Il buon cuore - Anno IX, n. 37 - 10 settembre 1910/Educazione ed Istruzione
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Il buon cuore - Anno IX, n. 37 - 10 settembre 1910 | Religione | ► |
Educazione ed Istruzione
L’azione del Cardinale Carlo Borromeo
nella Svizzera
San Carlo Borromeo che, nel 1560, a soli 22 anni, riceveva da Pio IV, suo zio materno, la porpora cardinalizia e l’arcivescovato di Milano, dopo l’elezione, a cui prese viva parte, dell’austero monaco Ghislieri al Pontificato (Pio V), non consentì di rimanere a Roma ove avrebbe goduto una superba posizione; ma volle dirigere personalmente la sua diocesi e vivere in essa e, nel 1565, egli rientrava in Milano, ove spiegò subito la sua energia infaticabile ed ardente per elevare le condizioni intellettuali e morali del clero, per istruire ed educare il popolo. Senza badare a disagi ed a fatiche andava dall’una all’altra parrocchia, per conoscerne personalmente i bisogni; predicava, nella lingua materna, al popolo; consacrava chiese e cappelle; ordinava esercizi spirituali pubblici e processioni, risvegliando così l’ardore per ogni opera pia. I nobili, pur meravigliandosi dell’austerità ascetica a cui egli stesso si conformava, dovevano sottomettersi alla sua volontà riformatrice, gagliarda, potentissima. Le donne lo veneravano come un santo, i poveri ed i malati, che egli curava e soccorreva fraternamente, lo salutavano come un salvatore. Ma i suoi sguardi ed il fuoco del pensiero erano rivolti verso la Svizzera, della quale Pio V l’aveva fatto protettore speciale, dove il campo d’azione combattente era ampio e fecondo e di cui alcuni territori meridionali appartenevano direttamente alla sua diocesi. E, fin dal 1567, incominciò ad ispezionare, di tanto in tanto, le podesterie ticinesi per difendere strenuamente contro ogni pericolo d’eresia il cattolicismo. Negli anni seguenti allargò la sua energia d’azione nelle vicine valli dei Grigioni dove la Riforma continuava a guadagnar terreno e, presso la popolazione dell’Oberland, rimasta cattolica, coll’eloquenza della parola e dell’esempio e, specialmente per la divozione mostrata per le reliquie dei santi nazionali S. Sigisberto e Placido, destò vivo sentimento di venerazione e di riconoscenza. E, fin nel 1583, nell’ultimo anno della sua vita, lavorò attivamente a Misocco per la conversione metodica, non indietreggiando mai davanti a nessun ostacolo; così, per l’opera sua energica ed intensa, nelle valli di Misocco e di Calanca svanì nella popolazione qualunque pensiero od intendimento di abbracciare il protestantesimo le ciò sarebbe accaduto anche per gli abitanti delle Alpi retiche se la gelosa ed assidua vigilanza delle leghe, pur permettendogli di attraversare il paese, non gli avesse impedito qualunque sosta. Ma, intanto, nell’agosto e nel settembre del 1570, egli aveva visitato la Svizzera Centrale e dopo studi ed osservazioni profonde, aveva preparato importanti riforme.
