Il Quadriregio/Libro primo/XVI

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XVI. Del reame di Venere, e come le ninfe del medesimo reame dispiacquero all’autore, perché usavano atti disonesti d’amore; onde Venere il menda ninfe piú oneste, ma piú piene d’inganno

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Federico Frezzi - Il Quadriregio (XIV secolo/XV secolo)
XVI. Del reame di Venere, e come le ninfe del medesimo reame dispiacquero all’autore, perché usavano atti disonesti d’amore; onde Venere il menda ninfe piú oneste, ma piú piene d’inganno
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CAPITOLO XVI

Del reame di Venere, e come le ninfe del medesimo reame dispiacquero all’autore, perché usavano atti disonesti d’amore; onde Venere il menò a ninfe piú oneste, ma piú piene d’inganno.

     Chi di Venus ben vuol saper il regno
com’è disposto, sguardi pure agli atti;
ché ogni balla si conosce al segno.
     Come gli uomini sonno dentro fatti,
5nell’opera di fuor si manifesta:
quella è che mostra i saggi ed anco i matti.
     Poiché passata avemmo una foresta,
io vidi il regno suo piú oltra un poco
e gente vidi quivi in gioia e festa.
     10Ed in quel regno quasi in ogni loco
eran distinte ninfe a sorte a sorte
in balli e canti ed in solazzi e gioco.
     Quando si funno di Ciprigna accorte:
— Ecco la nostra dea— dissono alquante,—
15che torna a suo reame ed a sua corte.—
     Ben mille ninfe allor venneno avante,
di rose coronate e fior vermigli,
vestite a bianco dal collo alle piante.
     E de’ loro occhi e dell’alzar de’ cigli
20Cupido fatto avea le sue saette
e l’ésca, con la qual gli amanti pigli;
     ché quelle vaghe e belle giovinette
con que’ sembianti moveano lo sguardo,
che fa la ’manza che assentir promette.
     25Non era lí mestier pregar che ’l dardo
traesse dio Cupido a far ferita
o ch’egli al suo venir non fosse tardo;

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     ch’ognuna mi parea che senza invita,
solo al mirar e ad un picciol cenno,
30che nella vista sua mi dicesse:— Ita.—
     Poiché diversi balli quivi fenno
’nanti a Ciprigna con canti esquisiti
e misurati suon con arte e senno,
     io vidi dame e vidi ermafroditi,
35uomini e donne insieme, venir nudi,
ove natura vuol che sien vestiti.
     Al viso con le man mi feci scudi
per non vedergli; ond’ella:— Perché gli occhi
— mi disse— colle man cosí ti chiudi?—
     40Risposi a lei che gli atti turpi e sciocchi
e ciò che vuol natura che sia occolto,
enorme par che ’n pubblico s’adocchi.
     Ed ella a me:— Un luoco dista molto,
ove tengo mie ninfe tanto oneste,
45che, solo udendo amor, le arroscia il volto;
     talché, quando Diana fa sue feste
o va alla caccia tra luochi selvaggi,
spesso vuole che alcuna io gli ne preste.
     Li sta la ninfa, la qual voglio ch’aggi,
50la qual, perché non gissi, io ti mostrai
a lato a me tra gli splendenti raggi.—
     Partissi allora, ed io la seguitai
insino a quelle, e di tant’eccellenza
Natura ninfe non formò giammai.
     55Né Fiandra, né Roma, ovver Fiorenza,
né leggiadria giammai che di Francia esca,
mostrâro ninfe di tant’apparenza.
     D’una di quelle Amor mi fece l’ésca
ad ingannarmi, e fui preso sí come
60uccello o all’amo pesce che si pesca.
     Venere Ionia la chiamò per nome.
Allor dall’altre venne la donzella
con la grillanda su le bionde chiome.

