Il Re dell'Aria/Parte seconda/7. Il vascello fantasma

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Parte seconda - 6. Il tesoro di Trinidad Parte seconda - 8. I drammi del mare
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CAPITOLO VII.

Il vascello fantasma.

Quarant’otto ore dopo l’uccisione della balena, lo Sparviero, il quale era disceso sempre verso il sud con grande velocità, giungeva in vista di Trinidad, l’isola del favoloso tesoro.

Come quasi tutte le terre emerse nel seno dell’Oceano Atlantico, il gruppetto di Trinidad è di natura vulcanica e di difficile approdo, anche alle più piccole navi, essendo circondato di scoglietti pericolosissimi ed avendo le sue isole le coste quasi dappertutto tagliate a picco.

Esso si trova a circa trecento miglia al nord del Tropico del Capricorno e ad un migliaio di miglia a levante di Rio Janeiro, la capitale del Brasile.

Come già abbiamo detto altrove, è di formazione vulcanica al pari di Ascensione, di Picos, e d’altri isolotti, però non è assolutamente arida, anzi ha delle minuscole vallette verdeggianti.

Trinidad, che è la più grossa del gruppo, è lunga appena tre miglia e larga uno e mezzo, e malgrado i numerosi tentativi fatti dagli inglesi e dai brasiliani per colonizzarla, è sempre rimasta deserta e lo è ancora oggidì.

Solo di quando in quando vi approdano dei cacciatori per fare delle vere ecatombi di uccelli marini, specialmente di gabbiani, di procellarie, di sterne. [p. 298 modifica]

Quando lo Sparviero, dopo essere passato al di sopra di lunghe file di scogliere, si posò sulla vetta dell’isola chiamata Ninepin, la quale si alza in forma di torre per duecento e cinquant’otto metri, dominando le verdeggianti vallette del Sugar-loaf, immense nuvole di gabbiani si precipitarono sul fuso, starnazzando furiosamente le ali.

Erano parecchie migliaia e parevan tutti furibondi e pronti a dare anche battaglia, avendo sulla piattaforma di quella gigantesca torre i loro nidi. Una scarica di fucili, eseguita da Rokoff e da Fedoro, mise in fuga tutti quei poco pericolosi volatili e lo Sparviero potè adagiarsi tranquillamente sul picco, non senza schiacciare, colla carena, parecchie centinaia di uova.

— Siamo dunque sulla terra del tesoro, — disse Rokoff, balzando sulla roccia armato di fucile, temendo un nuovo attacco da parte dei battaglioni alati.

— La caverna dei corsari non è che a pochi passi da noi, — rispose Ranzoff. — Si apre lungo la parete occidentale.

— Io credo però che questi volatili ci daranno non poche noie prima di giungervi, — disse Wassili. — Si direbbe che si sono costituiti difensori del tesoro.

— Li fucileremo, amico. Liwitz, i nostri fucili da caccia. —

I gabbiani, le starne bianche, le procellarie, i dysporus piscator, ai quali si erano perfino uniti alcuni grossi albatros, dal becco robustissimo, si preparavano infatti a difendere, se non il tesoro, i loro nidi.

Giungevano nuovamente alla carica, a reggimenti, con un gridìo assordante, sbattendo le loro ali sui volti degli intrusi, cercando di acciecarli.

Nessuno, fino allora, aveva visto tanto accanimento da parte di volatili relativamente piccoli. I meno coraggiosi erano invece i grossi albatros, i quali si tenevano prudentemente dietro alle falangi, accontentandosi di manifestare la loro indignazione per quella violazione di domicilio, con sonori ragli.

— Si direbbe che qui vi sono degli asini, — disse Rokoff, sparando in mezzo alla nuvolaglia pennuta.

Ranzoff, i suoi amici e anche i marinai si erano messi pure a sparare all’impazzata, seccati da quelle noiose manifestazioni, più rumorose che altro, poichè tutti quei volatili non osavano assalire direttamente gl’intrusi.