La relazione ch’egli fece, nella fine del settembre, alla Curia Romana, sulla situazione religiosa della Svizzera, è un documento importantissimo. Il Cardinale Borromeo lodava sopratutto, in essa, l’onestà e la modestia delle donne, la fede sincera del popolo, e rivelava, con nobile coraggio, la rilasciatezza dei costumi del clero e tutti i difetti che si dovevano correggere radicalmente. Ciò era un problema arduo e richiedeva l’azione costante, vigile, energica del vescovo di Costanza, Marc Sittisch de Hohenems; ma questi, essendo cardinale, viveva quasi sempre a Roma, e affidava l’amministrazione della sua diocesi a coadiutori o a vicari. Allora Borromeo, per far applicare le riforme ideate, propose al Papa l’invio nella Svizzera d’un nunzio perpetuo, la fondazione d’un seminario teologico a Lucerna e d’un collegio di Gesuiti a Costanza. La Curia Romana non rimase indifferente all’importanza suprema di questi consigli e, modificandoli solo in qualche punto, li adottò e li mise in pratica negli anni seguenti. Così il Collegio dei Gesuiti, proposto per Costanza, fu eretto a Lucerna e, dopo alcuni anni, i cittadini più intelligenti di questa città, idearono la creazione d’un Istituto Superiore, per elevare il grado d’istruzione tra i giovani ecclesiastici e per dare ai laici la possibilità di fare i migliori studi senza uscire dal loro Cantone; ma solo per la potenza personale del Cardinale Borromeo il bel disegno potè essere effettuato. I Lucernesi compirono, con acceso entusiasmo, i maggiori sacrifici per la fondazione del loro Istituto e tutte le famiglie e perfino i domestici a questo scopo dettero le loro economie. Il duca Emanuele Filiberto di Savoia promise il suo appoggio ed Enrico III di Francia, allorchè gli si fece comprendere che l’Istituto sarebbe stato vantaggioso agli interessi francesi, si obbligò a pagare una forte somma annua. Nel 10 maggio 1577, veniva conchiuso il trattato formale per la creazione del collegio ed il consiglio destinava per esso il più bell’edificio della città, chiamato «palazzo Ritter» e che Luca Ritter aveva fatto costruire verso la metà del secolo, in stile del Rinascimento. La fondazione di quest’istituto, diretto dai Gesuiti, assicurava alla Svizzera cattolica un centro scientifico della massima importanza.
Il Cardinale Borromeo ebbe pure a procurare la fondazione del Collegio dei Gesuiti a Friburgo ed infatti si dove alla sua attività prodigiosa se furono vinte alcune incertezze e quindi se si ottenne, nel 25 febbraio 1580, la Bolla di Gregorio XIII per la creazione di esso «in segno d’amore particolare per il popolo di Svizzera, nella città di Friburgo» per il miglioramento spirituale delle anime, l’istruzione dei giovani e la guerra all’eresia. La scuola s’apri nell’autunno del 1582 e da allora le famiglie protestanti che ancora rimanevano in un certo numero sulle rive della Sarina, o dovettero rientrare nella Chiesa cattolica o abbandonarono il paese e, come Lucerna era divenuta la cittadella del cattolicismo, nel territorio dei cinque Cantoni, Friburgo aspirava alla gloria di divenire, nella parte occidentale della Confederazione, la fortezza inespugnabile della Chiesa rigenerata. E sembra anche che, proprio per suggerimento e desiderio vivo del Cardinale Borromeo, i cappuccini si stabilissero, da quei tempi, nei paesi delle Alpi; ad ogni modo è certo che egli, da Roma, appoggiò fervidamente i desideri del colonnello Walter Roll e gli sforzi di altri, perchè — com’egli diceva — «questi monaci, col loro zelo per il bene, la vita semplice ed esemplare, potevano essere utilissimi per sradicare il male, diffondere il bene e far progredire i costumi cattolici». I cappuccini si conquistarono subito la stima e l’affetto delle masse popolari e, per mezzo della predicazione, collaborarono efficacemente all’opera della rinnovazione cattolica.
Ma S. Carlo Borromeo vagheggiava anche di formare un Collegio Elvetico, sul modello di quello Germanico di Roma, un collegio speciale per la formazione del clero da destinarsi alla Svizzera e alla Rezia e non ebbe pace finchè Gregorio XIII (1572-1585) non s’entusiasmò della sua idea e nel I° giugno 1579 non firmò la Bolla per la sua fondazione. Nell’Istituto Elvetico, a cui il Papa assegnò fin da principio, 2400 scudi l’anno, dovevano essere accolti gratuitamente 50 giovani dei diversi Cantoni perchè fossero istruiti nel latino, greco ed ebraico, nella logica, filosofia, teologia e diritto canonico e perchè ricevessero infine, dall’Arcivescovo, i gradi accademici e la consacrazione. Ogni alunno doveva obbligarsi, col giuramento, d’entrare nello stato ecclesiastico ed esercitare un giorno, nella sua patria un’attività conforme agli ordini dei suoi superiori ecclesiastici. Da questa potente, ardita idea di combattimento e di forza, accesa dalla volontà ferrea ed assoluta della vittoria, per il trionfo della contro-riforma nella Svizzera, doveva scaturire tale frutto, nella vita di quei tempi, da poter comprendere come un nunzio romano potesse dire, più tardi, coll’enfasi d’un classico ricordo: «Uomini e teologi di valore sono usciti dal Collegio Elvetico come da un cavallo di Troja».
