Il bacio di Lesbia/XXIII

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La canzone dei codicilli

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XXIII

LA CANZONE DEI CODICILLI


M
a Catullo si trova in stato furibondo: con veloce corsiere è galoppato sino a Baja, e vuole da Lesbia indietro i suoi bigliettini d’amore, le sue poesie: vuole troncare tutto con la sua Dea.

Egli se ne strafotte del grandioso motto «quas dederis solas habebis opes», «io ho quel che ho donato», egli vuole indietro la roba sua: sono sangue del suo sangue i suoi versi, i suoi codicilli.

E non considera che, senza di lei, quei versi non sarebbero nati, che senza la fecondazione di lei, di lui non resterebbe memoria.

Perciò trascorrendo a furia la via Appia per andare a Baja, era folle come un coribante, e per dove passava e vedeva gente, la convocava per dare l’assalto a quella ladra, a quella scherana che gli ha tolto ogni pace, e non gli vuole restituire la roba sua.

Cioè convocava i suoi versi.

Egli vede i suoi versi, i suoi endecasillabi, come fossero i suoi fidi guerrieri, le sue lance spezzate. Non son tutti forniti di giambo? I [p. 160 modifica] suoi versetti non cantano tutti a ritornello?

Ora vi insegnerò io nuova canzone.

«All’arme», grida, «o versi miei, formate falange, formate legione ! Sorgete, endecasillabi miei, quanti siete, quanti vi trovate in giro e andate tutti insieme da quella traditora svergognata che mi deride, e non mi vuol dare indietro i miei versi, i miei bigliettini, i miei codicilli. La poesia di Settimillo la voglio indietro».

— Cosi bella, — dice lei —, è quella poesia di Settimillo: «Settimillo, beato, si tiene in grembo Acmene», che mai ti renderò quella poesia.

— Allora, o Muse, — dice Catullo —, cominciate il canto pastorale.

— All’assalto, all’assalto, — grida Catullo ai suoi endecasillabi. — Circondatela e gridate tutti quanti in coro: «Puttana marcia, restituisci i suoi versi a Catullo; restituisci marcia puttana i miei codicilli ». Alzate più forte la voce e gridate di nuovo e a ritmo: «Puttana marcia, restituisci i codicilli! Restituisci, marcia puttana, i codicilli di Catullo!».

Catullo, come un direttore d’orchestra, segnava il tempo ai suoi versi.

— Non c’è niente da fare. Questa donna è pietra. Provate, endecasillabi miei, a mutare voce e modo. Vediamo se giova a qualche cosa. [p. 161 modifica]I versi allora presero una intonazione di scherno e ricantavano: «O, pudica, o virtuosa, o proba puella, ti preghiamo: restituisci a Catullo i suoi codicilli. Restituiscimi almeno la poesia di Settimillo! Pensa che lui è morto per te».

— Cosi è morto per qualche cosa —, rispose lei.

Allora Catullo le si avventò.

— Badate, Catullo, — lei disse con molta calma —, che mi fate male e mi storcete la mano.

Piangeva ora Catullo come Filottete e nel pianto diceva:

— Tu non sei più la mia puella, non sei più la veneranda, non sei più la mia luce, Lesbia mia!

E lei dice:

— Te lo sei inventato tu che io son Lesbia: io son Clodia. Lesbia e Clodia, per quel che io mi intendo, ti servono lo stesso in prosodia! O Cato, Catulle, tu non ti conosci mica, sai. Tu dici che io sono cattiva. Cattiva io? Ma no, Catullo. Tu piuttosto sogni. Vuoi che io sia Clelia che passò il Tevere a nuoto? Troppi ponti permettono ora il passaggio sul Tevere, e la statua equestre di questa fanciulla, su la via Sacra, nessuno più la guarda. Vuoi tu che io sia Lucrezia, che si uccise di sua mano u. [p. 162 modifica] affinché nessuna donna romana vivesse impudica per l’esempio di lei? Vuoi che io sia Cornelia, intenta al fuso e al pennecchio? I tempi ciò più non consentono, e tu ti stancheresti. Ma guardami! Sogni? — E nelle chiome gli trapassò la mano. — Sogni?

E lui diceva:

— Come sei bella e fina! I tuoi grandi occhi chi te li ha fatti cosi? Sono passati gli Dei per i tuoi occhi? Sono passati e ti hanno portato via l’anima.

E lei dice:

— Oh, caro, povero, stupido Catullo!