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     E, come va per via sposa novella
65a passi rari e porta gli occhi bassi
con faccia vergognosa e non favella,
     cosí la falsa moveva li passi
per ingannarmi e, quando mi fu appresso,
mi riguardò; ond’io gran sospir trassi.
     70Venere disse a lei:— Io ho promesso
a questo giovinetto che ti guide:
a lui ti diedi ed or ti dono ad esso.—
     Sí come putta che piangendo ride
per ingannar, cosí bagnò la faccia,
75dicendo:— O sacra dea, a cui mi fide?
     In prima, o Iove, occidermi ti piaccia;
in prima, o Citarea, voglio morire,
che alcun uomo mi tenga tra le braccia.—
     E per podermi ancor meglio tradire,
80’sciuccava gli occhi a sé con li suoi panni,
nel cor mostrando doglia e gran martire.
     Chi creso arebbe che cotanti inganni
e tanta falsitá adoperasse
ninfa, che non parea di quindici anni?
     85Io pregava Cupido che tirasse
contro di lei omai il suo fiero arco
e che al mio voler la soggiogasse.
     Ed io il vidi col balestro carco
nell’aer suso in uno splendor chiaro,
90e ferirla mostrò con gran rammarco.
     Non fe’ all’Amor la ninfa piú riparo,
ma il capo biondo sul mio petto pose
e che io l’abbracciassi mostrò caro.
     Allor Venus di rosse e bianche rose
95a lei ed anco a me risperse il petto;
e poi sparí come ombra e si nascose.
     Quand’ella vide me seco soletto,
cosí mirava intorno con sospiri
come persona, quand’ella ha sospetto.

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     100— Perché, o ninfa mia, intorno miri?

— diss’io a lei.— Deh! alza gli occhi belli,
che hai nel viso, quasi duo zaffiri.
     Perché stai timorosa e non favelli?—
Allor alzò la faccia a me e parlommi,
105’sciuccando gli occhi a sé co’ suoi capelli.
     — Pel sommo Iove e per li dèi piú sommi
per l’aere e ’l cielo, il qual nostr’amor vede,
pel duro dardo il qual gittato fommi,
     ti prego, amante, che mi dia la fede
110che non m’inganni e che vogli esser mio,
da ch’io son tua e Venus mi ti diede.
     Or ti dirò perché ho sospetto io:
qui stan centauri e fauni incestuosi,
turpi in ogni atto scostumato e rio.
     115E stanno tra le selve qui nascosi,
e qui la ’Nvidia maledetta anco usa
con sue tre lingue e denti venenosi.
     Ed io temo lor biasmo e loro accusa;
però pavento, e sai che colpa occolta
120innante ai numi e al mondo ha mezza scusa.
     Però, acciò che teco non sia còlta,
prego che la partenza non sia dura
a te, né anco a me per questa volta.—
     Un monte mi mostrò e:— Su l’altura
125— mi disse sta un boschetto; io lí verraggio
a te, quando la notte sará oscura.—
     E, perché ’l suo consiglio parve saggio,
io me partii; ma prima li die’ il giuro
d’amarla sempremai con buon coraggio.
     130Ed ella del venir mi fe’ sicuro.
Cosí n’andai; e, quando al loco fui
colla speranza del venir futuro,
     dissi pregando:— O Febo, i corsier tui
movi veloci verso l’occidente,
135perché piú ratto questo dí s’abbui.

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     E tu, Atlante, il ciel piú prestamente
movi coll’alte braccia e grandi e forti,
perché la notte giunga all’oriente.
     O cerchio obliquo, che i pianeti porti,
140fa’ sí che entri il sole in Capricorno,
che sia la notte lunga e il dí raccorti,
     acciò che tosto passi questo giorno
e venga Ionia, che venire aspetta,
quando sia notte, meco a far soggiorno.
     145Io benedico il foco e la saetta,
o dio Cupido, col qual m’hai ferito;
e la tua madre ancor sia benedetta,
     che, quando con Minerva insú er’ito,
per me avvocò ed ella mi ritorse;
150ed ella ha fatto ch’ancor t’ho seguíto.
     E qui al suo reame ella mi scorse
ed hammi data Ionia, e che a me vegna
n’aggio speranza senza nessun forse,
     e spero in te e ’n lei che mi sovvegna.—