Il Cardinale Arcivescovo Carlo Borromeo moriva il 3 novembre 1584, dopo aver consacrato la vita pura, meravigliosa d’ardire e d’operosità al trionfo del Cattolicismo in tristi tempi di corruzione, d’eresie e di fiere lotte e dopo aver sparso abbondanti e fecondi semi di virtù nobilissime.
G. M.
I DOTTI CREDENTI
I.
Biagio Pascal.
Vi fu un giovinetto che di dodici anni, con seste, squadre e circoli, avea dí per sè trovate le matematiche, e che, senza l’aiuto di libri, con sole sue forze, era arrivato a scoprire ed a dimostrare le proposizioni del primo libro d’Euclide fino alla trigesima seconda; che di anni diciannove ridusse a macchina una scienza che tutta quanta esiste nell’intelletto; che di ventitrè dimostrò i fenomeni del peso dell’aria, e distrusse uno dei grandi errori della fisica antica; che in quella età in cui gli altri uomini hanno appena terminato di nascere, avea finito di percorrere il circolo delle scienze umane; che da questo momento fino alla morte avvenuta non compiti ancora gli otto lustri dell’età sua, sempre infermiccio e languente, perfezionò la lingua che scrissero Bossuet e Racine; che, senza presumere di scolparlo de’ suoi falli, fu nel tempo istesso anima pia, e sulla Religione scrisse pensieri profondi, ed alla superbia umana tremendi. Questo ingegno spaventoso e credente chiamossi Biagio Pascal!
II.
Benigno Bossuet.
Vi fu tale che ebbe eloquenza si potente da non esservi chi gli potesse resistere, e non fosse da lui trascinato sulla sua via; che, nel cospetto del più grande ed orgoglioso monarca del suo secolo, annunziò con maestà di eloquio terribile la sua grandezza non esser altro che misera e fatua vanitade, un sogno la sua potenza, lui stesso polvere e cenere, ed il suo trono una tomba; che, come affacciatosi sull’orlo degli abissi dell’eternità, mandò lungh’essi parole solenni di tempo e di morte; che dettò un discorso sull’Istoria universale con un andare maestoso, con una dicitura grave, con una sintesi sublime; che, facendo una rivista per ogni angolo della terra, chiamò dal sepolcro per interrogarle tutte le generazioni che vi sono passate; che di ogni luogo conobbe storia, tradizioni, riti e costumi, e fu patriarca sotto la palma di Tophel, ministro alla corte di Babilonia, sacerdote a Memfi, legislatore a Sparta, cittadino d’Atene e di Roma, mostrandosi politico come Tucidide, eloquente come Livio, profondo e scolpito come Tacito, inspirato come un padre della Chiesa; che tutte si spinse innanzi le generazioni, facendole camminare sui grandi disegni della Provvidenza finchè si videro dissolversi e cadere nel sepolcro; che, seguendo egli stesso il convoglio funebre di tutta la famiglia di Adamo, fece sentire novello Geremia angosciose lamentazioni attraverso la polvere ed i rottami del genere umano; che in uno fu oratore sacro magniloquente, del dogma cattolico propugnatora invincibile, zelante e virtuoso PontefiCe della Chiesa di Meaux; questi fu Iacopo-Benigno Bossuet!
