Il Quadriregio/Libro terzo/VI

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VI. Dichiarasi come l’invidia si oppone alla virtú

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Federico Frezzi - Il Quadriregio (XIV secolo/XV secolo)
VI. Dichiarasi come l’invidia si oppone alla virtú
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CAPITOLO VI

Dichiarasi come l'invidia si oppone alla virtú.

     Mentr’io admirando stava stupefatto,
vidi quegli uomin guasti rifar sani
e nelli membri interi ed in ogni atto.
     E poi vidi venir ben mille cani,
5latrando contra loro inseme in frotta,
mordaci e grandi piú che cani alani.
     Come in la mandra fa la lupa ghiotta,
che morde e guasta ed anco uccide e strozza;
cosí facean quei can di quegli allotta.
     10Quale rimane ai lupi alcuna rozza,
cosí li vidi rosi, e sí rimasi
e cogli occhi cavati e lingua mozza,
     e senza mani e piedi e senza nasi,
e sviscerati e le budella sparte,
15e col cor dentro roso e petti spasi.
     Io vidi un, ch’era guasto in ogni parte;
al qual io dissi:— Prego che mi dichi
chi fusti, e vogli a me appalesarte.
     — Io fui al tempo de’ romani antichi
20— rispose quello,— che Roma a ragione
visse in virtú e cogli atti pudichi.
     Fui con molt’altri contra Scipione:
ah, invidia, nemica di virtude!
ah, invidia, ch’a bontá sempre t’oppone!
     25Non valse a lui mostrar le membra nude
pien di ferite in ragion delle spese,
che richiesono a lui le lingue crude.

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     Non valse a lui mostrar che ne difese;
e che, s’egli non fosse, dir non valse,
30sarian le roman case state incese;
     ché, quando per virtú in gloria salse,
allor l’Invidia, per tirarlo a basso,
contro lui mosse mille lingue false.
     Ond’egli fuor di Roma mosse il passo,
35dicendo:— O madre ingrata al figliol pio,
o patria invidiosa, ora ti lasso:
     tu non possederai il corpo mio.
Ed io, che parlo, fu’ il primo tra quelli,
ché invidia contro lui mi fe’ sí rio.
     40Però son posto qui alli fragelli,
che tu hai visti, e invidia ne tormenta
in quello che ne fe’ malvagi e felli.
     Iustizia fa ch’ognun di noi diventa
san nelli membri, e cosí fa rifarne
45almen nel mese delle volte trenta.
     E, come noi mangiammo l’altrui carne
sí come cani, e cosí per vendetta
da invidiosi can fa divorarne.—
     E giá la dea insú n’andava in fretta,
50ond’io partimmi e non gli fei risposta;
e, mentr’io andava per la strada incerta,
     trova’ una fossa occulta in la via posta,
e senza voglia mia il piè vi posi,
e caddi in terra alla sinistra costa.
     55Subito mille cani, ivi nascosi,
vennon contro di me con grandi gridi
e colli denti di cani rabbiosi.
     Ahi, quanto io ammirai, quando li vidi!
Ed anco ebbi timor di lor concorso,
60quando disseno:— Preso è; uccidi, uccidi!—
     Sí come il can quando è percosso e morso,
ch’ogni altro can gli abbaia e fagli guerra,
quando grida per doglia o per soccorso,