Nondimeno gli esploratori dovettero compiere, loro malgrado, un vero massacro prima di sbarazzarsi di quegli importuni. [p. 299 modifica]

Dopo aver percorso un centinaio di passi, camminando su dei veri strati di uova, anzi su delle gigantesche frittate, — come diceva scherzando Rokoff, — raggiunsero l’orlo occidentale della piattaforma.

Una splendida veduta si offerse tosto agli sguardi degli esploratori.

L’oceano si stendeva dinanzi a loro, scintillante sotto gli infuocati raggi di sole che cadevano quasi a piombo, percorso solamente da miriadi di uccelli marini, folleggianti sulle creste o nei cavi delle eterne ondate dell’Atlantico.

Al sud si delineava nettamente, sul luminoso orizzonte, l’isola di Martino Vaz, col suo contorno di scogliere e le sue rocce imponenti e quasi inaccessibili.

Più oltre sporgevano dall’acqua miriadi d’isolotti minuscoli, ormai corrosi, impiccioliti, dall’azione incessante dei cavalloni.

Un’aria purissima, vivificante, impregnata di salsedine, giungeva a piccole raffiche fino sulla cima della piattaforma, dilatando i polmoni.

— Ecco un posto meraviglioso, — disse il cosacco, che non stava mai un momento zitto. — Non mancano nè uccelli, nè frittate. Che cosa potrebbe desiderare di più un Robinson?

— Un fedele Venerdì e degli antropofaghi che gli guastino i sonni, — disse Fedoro.

— Che cos’è questo Venerdì?

— Il servo di Robinson Crosuè.

— Ah!... Io non me ne intendo di queste cose. Quel signore è sconosciuto nella steppa.

— Scendiamo per di qua, — disse in quel momento Ranzoff, dopo d’aver osservato attentamente i cornicioni che si prolungavano in buon numero sotto il margine estremo, uniti fra di loro da una serie di canaloni. — Vedete la frana laggiù?

— Sì, — risposero ad una voce i suoi compagni.

— Liwitz, hai portato delle torce?

— Ne ho una mezza dozzina con me, — rispose il macchinista.

— Seguitemi e badate bene dove posate il piede, perchè chi cade ruzzolerà fino in mare e si fracasserà sulle scogliere.

— Se non verrà divorato dai pesci-cani, — aggiunse Rokoff, il quale aveva veduto emergere parecchie code in vicinanza degli scoglietti.

Sorreggendosi l’un l’altro e procedendo con mille cautele, scesero attraverso il primo canalone, raggiungendo felicemente la piccola piattaforma inferiore.

La frana che aveva coperto la caverna del tesoro, tante volte [p. 300 modifica] cercata e mai ritrovata dagli avventurieri di Knight, cominciava precisamente là.

Un enorme cornicione, corroso forse dalle acque o fatto saltare appositamente dai corsari, che nel 1820 avevano occupato l’isolotto, era rovinato, coprendo coi suoi detriti buona parte del lato occidentale del Ninepin.

— Adagio, amici, — disse Ranzoff, il quale apriva la via. — Se succede, sotto il nostro peso, un altro franamento, noi scivoleremo tutti in mare.

Il punto più scabroso da superarsi è questo. —

Si impegnarono in un secondo canalone, quasi ripieno di terra e di frammenti di roccia, e, dopo cinque minuti, raggiunsero un secondo cornicione, più largo del primo.

Il capitano dello Sparviero lo percorse per una dozzina di metri poi si fermò dinanzi ad un’apertura che aveva forse un paio di metri, di circonferenza.

— Liwitz, — disse. — Accendi le torce. —

Ne prese una, si gettò a terra e s’inoltrò carponi, seguìto da tutti gli altri.

Una galleria che pareva fosse stata aperta dalle braccia dell’uomo, s’apriva, bassa assai e anche molto stretta.

Era un vero miracolo se Rokoff, col suo corpaccio da orso nero, riusciva a passare.

