempre un bell’uomo.

Il duca era il meglio pettinato di tutti quei signori del corpo diplomatico. Alcuno non portava come lui un abito assestato alla vita. Aveva inventato un taglio di collarini che aveva messo in frega il jockey-club. Il nodo della sua cravatta era l’avvenimento di tutti i giorni — e formava la disperazione dello stesso M. de Talleyrand, che viveva ancora, ed aveva sempre, come si sa, delle grandi pretensioni su questo arnese. Si occupava con assiduità della riforma del cappello — ed uno de’ suoi attachés andava giornalmente alla biblioteca Richelieu per consultare, al proposito, i classici greci e romani.

I suoi mustacchi lunghi e folti, sur una faccia pallida, gli meritavano la più profonda considerazione dei segretari e degli attachés di ambasciate in massa: un segreto doveva nicchiare in fra quei peli! Che vi pare?

Di più, il duca di Balbek era poeta. I gesuiti gli avevano insegnato a manipolare un epigramma latino ed un acrostico greco — per fino una barcarola. Meglio ancora, egli sapeva far della cucina, come danzava la gavotte — ed il fu nostro illustre amico, Dumas padre, gli doveva la ricetta della sua famosa insalata ai trentasette ingredienti.

Possedeva, oltre a ciò, copia di piccole abilità di società per divertire le dame alla campagna. Tagliava nella carta [p. 271 modifica]degli arabeschi deliziosi; immaginava delle sciarade in azione; inventava dei piccoli giuochi; guidava il cotillon, introducendovi mille graziosi scherzi; eseguiva una moltitudine d’ingegnosi tours con le carte, e faceva delle audacissime manipolazioni con esse — perchè le sue mani erano più svelte che il suo cervello.

Come non lo si sarebbe adorato?

Al turf e’ non restava indietro ad alcuno.

Giuocava poi con audacia, e mangiava come un vescovo.

Per un’ex guardia del corpo, egli era forse un po’ mal pratico di armi e del maneggiarle. Ma egli sapeva dissimulare questo difetto nella sua corazza, usando mediocrissimamente del suo spirito, poco aguzzato, e mostrandosi, a proposito, poco versato nella comprensione delle malizie della lingua francese.

Del resto, aveva grande cura della dignità della sua persona; nascondeva i suoi colpetti con abilità; usava della più delicata discrezione; portava benissimo la testa alta nelle circostanze segnalate; onorava il suo nome e la sua buona nascita; rispettava le convenienze e le apparenze; non usciva mai dal medio dei suoi eguali; non perdeva giammai la calma; e sapeva forse darsi, come Enrico IV, il sangue freddo nel pericolo.

Il duca di Balbek fece sensazione al suo apparire nei saloni di Parigi. Non conoscendo ancora il suo teatro, seppe dissimulare. La sua mal pratica passò per riserbo; i suoi difetti per originalità.

Eccetto quel lampo della regina Bianca — che era passata innanzi agli occhi suoi come una visione — egli aveva bazzicato fin qui delle bellezze da caserma. Le dame del suo paese gli avevano mostrato il sesso, ma non gli avevano rivelato la donna. Restò dunque abbagliato, quasi stupidito, quando nei saloni di Parigi, si trovò faccia a faccia con quell’irradiamento formidabile. I suoi vantaggi fisici gli appianavano la via: il fiore tendeva il collo al giardiniere per essere colto!

La sua avvenenza era di quella che stupiscono l’anima e turbano il sangue. La giovinetta vaneggiava; la giovane donna ammirava; la donna tra i trenta e quarant’anni bruciava: raggio pel cuore; torcia per la carne. [p. 272 modifica]

Il duca non potè però scegliere.

Doveva amare secondo gli spacci in cifre che riceveva dal suo ministro degli affari stranieri — a cui egli pingeva la galleria di quelle sultane. Gli toccarono dunque due donne mature, che passavano per onnipotenti alla Corte e nella massoneria diplomatica.

Ma con ciò, quelle tigri affamate di carne fresca erano gelose.

Per respirare un profumo di giovinezza, Balbek volle ammogliarsi.

Quelle pieuvres gli gittarono fra le braccia una vergine!

Esse sapevano ciò che facevano.

Un chiaro di luna, a quell’uomo che aveva sete del sole dei Tropici!

L’innocenza di Vitaliana non fu dunque per lui un’antitesi, ma una deluizione. Psiche faceva comprendere Medea. Ebe sottolineava Arianna.

Questa politica di femmina riescì. Il signor di Balbek amò sua moglie come una giovane sorella, e la trovò scipita. Si limitò allora a rispettarla moltissimo, a venerarla quasi — talmente la ingenua ignoranza di lei glie ne imponeva!


