Il buon cuore - Anno X, n. 45 - 4 novembre 1911/Educazione ed Istruzione
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Educazione ed Istruzione
LE ESPOSIZIONI ROMANE
Nelle sale degli Indipendenti
La mostra degli Indipendenti, ha, non fosse altro di simpatico il nome. Indipendenti, da che cosa? Chi sa come è sorta questa esposizione sa anche che l’ardita affermazione di libertà che l’epiteto onde va contraddistinta sembra includere, si riferisce quasi sopratutto alle organizzazioni ufficiali, e alle non meno ufficiali giurie. Ma l’origine del nome bisogna cercarlo un poco più in là; salire le verdi acque della Senna, giungere a Parigi in epoca di Vernissage, nei celebri Salons al lato dei quali altri saloni si schiudono per iniziativa degli artisti che non vollero passare (o le passarono male), le forche caudine dell’ammissione, ai transitori santuari dell’arte odierna. Ma chi tutte queste cose non voglia rammentare può benissimo lasciarsi soltanto attrarre dal simpatico nome, che vi fa pensare alla più balda indipendenza da ogni scuola, da ogni preconcetto, da ogni moda, da ogni accademia. Ciò dispone assai bene il visitatore, per quanto lo renda un po’ esigenti; ed è un irresistibile invito per cui senza averne magari l’autorità, ama serbare l’indipendenza, se non dei suoi giudizî — che quelli s’intende debbono essere basati sopratutto su criteri tecnici — ma delle proprie impressioni; indipendenza questa a cui tutti i visitatori, che vanno alle esposizioni per proprio gusto e piacere, tengono assai più di quel che non si creda; indipendenza, cui le visitatrici sopratutto non rinunziano mai, anche quando corrono il rischio di dire delle cose cosi avventate, da fare aggricciare... la tela al più tranquillo e idilliaco dei quadri.
Ed è perciò che io stessa visitatrice fantastica quant’altra mai, con il desiderio di far l’indipendente... fra gli indipendenti, mi son recata nelle fresche e luminose sale di palazzo Theodoli, nelle quali mi sono trovata quasi sola con i quadri silenziosamente eloquenti. L’atmosfera serena, tranquilla, sarei per dire, claustrale, della galleria, dei musei e delle esposizioni, quando non sono troppo movimentate di visitatori, è almeno per me delle più suggestive. Con alterna vicenda il pensiero si raccoglie in un immagine bella, che ha reso d’un tratto prigioniero il vagante sguardo entro l’ambito breve della sua quadrata cornice, o va deliziosamente correndo per le mobili vie della fantasia, desta ed eccitata al sogno e alle peregrinazioni audaci, da qualche leggiadro motivo sentimentale di che una tela suggestiva suggestivamente favella. Ond’è che questa nostra estate romane, più di ogni altra forse calda e conciliatrice di ozî, ha nondimeno il singolare vantaggio d’invitare a nuovi pellegrinaggi artistici, coloro che il caldo non ha ancora sospinto verso orizzonti più aperti.
Eccoci dunque agli «Indipendenti», la mostra d’arte di cui meno si sono occupati i giornali, tutti presi e compresi delle altre svariatissime esposizioni, che han preceduto questa, unicamente dovuta all’iniziativa privata.
Un giro rapido e un esame sommario comincia intanto a persuaderci di questo: che, cioè gli espositori, sono... indipendenti (nella maggior parte almeno) da ogni velleità di effetti stupefacenti allo sguardo del placido visitatore. Niente boites à surprise, qua dentro, pochi ardimenti novatori, molte cose belle, molte e molte mediocri, poche, veramente brutte....
Ma, come accennavo poc’anzi, una visitatrice che fa l’indipendente... fra gl’indipendenti, non giudica, ma guarda con la sua curiosità appassionata, lasciandosi guidare soltanto dalla fugace attrazione del momento. Conte i bimbi che sfogliano un grande volume di favole illustrate quando ancora non sanno leggerne il testo, non in capo a ogni pagina raccolgono l’immaginazione infantile per giungere e interpretare le figure ma di tanto in tanto si innamorano di qualcuna, ed allora la contemplano con avido sguardo indagatore, per giungere a indovinare il significato di ogni dettaglio; e v’intessono intorno mille favole forse più belle e più audaci di quella immaginata dall’autore stesso.
E d’altra parte come sarebbe pòssibile far giustizia di tutte le opere contenute entro trenta sale circa? Esaminandone attentamente pure una per sala la facoltà di ammirazione si esaurirebbe, l’interessamento correrebbe il rischio di smarrirsi in una vaga labile ebbrezza di cose belle e maliose, e la gioia del visitatore (perchè dall’impressione dei visitatori noi vogliamo soltanto occuparci) si scioglierebbe in una velata stanchezza.