Avanzatisi per una quindicina di passi; si trovarono in una vasta caverna naturale, abbastanza alta perchè anche un granatiere si potesse tenere comodamente in piedi, ed agli sguardi dei russi e del cosacco apparvero una ventina di grossi barili, colle doghe già ormai quasi fracide, attraverso alle cui fessure erano scivolate non poche sterline.

Ranzoff, che oltre al fucile, si era armato d’una piccola scure, vibrò sul più vicino un colpo formidabile.

Tosto una pioggia d’oro che strappò a Rokoff un alto grido di meraviglia, si sparse per la caverna, con un dolcissimo suono metallico.

— Vedete? — chiese Ranzoff colla sua solita calma. — Sono vere sterline, predate certamente a qualche nave inglese. In tre o quattro barili vi sono anche delle verghe d’oro purissimo, vero oro di miniera, rubato a qualche nave spagnola proveniente dai porti del Perù o del Chilì.

Sapevano far bene i loro affari quegli scorridori del mare. [p. 301 modifica]

— E perchè non sono venuti a ritirare questi barili? — chiese Fedoro.

— Avranno fatto naufragio o saranno stati appiccati ai pennoni di qualche incrociatore inglese, — rispose Ranzoff.

— Allora la storia del tesoro sarebbe rimasta ignorata, — osservò Rokoff.

— Può darsi che qualcuno sia riuscito a salvarsi o dall’acqua o dalla corda e che gli siano mancati i mezzi per intraprendere una spedizione fino a quest’isola.

Diversamente nessuno avrebbe potuto sapere più nulla.

— E quant’oro contengono questi barili? — chiese Wassili.

— Circa venticinque milioni di lire, — rispose il capitano dello Sparviero. — Abbiamo qui tanto da poter indennizzare largamente il baronetto e dividerci ancora un bel gruzzolo d’oro, che ci permetterà di vivere senza troppi fastidi.

— Dividere, avete detto! — esclamò Rokoff.

— È la parola esatta, — disse Ranzoff. — Vi dispiace forse, signor Rokoff?

— Anzi, capitano. Non riesco però a capire perchè voi pensiate a dividere; mentre questo mare d’oro dovrebbe appartenere esclusivamente a voi.

— Tacete, signor Rokoff. Fra amici non si deve quistionare.

Ciò che è detto è detto, è vero, Wassili? — L’ingegnere fece col capo un cenno di assentimento, accompagnato da un sorriso.

— E poi, — continuò il capitano dello Sparviero, — resterà a me un altro tesoro, non così grosso come questo e che mi sono impegnato di dividere col figlio del capitano Summers, se riuscirò a scoprirlo.

— Nascosto in un’altra isola? — chiesero ad una voce i tre russi ed il cosacco.

— Sì, amici, in un’isola che abbiamo già veduta. Mi viene anzi il sospetto che il barone di Teriosky sia andato a piantare il suo nido sull’Inaccessibile colla speranza d’impadronirsi anche di quello.

— Queste isole dell’Atlantico posseggono dunque tutte dei fiumi d’oro? — chiese Rokoff. — Sono verità o leggende?

— Ne avete qui una prova se sono leggende, — rispose Ranzoff. — Quello però di cui intendo parlare non è stato nascosto dai corsari atlantici.

È una storia curiosissima che io ho appresa dalla bocca istessa di Horward Summers, figlio dell’omonimo capitano. [p. 302 modifica]

— Tu dunque, senza volerlo, facevi concorrenza al barone nella ricerca dei tesori, — disse Wassili.

— È vero, amico e senza sapere di avere un formidabile rivale.

— Deve essere una storia molto interessante anche questa, — disse Fedoro.

— Stranissima, — rispose Ranzoff, — e che ho appresa in seguito ad un fortunato incontro fatto in America, a Jackson, alcuni anni or sono.

In quell’epoca io non pensavo affatto a perlustrare le isole perdute sull’Atlantico. Ma, in seguito ad una conversazione avuta con quel signor Summers, mi nacque l’idea, al pari forse del barone di Teriosky, di diventare anch’io cacciatore di tesori e non me ne sono pentito.