Del genio di Bossuet così discorre l’Audisio: “Bossuet! ecco l’eroe, il gigante che discorre in pochi passi smisurate distanze; pochi accenti bastano a lui per aprire un orizzonte immenso di luce; sviluppi la fede e la morale, celebri l’interno imeneo dei santi o conduca il lutto della patria nella morte dei principi, egli non tocca la terra, ma slanciasi e rapisce colla signoria del genio nelle supreme ragioni dell’intelligenza. Non precauzioni, non raffinatezze, non pretensioni oratorie, ma rettitudine di sentimento, gagliarda franchezza ed ardimenti di una buona fede; non personali trionfi, ma il trionfo del vero; non dilettare mollemente, ma sorprendere, soggiogare, opprimere le udienze; non far dire — egli parla bene — ma egli ha ragione, questo è giusto, è onesto: dire tutto ciò che vuole, e come vuole: e col sentimento e colla forza che vuole: ecco l’uomo, il quale fondava l’impero assoluto dell’eloquenza al cospetto di un monarca il più assoluto dell’universo: alla cui maestà se parve inchinare talvolta più del dovere la maestà apostolica, rialzavasi tosto per dirle col tremendo accento di un profeta:
«Dopo tante vittorie vi resta un nemico a vincere; voi medesimo, sire, voi medesimo»
III.
Fénelon.
Ma sull’orizzonte, allora così lucido della Francia, un altro astro brillava forse capace di stringere e quasi rifondere in un solo i prodigiosi talenti di quei tre sommi oratori: quell’astro era Fénelon, nato nel 1651. Sull’anno diciannovesimo, la sua eloquenza già stimandosi un portento, egli, che, a tenera pietà univa consumata prudenza, per cessare dal suo cuore il veleno delle precoci laudi sì contagiose ai novelli predicatori, nascondevasi nel seminario di S. Sulpizio a crescere e portare a maturità i suoi talenti. E, tenendo per vero (al che vorrei ponessero mente i cultori come i giudici della sacra eloquenza), niuno essere mai stato sommo predicatore che alle naturali facoltà non aggiungesse il ministero pratico delle anime, dove imparansi le segrete vie, per le quali il Signore le chiama a santità; il giovane Fénelon prese un tal orrore di quanti arrogavansi di slancio l’arduo ministero della parola, come noi avremmo di chi, senza aver militato mai nelle più basse file, ardisse guidare da duce le falangi a battaglia. Quindi non istimò cosa indegna del suo genio, colla profondità de’ suoi studi far del paro camminare le funzioni d’umile coadiutore nella parrocchia di S. Sulpizio in Parigi, ministrando sagramenti, confortando moribondi, ed il pane della parola spezzando a poverelli. Questo fu il noviziato di quella grande anima; e tale esser dovrebbe di ogni altro; ed il non farlo, fu ai nostri tempi cagione onde i predicatori pascano di vento sè e gli uditori. Furono sì illustri i suoi primi successi che mossero l’Arcivescovo di Parigi a confidargli i novelli cattolici, e Luigi XIV la celebre missione di Saintonge. E nella grazia del re, senza saperlo egli medesimo, tra per li meriti delle sue fatiche, e per la fama della sua dottrina, e per l’opera che pubblicava in quel tempo: Sopra l’educazione delle giovani, era entrato sì avanti che il monarca davagli ad educare i suoi tre reali nipoti, il duca di Borgogna, d’Aniou e di Berry. Tutto a tutti, egli era semplice co’ suoi alunni, sublime con Bossuet, letteratissimo con Racine e Boileau, cogli stessi cortigiani schietto, disinvolto, ammirato.
Le Opere lasciate da Fénelon sono eminentemente istruttive. Si possono citare fra le altre: I dialoghi sull’Eloquenza, una Lettera sulla rettorica e sulla poesia, un’infinità di Opere e lettere spirituali, il Telemaco, per tacere delle filosofiche e delle letterarie. In esse tutto splende un intelletto consumato nelle vie interiori nella cognizione dello spirito e del cuore dell’uomo. Trionfa in tutti questi lavori l’eloquenza dell’anima, che è la vera eloquenza.
IV.
Giovanni La-Bruyère.