In quella specie di crepuscolo dal cuore e di spossamento forzato dei sensi, senza piacere, senza incanto, senza visione, Morella si presentò.

Se il duca non era stomacato delle sue ganze di quarant’anni, ne era per lo meno sopraffatto. Il suo palato, dalla forte tempera, poteva gustare quelle dapi pimentate; ma quel pimento solo, quel pimento sempre, aveva finito per attutirlo — tanto più che quelle Saffi politiche lo avevano compromesso, e, lungi dall’aiutarlo nel far gli affari del suo sovrano, si erano servite di lui per avanzar quelli del cardinale Lambruschini.

Un riposo s’imponeva fatalmente.

Vitaliana non aveva imparato — come quasi tutte le donne della serafica legione — che ella doveva essere non la moglie ma l’innamorata di suo marito.

La politica interna per la gaiezza dei lari domestici l’è in codesto. E, codesto è tutta la scienza del cuore, quantunque non ne abbia le specie. [p. 273 modifica]

In quello stato di nausea morale e fisica, il possesso di Morella sembrò al duca una resurrezione. Usciva dalla tomba delle sue cortigiane da stufa, alla pelle rinzaffata, cui era mestieri osservare ad una luce sapientemente moderata, e menar ventre a terra, senza contare le tappe.

Qui la parte cangiava.

Il duca amava.

Fin là, lo avevano amato e carezzato.

E’ si ritrovava uomo adesso, giovane, al suo posto. L’amore aveva delle angosce e delle delizie vere, delle esigenze spontanee: il fiore dava il suo olezzo e non andava a cercare una gocciola di essenze agli alberelli del profumiere.

Morella rilevava da lui.

E poi, che di giovinezza, che di freschezza! Come quelle labbra dovevano rimbalzare! Come quei denti dovevano mordere ed infiltrar nella piaga della scintilla degli iddii! Come quegli occhi insolenti provocavano, tramandavano un effluvio di voluttà, si spegnevano dolcemente nel languore dell’amore, scoppiettavano una bufera insensata! Quale féerie quella maga andava dessa a svolgere?

Qui l’antitesi esisteva.

Morella resisteva.

Ella sapeva ciò che portava in quella comunione d’incanti.

Bisognava conquistarla, perchè la non si dava: la s’insorgeva. Ella poteva scegliere. Il principe di Lavandall non era forse ai suoi piedi?

Per Morella, Balbek entrava poi nei misteri di quella vita parigina, di cui aveva letto tante cose nei romanzi, udito tanti racconti mostruosi di grandezza e d’infamia. Quel precipizio del mondo opaco parigino à delle vertigini di angelo, delle stigmate di demonio, ove il malescio soccombe, il forte si ritempera e dice, rialzandosi: ò vissuto!

L’avvenire resta solcato di questi fulmini. L’anima à fissato i suoi vaneggiamenti. Per Morella, Balbek — quel guardia del corpo smarrito — riceveva il suo battesimo del mondo. Faceva le sue prove per divenir rosacroce. Entrava nella fossa ai lioni.

Morella si apriva innanzi a lui come un abisso che l’assorbiva. Era il soffio del ciclone che lo menava via, o l’attrazione magica dell’amore che l’incendiava del suo alito? [p. 274 modifica]

D’altronde, tutto era stato preparato con squisita scienza: l’incontro, l’attitudine di Morella, il desiderio acuminato dell’emulazione, il dispetto spronato dal disdegno, la gelosia distillata prima dell’amore. Quel cavaliere, che sembrava tutto armato d’acciaio e si credeva corazzato, si sentiva d’incontro ad una spada che forava le sue ferraglie come un corpetto di velluto.

Molte volte egli aveva, per lo innanzi, abbrividito — sospettando di essere stato preso in una rete infernale di amore — ma aveva poscia guizzato infra le maghe.

Eccolo adesso nella rete agli anelli di ferro di Vulcano, dalla quale Marte istesso non si spastoia.

Riassumiamo.

Quel diplomatico d’avventura giungeva a Parigi ingenuo; con delle idee ingenue; disarmato; al disotto del suo ufficio; il capo zeppo di illusioni. Delle donne spossate si erano servite di lui per attingerne una trasfusione di sangue giovane ed ossigenato, e lo avevano svaligiato dei suoi sensi. Dopo questa prova, e’ si trovava: il corpo assopito, l’anima esaltata, la devastazione nello spirito, il vuoto nel cuore, adorando sua moglie come una madonna, a ginocchio innanzi ad una cortigiana che lo acciuffava della mano glaciale della fatalità.