— E si vede dai fatti, — disse Boris.

In quel momento i sei marinai dello Sparviero entrarono nella caverna.

— Basterà per ora imbarcare un paio di barili, — disse loro il capitano. — Ne avrò abbastanza per assoldare degli avventurieri, se ne avrò bisogno, e anche per noleggiare una nave. —

Mentre i sei marinai, guidati da Liwitz, sfasciavano i due barili, empiendo di sterline dei grandi canestri che avevano con loro, il capitano dello Sparviero, il quale al pari dei suoi compagni si era seduto su un masso, aveva ripreso il suo racconto.

— Come vi dicevo, per una combinazione qualunque, avevo conosciuto un certo signor Summers, il quale, una sera in cui avevamo bevuto forse un po’ più del solito, mi fece la seguente interessantissima narrazione.

Suo padre era proprietario di un brik che chiamavasi l’Hark, ascritto al dipartimento di Filadelfia, e commerciava attivamente fra le isole Antilliane e le città dell’America del Sud.

Nel 1858 faceva ritorno da una lunga crociera alle Indie Orientali quando, appunto a Filadelfia, s’imbattè in un vecchio camerata, il capitano Handerson. Sapendo che era senza imbarchi, questi gli offriva il posto di secondo di bordo e partirono insieme pei mari del Sud.

Era quella l’epoca in cui gli Stati Uniti del Nord muovevano una guerra terribile a quelli del Sud, per costringere questi ultimi a finirla una buona volta colla schiavitù dei negri.

Summers, da buon patriotta, ritornava verso il settentrione per offrire i suoi servigi al suo governo e anche la sua nave, quando una furiosa tempesta lo sorprende in mezzo all’Atlantico. [p. 303 modifica]

L’Hark, sconquassato dai marosi e mezzo disalberato, viene cacciato verso levante, in direzione di Tristan d’Acunha.

Per sette giorni la nave, sbattuta da continue tempeste, erra a casaccio, quando compare all’orizzonte un incrociatore degli Stati del Sud.

Scorgere il brik e mettersi subito in caccia per catturarlo è l’affare d’un momento.

Summers che possedeva, chiuse in una cassa, trentacinque mila sterline, fa sforzi disperati per sfuggire all’inseguimento e riesce a raggiungere una minuscola baia che era chiusa da un tal numero di scogliere da togliere all’incrociatore sudista ogni desiderio di cacciarsi anche lui là dentro.

Disgraziatamente l’Hark non poteva avanzarsi molto, in causa di tutti quegli ostacoli.

Summers chiamò il suo secondo e gli disse:

— Io tengo nella mia cabina una cassa contenente 35.000 sterline. Aiutami a trasportarla a terra senza che l’equipaggio sappia che cosa vi è dentro.

Se noi saremo tanto fortunati da sfuggire ai sudisti, divideremo le mie ricchezze. —

Così fu deciso e fatto. I due capitani s’imbarcarono in una scialuppa, raggiunsero il fondo della baia e andarono a nascondere la preziosa cassa in una piccola caverna nota solamente a loro due1.

Intanto i marinai a loro volta approdavano, mentre l’incrociatore affondava l’Hark a cannonate, allontanandosi poscia a tutto vapore, senza più preoccuparsi dei naufraghi.

Quell’isoletta faceva parte del gruppo di Tristan d’Acunha; quale però sia ancora non si sa di preciso, ma io non dispero di poterla, un giorno o l’altro, trovare e di mettere le mani su quella cassa, e di dividere il tesoro col figlio del capitano Summers.

— E che cosa è successo dei naufraghi? — chiese Boris, il quale aveva ascoltato con vivo interesse quello strano racconto.

— L’equipaggio dell’Hark rimase parecchi mesi su quell’isola deserta, conducendo la vita dei Robinson e nutrendosi di uccelli marini, poi un giorno, stanco di quella vita, riparò i suoi canotti onde raggiungere Tristan de Acunha.