V’hanno talora uomini sommi, della cui vita poco o nulla si conosce, ed uno di questi è il celebre scrittore e moralista del secolo decimottavo, Giovanni La-Bruyère, nato a Dourdan nel 1639. Il titolo immortale alla gloria di La-Bruyère all’attenzione ed al rispetto della posterità, è stato il suo libro dei Caratteri, nel quale a fatto prova di una finezza e di una giustezza veramente ammirabile, insieme ad una rara perfezione di stile. Vi sono in questo libro dei capitoli che penetrano il più intimo secreto dell’anima; più si studiano, più si ammirano per la concisione, la forma, la varietà, il brio che tiene desto il lettore. Questo libro venne sempre considerato come atto a formare il gusto della gioventù, essendo scritto con sobrietà e giudizio, e sempre nei limiti della pura verità. La-Bruyère era legato d’amicizia con Bossuet e Boileau, e morì l’anno 1696.
⁂
Dinnanzi a questi quattro genii, ancor oggi si inchina la Francia. In tutto quello che si fa di presente per rendere credente quella nazione, sono essi citati come grandi autorità, per la ragione che furono uomini di scienza e di fede, nè mai separarono la dottrina dalla Religione. Fu solo più tardi, che la miscredenza di Voltaire, e di Rousseau doveva comparire sul cielo della Francia. Infelice quel secolo che si lasciò trascinare per la via segnata da questi due corifei. E felici quei tardi nipoti che non vogliono aver niente di comune con essi.
Al collaudo dei Ristauri |
della "Madonnina di Alzate„ |
(8 SETTEMBRE).
Veni, vidi, dixi; giacchè, andai ai festeggiamenti anche come oratore d’occasione (modestia a parte), e non solo come divoto e curioso. Ma non senza una punta di inquietitudine, di dubbio, circa il risultato dei ristauri, e circa il modo di destreggiarmi alla men peggio in caso d’un insuccesso di lavoro.
Invece, fin dalla sera di mercoledì, quando assistetti alla chiusura della Novena, piamente distratto dal bisogno di guardare, distratto dalle successive impressioni, potei però calmare subito le ansie dello spirito. La prima sommaria visione dei lavori ebbe la più tranquillante risposta. Ma fu il dì della Festa che, alla luce naturale del giorno, potei vedere meglio. La battaglia era vinta; non capivo più in me dalla gioia, quasi che il bello, magnifico, glorioso risultato dei ristauri fosse dovuto a me solo. Rare volte io credo che ad un ambiente architettonico il più armonioso di linee pure ed eleganti, si sia sposato ad una decorazione più indovinata per tinte e ornati e dipinti e fulgori di luci e di ori, come nel Santuario della Madonnina d’Alzate. Il dipinto centrale della volta — l’Assunzione — è veramente artistico. Un bravo di cuore al pittore Beghé, e lode incondizionata ai suoi collaboratori.
Si può immaginare quindi se, sparsa la voce di codesti ristauri e, giorni fa anche la notizia dei felici risultati, dovesse far difetto l’affluenza dei divoti e dei curiosi! Alle tre della mattina del giorno della Natività di Maria, convenuta da cento parti, sbucata dalle selvagge boscaglie, che avvolgono quasi in cupo mistero il Santuario, una folla impossibile a numerarsi, con qualche cosa di fantasioso, di romantico in quel pellegrinaggio notturno, al chiarore di fantastiche lampadine, era già là a gremire il piazzale, aspettando la Messa delle tre e mezzo; tanto da avere qualcosa di inquietante, e la sua massa enorme e l’impazienza. E da allora fino a tarda sera, fu una fiumana incessante di gente d’ogni età e condizione, un torrente umano che si versò al Santuario; ma così tranquillo, composto, rispettoso, che anche i due soli militi della benemerita mandati sul luogo per ragione d’ordine, erano superflui.
Al trar delle somme, non si poteva aspettare di più e di meglio, anche dal lato materiale — cioè l’animatissima fiera che si allineava lungo il maestoso viale del platani, e la fortunata pesca di beneficenza in prò del Santuario — che fece affari d’oro.
***