Il duca di Balbek fece a Morella tre visite. Ebbe con lei tre lunghi colloqui — ove la sua esaltazione, un po’ teatrale da prima, aveva finito per pigliar le proporzioni della demenza.

Morella non l’incoraggiò, ma lo disperò — facendogli leggere i biglietti che il principe di Lavandall le scriveva, tre volte al dì, dichiarandole che l’amava... a credito illimitato!

Alla fine, essa capitolò e disse:

— Voi lo volete, signor duca? sia pure. Ma ascoltatemi e ricordatevi questo qui.

— Se me ne ricorderò!

— Io ò dei bisogni di regina. Amore, piacere, ambizione, aspirazioni, lusso, follia... io sento tutto, do tutto, impongo tutto, esigo tutto senza limiti. Chi vuol di me, deve essere tutto a me — che io lo inabissi nel baratri o che lo innalzi nel cielo. Avete voi delle ali, signore? Io mi chiamo vertigine. Io non conto col tempo. Di tutte la cose, io addiziono l’intensità. [p. 275 modifica]

— Tu ài ragione.

— Voi dovrete conoscere la storia di quel banchiere tedesco, che — avendo ricevuto Carlo V in casa sua — allumò il fuoco della camera imperiale con le lettere di cambio firmate da S. M. e ne intrattenne le fiamme con legno di cannella. Io farnetico di Carlo V. Gusto forte il banchiere. Se vi spaventate, gli è ancor tempo di ritirarvi.

— Tu credi, bella mia?

— Ciò vi riguarda. M’àn narrato che la nobiltà del vostro paese vive tutto un anno di un uovo — e si nutrisce di eccellenza! Io, io arrabbio per un beefsteak, il quale sanguini una miniera di Siberia. Ed al dessert, se l’è d’uopo... l’aspide di Cleopatra in un piatto di fichi di Corinto! Dite, siete voi pronto a tutto, signor duca? Nella coppa che io allestisco vi saran forse delle perle fuse... ma chi la cionca, si sente dio di poi. Dio per un’ora! Vi par desso corto e troppo caro?

— Morella — rispose il duca con una voce resa solenne dalla disperazione o dall’estasi — mi dimandassi tu i capelli di mia moglie, io glieli taglierei per farne un cuscino ai tuoi piedi.

Morella, di un colpo di mano, sciolse le sue treccie, ed inondò il duca di una capigliatura che avrebbe meritato di essere allogata fra gli astri — come la chioma di Berenice. Il contatto, il profumo, l’elettricità di quelle ciocche febbrili fecero abbrividire il duca — che le baciò e vi si soffuse.

— Guarda, se io ò bisogno dei capelli di tua moglie — disse ella. D’altronde, essi non son mica dello stesso colore che i miei — soggiunse Morella ghignando — per farmene delle false trecce.

— Tu ài messo le tue condizioni, Morella — rispose il duca. Io le accetto. Ascolta le mie, adesso. Esse si riassumono in tre parole; io sono geloso! Tu mi divorerai, senza dubbio; ma forse pure io ti ucciderò.

Morella saltò impiedi e si strinse la testa del duca sul petto.

— Tu sei un uomo! — gridò dessa. Io ti amerò.

Il duca impallidì, e si alzò a sua volta, attirandosi Morella nelle braccia.

Ella si svincolò, facendo un salto indietro, e disse con solennità: [p. 276 modifica]

— Qui... no. Io non sono mica un’adultera! Tutto quanto tu vedi in casa mia appartiene ad un altro. Metteresti tu una livrea cui io ò gittata ai cenci vecchi?

— Un altro? — domandò Balbek, aggrottando le sopracciglia. Chi dunque?

— Signor duca, — rispose Morella, sedendo, — sappiatevelo, fin dal bel prima. In casa mia, due cose sono incognite: il passato ed il padrone. Non vi volgete indietro per cercar dei fantasimi, liquefatti, fusi nello spazio. Guardate innanzi a voi, procurate di ricamare un avvenire per quanto potrete più luminoso, ed obbedite. D’altronde, se io vi fo la parte che taglio a me stessa; se v’incateno al mio proprio destino — che sia un trono di astri o un desinare di arsenico — di che vi lamentate voi dunque?

— Di che?

— Sì: di che? Voi venite. Io non vi chiamo, per Dio! Ma bandite le nuvole dalla vostra fronte: voi entrate in un cuore nuovo. Gli uomini che lascian ruine sono pochi; che devastano, son rari.... Ed io non ne ò quasi conosciuto. Tutto al più, se ne intraveggo uno dopo il ballo dei giorni scorsi.

Il duca, comprendendo l’allusione, uscì precipitosamente.

Egli era di già preso nell’addentellato, e portava via la freccia nella ferita.