I due capitani s’imbarcarono soli sul più piccolo; gli altri presero posto nelle due baleniere. [p. 304 modifica]

La notte stessa però una tempesta separò le imbarcazioni e solamente Summers ed Handerson riuscirono, dopo sforzi prodigiosi, a raggiungere l’isola.

Dei marinai non si udì più mai parlare. L’Atlantico deve averli inghiottiti.

Pochi giorni dopo, il capitano Summers, colpito dal vaiuolo, moriva e qualche mese più tardi Charles Handerson veniva raccolto da una nave americana e condotto a Nuova Orleans.

— E non è più tornato a raccogliere la preziosa cassa?

— Non credo, — rispose Ranzoff. — Ormai non possedeva più mezzi sufficienti per armare una nave e recarsi in quell’isolotto.

— Che non si sa dove si trovi.

— Il figlio di Summers mi ha dato delle informazioni che potrebbero essere esatte. Si crede che quell’isolotto, che si chiama appunto Summers, si trovi a 38° 71' di latitudine meridionale ed a 64° 32' di longitudine orientale.

Quando avrò tempo andrò a verificare la cosa e a cercare quella caverna. Ma noi abbiamo chiacchierato abbastanza ed abbiamo dimenticato che siamo a corto di viveri.

Vi piacerebbe cacciare le testuggini? Qui abbondano, è vero, Liwitz?

— Per bacco! — esclamò il macchinista. — La prima volta che siamo venuti qui, in una sola notte ne abbiamo raccolte più di cento e abbiamo anche riempita la dispensa di uova eccellenti.

— Che ci hanno servito per ottenere un olio squisitissimo, — disse Ranzoff.

— È vero, signore.

Il capitano dello Sparviero estrasse l’orologio e guardò.

— Sono le sei, — disse. — Abbiamo appena il tempo di scendere nella valle del Sugar-loaf. —

Uscirono dalla caverna, avendo ormai i marinai esportato l’oro racchiuso nei due barili, che sommava a circa tre milioni di lire, otturarono per precauzione l’entrata, accumulando parecchi macigni, e scesero un altro canalone che pareva terminasse nella verdeggiante vallata del Sugar, l’unica che fosse coperta di erbe, dure e magre, che perfino le capre avrebbero sdegnate.

Il sole, rosso come un disco infuocato, scendeva lentamente in mare, proiettando orizzontalmente i suoi ultimi raggi, mentre una fresca brezza cominciava a soffiare da ponente.

Giù, in fondo alla roccia, in direzione della valle, si udivano dei [p. 305 modifica] torrenti scrosciare allegramente e più lontano, verso le coste, gridare gli uccelli marini, sempre numerosissimi.

Balzando di cornicione in cornicione o scivolando lungo i canaloni o sui detriti rocciosi trascinati dalla grande frana, i cinque esploratori giunsero ben presto all’estremità della vallata, avanzandosi verso una riva bassa e sabbiosa, la quale si estendeva in forma d’un arco, formando una minuscola baia.

Era quello un vero posto da testuggini, amando quegli anfibi le rive basse e sabbiose, non potendo salire i piccoli altipiani o le coste rocciose in causa della brevità delle loro zampe e del peso, relativamente enorme, del guscio.

E poi, dove la sabbia manca, la tartaruga difficilmente si mostra, non potendo seppellire le sue uova.

— Dobbiamo aspettare la luna, — disse Ranzoff. — Appena l’astro notturno si degnerà mostrare il suo allegro faccione, noi vedremo sorgere dall’oceano delle vere colonne di anfibî, poichè questa è la stagione propizia per affidare alle sabbie le uova.

Forse là sotto ve ne saranno delle migliaia, ma a noi non conviene per ora mostrarci. Quegli anfibî’ sono estremamente diffidenti e temono assai l’uomo. —

Si nascosero dietro una roccia, accesero sigari e pipe, a seconda dei gusti, e aspettarono, chiacchierando sommessamente, certissimi di fare una grossa raccolta di carne e di uova.

— E che cosa vengono a fare qui quelle bestie? — chiese Rokoff, che era il più curioso della compagnia.