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     cosí la Invidia fa, quand’altri è ’n terra;
65e quando vede alcun condutto al laccio,
manifesta il venen che dentro serra.
     Io m’ingegnai di terra levar ’vaccio.
Mirabil cosa! Quand’io fui levato,
ognun fuggío e nessun mi die’ impaccio.
     70E giá, salendo, io era tanto andato,
che giunsi all’altra spiaggia inver’ ponente,
ove Avarizia tiene el principato.
     Ivi trovai fuggire una gran gente,
con sí gran furia, che l’un dava inciampo
75nell’altro per fuggir velocemente.
     Sí come quando in rotta è messo un campo,
che par ch’ognun disperso si dilegue
tra spini e fiumi e monti in loro scampo,
     e con la spada il vincitor li segue,
80forte correndo, e spesso avvien ch’un solo
mille giá messi in fuga ne persegue;
     cosí fuggendo andava quello stuolo,
tra ’l qual conobbi Bencio da Fiorenza,
che fu di Giorgio Benci giá figliuolo.
     85Io dissi a lui:— Un poco sussistenza
prego che facci e che di dir ti piaccia
perché fuggite voi, per qual temenza.—
     Rispose, andando e voltando la faccia:
— Donna sta qui, per cui fuggiam sí forte:
90ella col suo timor ne mette in caccia.
     In questa piaggia tien la brutta corte
ed è chiamata trista Povertade,
spiacente tanto, ch’appena è piú Morte.
     Per mezzo delle spine e delle spade
95noi la fuggiamo per ogni periglio,
per mezzo a’ fiumi e per l’aspre contrade.—
     Allor per veder quella alzai il ciglio
e dalla lunga vidi quella vecchia,
ch’è ostetrice prima ad ogni figlio.

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<poem>
     100Avea i peli canuti ad ogni orecchia;
è dispiacente sí, che a lei appena
la Morte in displicenzia s’apparecchia.
     Malanconia e fame seco mena;
e per suoi damigelli avea gaglioffi;
105e di miseria la sua corte è piena.
     E barattieri ha seco e brulli e loffi
e quelli a cui non fa bisogno punga,
e nudi che sospiran con gran soffi.
     Per questo van fuggendo tanto a lunga,
110e la fatica mai non li fa stanchi:
tanto han timor che costei non li giunga.
     Il loco, ove fuggíano, io mirai anchi
e vidi l’altra corte, dove vanno,
ove lor pare alquanto esser piú franchi.
     115Lí stava una regina in alto scanno
ed era grande in forma gigantea,
e vestita era d’oro e non di panno.
     E, benché fosse adorna come dea,
nientemeno avea volto lupardo
120e la sua vista traditrice e rea.
     Mentr’i’ a vederla ben drizzai lo sguardo,
io vidi cosa, ch’il creder vien meno;
ma io ’l dirò, e non sarò bugiardo.
     Vidi che della poppa del suo seno
125lattava e nutricava un piccol drago;
ma ben parea a me pien di veneno.
     Mentre el suggea desideroso e vago,
da quel, ch’egli era pria, si fe’ piú grande
che un grosso trave rispetto d’un ago.
     130Allor richiede aver maggior vivande,
ché tutto il latte, che la madre stilla,
non basta al grande iato, ch’egli spande.
     Però, affamato, prende la mammilla
e cava il sangue, e quel convien che suchi;
135e, perché è poco, il venen disfavilla.

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— Convien che ad altra preda ti conduchi
— disse colei:— o figlio, io non ti basto,
da che hai piú fame quanto piú manduchi.—
     Allora il drago, per aver il pasto,
140tra quelle genti rapace si mosse,
come fa il lupo tra le mandre el guasto.
     E, non sguardando qualunque si fosse,
or questo or quel divora e ’l sangue beve
colli suoi denti e coll’ultime posse.
     145E, s’egli cresce al pasto che riceve,
e quanto cresce, tanto ha piú appetito,
convien ch’ogni gran cibo a lui sia breve.
     Vidi poi il drago crudele ed ardito
venir ver’ me con sí grande tempesta,
150che di paura io sarei tramortito,
     non fusse che Minerva presta presta
a me soccorse, e tra lui e me si mise,
e, quando venne, gli tagliò la testa.
     Mirabil cosa! Sette ne rimise,
155e tutte e sette quelle teste nuove
anco la dea gli tagliò e ricise.
     Nacquene in lui ancor quarantanove;
e fu quell’idra, giá morta da Alcide,
quando nel mondo fece le gran prove.
     160Quando dea Palla di questo s’avvide,
che ogni capo ne rimette sette,
quantunque volte la spada il ricide,
     non con quell’arme piú gli resistette,
ma disse a me:— Qui è bisogno il foco:
165quest’è quell’arme ch’a morte lo mette.—
     Descender vidi allora su ’n quel loco
una gran fiamma, e quel serpente estinse
e féllo come pria diventar poco.
     In questo modo la mia scorta el vinse.