Morella respirò e ricadde sul canapè come affranta di fatica. La sua parte eccedeva. Poco dopo, ella si assise ad una tavola, e scrisse a M. di Linsac:


«Cher ami, lo tengo. Che volete che ne faccia? Un misero? lo è di già. Un disgraziato? gli è impossibile — poichè debbo lasciargli pigliare l’amore di cui paga il prezzo. Egli è sciocco, ma giovane, bello e confidente.

«Fate attenzione!

«Ciò potrebbe disarmarmi — ed avendo cominciato dal giocare le vostre carte, potrei finire per giocare le mie.

«Gli è dunque indispensabile che io sappia dove andiamo, non fosse che per accorciare la via. Ove volete voi arrivare? Condurlo all’inferno per la strada del paradiso — ciò che io dovrei fare — mi sembra una ispirazione di troppo degni briganti. Voi non potete voler codesto. Che volete voi dunque? Che debbo io fare? [p. 277 modifica]

«Io sloggio. Ti lascio qui i tuoi ninnoli ed il tuo legname per la tua nuova pensionaria.

«Morella».


Il giorno stesso, il duca di Balbek si mise a correr Parigi per trovare una nicchia a Morella.

Fece dei miracoli di attività — e lo si capisce del resto.

Comprò a nome della contessa Morella di Miraflores una palazzina nel rione di Beaujon — civettuola come un’ingenua e quasi nascosta nei boschetti d’alberi; in una strada che si chiamò più tardi dal nome di quel sovrano dei romanzieri di tutti i tempi e di tutti i paesi: Balzac! Il mistero gli conveniva; perocchè la cattiva azione cui commetteva lo fascinava ma gli pesava.

Il giorno seguente, uno dei primi tappezzieri di Parigi mobiliò la palazzina con eleganza e ricchezza, e v’installò una fante ed un’eccellente cuoca del Perigord.

Il duca, dal canto suo, comprò un piccolo coupè ed un pony irlandese — i due formando un veicolo simile ad una rondine — e di cui un bel cocchiere inglese incipriato moderava l’ardore.

Il duca non aveva quella sessantina di mille franchi cui spendeva in ventiquattro ore. Il suo feudo di Balbek, come il nome lo indica, era in partibus infidelium: una sovvenenza anzi che una rendita. Gli onorarii di ambasciatore, oberati di spese, non oltrepassavano i 100,000 franchi. Egli spendeva molto usando senza limite del credito parigino — uno dei più allocchi crediti europei.

Il dottor di Nubo venne in suo soccorso in questa lotta titanica del desiderio contro l’ostacolo di una cassa vuota, e la riempì del danaro degli usurai.

Madama Augusta Thibault fu il banchiere misterioso del dottore, il quale, prestando il suo nome, toccò un doppio sconto.

Questo sforzo di volontà, sostenuto da un concorso amichevole, ebbe un pieno successo.

Alle quattro, tutto era pronto per ricevere la fata del luogo. Di guisa che, alle cinque, lo zio Pradau — insediato di già a cameriere del duca — potè portare alla contessa Morella di Miraflores la lettera seguente — scritta dal suo padrone, ma ispirata probabilmente dal dottore. Impercioc[p. 278 modifica]chè, quelle delicatezze non erano nè nello spirito nazionale, nè nel carattere, nè nell’educazione, nè nella tempera dell’anima del giovane diplomatico.


«Madama la contessa, il vostro notaro, maitre Tressard — via di Provenza, 54 — mi à favorito or ora l’indirizzo del vostro hôtel, e mi apprende che voi vi pranzerete stasera. Volete voi, madama, farmi l’onore di serbarmi un posto alla vostra tavola? Avrei gran piacere di baciarvi la mano — ed è la sola ora della sera di cui posso disporre. Tolgo ad imprestito il vostro coupé per andarvi a pigliare.

"Ai vostri piedi, madama.

"Carlo de Balbek."


Leggendo questa lettera, un sorriso raggiante illuminò il sembiante di Morella. Quell’ouate di acciaio sembrava tocca!

Era forse l’interesse? Mai no. Era l’artista che godeva del suo trionfo. Era l’amor proprio che cantava nel suo cuore.

Divinità terribile! delle vittime umane s’immolano sul tuo altare.

In quell’istesso istante, la cameriera entrò e le rimise una lettera di Sergio di Linsac — imprudente per un aspirante diplomatico — in cui egli rispondeva con queste due parole sinistre:


«Continua. Sempre innanzi, e non guardar indietro a te. Ecco tutto.»


— Sempre innanzi! — mormorò Morella lentamente. Fino al bagno o alla pistola del suicidio? Sia. Bah! Non è desso un assioma convenuto che noi altre siamo delle infami?