— Ve l’ho già detto, — rispose Ranzoff. — Depongono sotto la sabbia delle frittate colossali.

— Sono eccellenti quelle uova?

— Quasi quanto quelle delle galline.

— E perchè le seppelliscono sotto le sabbie?

— Per non prendersi il disturbo di covarle. Al pari dei coccodrilli lasciano che s’incarichi il sole di maturarle.

— E si scavano delle buche?

— Si capisce. Quasi sempre nel mese di febbraio le testuggini lasciano il mare per accostarsi alle isole.

Prima però esplorano minutamente e per parecchi giorni le rive, volendo assicurarsi che nessun pericolo le minacci, poi approdano, sempre di notte, dopo il calare del sole, e coi piedi posteriori che sono molto lunghi e armati di robuste unghie ricurve, scavano una fossa, larga [p. 306 modifica] ordinariamente quasi un metro e profonda circa due piedi, bagnando le pareti colla loro orina onde meglio cementare le sabbie.

L’impulso di fare delle uova è così forte in quegli anfibî che anche quando le fosse sono piene, altri animali accorrono e depongono strati su strati di uova, rompendone moltissime.

— Sono grosse quelle testuggini? — chiese Fedoro.

— Talune pesano perfino cinquanta chilogrammi.

— E quando le uova si schiudono, che cosa succede? — chiese Wassili?

— Le piccole testuggini aspettano la notte e scappano verso il mare. È stato poi osservato che sanno sempre ritrovare, per istinto, la spiaggia.

Più volte si è provato a chiudere in un sacco le piccine, e portarle lontane dal mare, in mezzo alle rocce, eppure esse hanno sempre saputo dirigersi verso l’acqua.

— Che abbiano l’orientazione dei colombi viaggiatori? — chiese Boris.

— È probabile, comandante.

— E voi dite che da quelle uova si ricava un olio eccellente? — chiese Rokoff.

— Assai migliore di quello che si ottiene dall’oliva, — rispose Ranzoff. — Si gettano le uova in grandi recipienti d’acqua, si schiacciano con una pala, si mescolano ben bene e si lascia quella miscela esposta al sole finchè il giallo venga a galla e si amalgami perfettamente.

L’olio si raccoglie e si mette a cuocere ad un fuoco vivissimo.

Così preparato diventa chiaro, non ha nessun odore sgradevole e assume una bellissima tinta giallastra; è però necessario che le uova siano state depositate da poco e che l’embrione non si sia ancora sviluppato.

In tutta l’America del Sud è molto pregiato e perfino nelle città dell’Amazzoni e dell’Orenoco, sui cui fiumi si fanno delle raccolte straordinarie d’uova, non si vende mai meno d’una piastra al fiasco.

— E quante uova depone in media ogni testuggine? — chiese Boris.

— Dalle cento alle centoventi, — rispose Ranzoff. — Moltissime però vengono rotte dalle testuggini che invadono le buche ormai già piene. —

In quel momento Liwitz, che si era messo in osservazione dalla cima d’una rupe dominante la riva, giunse correndo:

— Vengono, — disse. [p. 307 modifica]

— È sorta la luna? — chiese Ranzoff.

— Comincia a mostrarsi in questo momento.

— Venite, amici: mi preme più la carne che le uova.

Si alzarono silenziosamente e girarono intorno alle rupi, dopo di aver spento sigari e pipe.

Dinanzi a loro vi erano delle dune di sabbia, dietro alle quali potevano osservare senza esporsi al pericolo di allarmare i deliziosi anfibî.

Dal mare sorgevano a battaglioni le covatrici.

Erano belle bestie, tutte grosse, pesanti dai quaranta ai cinquanta chilogrammi.

Si erano disposte su parecchie file e scavavano frettolosamente le buche colle robuste zampe anteriori, mettendosi subito a deporre uova su uova.

Delle risse scoppiavano di frequente fra quei rettili, poichè le ultime venute, per non perdere tempo, cercavano di approfittare delle buche già scavate.

— Rovesciatele semplicemente sul dorso, — disse Ranzoff ai compagni. — È il miglior modo per impedir loro di fuggire verso la riva e tuffarsi.

S’incaricheranno poi i marinai del resto.

I sei uomini si slanciarono verso la spiaggia, gridando a piena gola.

Le testuggini, spaventate, lasciarono le buche, rovesciandosi confusamente verso l’oceano, ma si trovarono la via già tagliata da Rokoff e da Liwitz.

In meno di un quarto d’ora ben sessanta bestiacce si trovarono rovesciate sul dorso. Le altre erano riuscite a fuggire passando fra le gambe dei cacciatori.

— Abbiamo qui tanta carne da poter vivere un mese e anche più, — disse Ranzoff, — e tante uova da ricavare parecchie dozzine di fiaschi d’olio e da fare delle frittate gigantesche.

Domani verremo a fare la raccolta. —

Essendo la notte diventata piuttosto fredda, risalirono in fretta la valle del Sugar, raggiungendo felicemente la piattaforma del Ninepin.

Il giorno seguente lo Sparviero scendeva verso la spiaggia a raccogliere le povere testuggini ed a caricare tre o quattro migliaia d’uova, e verso il tramonto dello stesso giorno, abbandonava l’isola quantunque il tempo, che fino allora si era mantenuto bellissimo e calmo, accennasse a guastarsi.

Delle nuvolacce nere venivano dalla parte del Brasile, spinte da un [p. 308 modifica] vento gagliardo, e l’oceano aveva rotta la sua superficie quasi liscia, brontolando sordamente. Le ondate a poco a poco si formavano, cozzandosi le une e le altre con estrema violenza.

— Spero che questo uragano non ci darà troppe noie, è vero signor Boris? — chiese Ranzoff, il quale si era messo al timone.

— In queste regioni ordinariamente scoppiano con estrema rabbia, però hanno di solito una durata brevissima, — rispose l’ex-comandante della Pobieda. — Avremo certo un acquazzone diluviale. —

Lo Sparviero si era messo in gran corsa, lottando contro il vento che lo investiva di traverso, facendogli fare di quando in quando degli scarti che lo gettavano fuori di rotta.

Verso le dieci la profonda oscurità che avvolgeva l’oceano fu rotta dai primi lampi e i tuoni si mescolarono ai muggiti dei cavalloni e al sibilare acutissimo delle raffiche.

— Sarebbe stato meglio che noi fossimo rimasti a Trinidad, — disse Wassili a Ranzoff, il quale si sforzava di mantenere lo Sparviero sulla sua rotta.

— O peggio, — rispose invece il capitano. — Le raffiche avrebbero potuto scaraventare il fuso contro quel caos di rocce e sfracellarmelo.

No, Wassili, preferisco lottare in mezzo all’oceano, senza ostacoli nè dinanzi, nè di dietro.

D’altronde non c’è alcun motivo di spaventarci. Se questi uragani sono formidabili, sono pure di breve durata, ha detto tuo fratello.

Se il vento continuerà ad aumentare, ci lasceremo trasportare verso levante. Non abbiamo nessuna fretta per ora. —

Diluviava furiosamente. Era un vero doldrums quello che si rovesciava sull’Atlantico.

Non erano goccioloni quelli che scendevano, bensì veri getti d’acqua i quali scrosciavano fragorosamente sul fuso, sulle ali e sui piani orizzontali. I lampi si succedevano ai lampi, quasi senza interruzione, illuminando sinistramente l’oceano tormentato ed irrequieto, e i tuoni diventavano sempre più assordanti.

Vi erano certi momenti in cui pareva che fra le nubi si combattesse una grande battaglia navale, colle possenti artiglierie moderne.

Continuando lo Sparviero a subire degli scarti violentissimi, Ranzoff che temeva per le ali, stava per mettersi alla cappa, come dicono i marinai, ossia per abbandonarsi al vento, quando si udì Rokoff gridare:

— Una nave disalberata!... —


Note

  1. Storico.