Eccoci nella sala Gallelli, una delle prime e più ampie al piano del nuovissimo palazzo. E’ una fantasmagoria di colori, un fluttuar d’immagini floride e piene di vita; v’hanno alcuni ritratti efficaci signorili e corretti, fra cui stona uno studio di donna per nulla simpatico. Corrono gli occhi con soddisfazione sincera fra le tele così ricche di tinte da apparire quasi gioconde, e che si prestano mirabilmente a far rilevare la serietà pensosa delle sobrie sculture dello Ximenes, le cui immagini, marmoree o bronzee che siano, hanno sempre una grande intensità di vita che sembra ottenuta senza alcun sforzo.
Fra la ricchezza e la plasticità di forme della sala radiosa, una graziosa figura di donna che fa pensare a una poesia di Guido Gozzano, tutta composta nella sua toletta di mezzo secolo fa, con le scarpette allacciate a sandalo da intrecciature di nastri e i capelli tenui e biondi raccolti alla sommità del capo giace tranquillamente sovra un divanetto modesto. V’è un’aura di grazia e di semplicità intorno a lei, e chi passa, da uno sguardo alla firma del Stimi, e sorride alla sognante creatura, come a una piccola amica simpatica, che appare la più compresa del silenzio solingo della sala, molto adatto alla sua serena posizione di riposo.
Poi si procede oltre; e ci si trova fra lo stuolo bianco e bruno di marmi e di bronzi.
Qui, se v’è una visitatrice, ella cede subito al femineo istinto che la rende più pronta all’ammirazione delle minuscole cose squisite che non talora delle grandi opere, a meno, si intende non siano compiute da sommi maestri.
Ed una piccoletta bimba, tutta compresa nello sforzo delle prime fatiche di massaia in diciottesimo; e un ossuto ronzino del Quattrociocchi, efficacissimo nella modellatura, nell’espressione di stanchezza penosa, che emana da tutto il gramo corpo della povera bestia; e un piccolo bevitore del Barbella attraggono e rattengono per qualche istante il curioso sguardo disfiorante, e carezzante la selvetta chiara delle sculture leggiadre.
Poi si torna ancora fra i quadri. C’è un’armonia grave e dolorosa nell’aria. E’ la piccola violinista quasi deforme di Tiflembach che la testa riversa sullo strumento canoro trae dalle corde una nota di spasimo che si riflette in ogni suo lineamento. La testa e lo strumento doloranti emergono soli dalla tela che la luce occidua soffonde di un leggero velo d’oro. Strano pittore questo Tifiemback, che i suoi paesaggi, e le immagini trae più dalla fantasia che dalla natura stessa, con tecnica forse non sempre perfetta, ma con l’efficacia strana e arrischiata di una novella di Edgardo Poe. Ma ecco vicino a questo artista cupo e bizzarro ad un tempo, ecco una serie di piccole serene opere del Timaro: teste di bimbi deliziosi, impressioni romane, piene di eloquenza. Ancora una volta è l’istinto femineo che attrae la visitatrice fra quelle tenui cose squisite, in cui ella sente e ritrova la vita, più facilmente che non in certe tele di parecchi metri quadrati. Ella pensa che quelle cose di proporzioni modeste sono quasi le uniche che possono, senza stonare troppo, entrare nelle nostre case, ove vorremmo veder sorridere sempre l’arte, ma dove purtroppo la grande Arte, non può trovare spazio sufficiente per troneggiare e distendervisi da quella sovrana ch’essa è.
E riflettendo a ciò con ascoso desiderio nostalgico ci si sofferma dinanzi alla trasparenza suggestiva del Citunno del Santoro, che è specialista nel ritrarre le tenui chiarità delle acque, le iridiscenze cupe della laguna. E un poco più oltre l’étalage delle tele dei disegni del Fabrès di che sono occupate quasi tre stanze annunziano la presenza di una personalità robusta e originale di artista. Il Fabrès è senza dubbio un disegnatore accurato e vigoroso e da ciò deriva ai suoi quadri, quell’impronta di energia e di vivacità, che li rendono ammirati. Soltanto ci son troppi Fabrès in queste sale. Egli è un pittore fecondo, questo lo si vede, ma perchè impone ai visitatori tutti i frutti della fecondità sua?
Ha l’aria un po’ invadente di fronte agli altri espositori, questo spagnuolo vivace, ma nonostante questo (o chi sa forse proprio per questo) è simpatico anche perchè vi accompagna garbatamente, con i suoi disegni e le sue acqueforti, fino alla soglia della porta del primo piano, e vi costringe a salire col pensiero di lui, al piano superiore, ove però lo dimenticate subito, poichè vi vengono incontro, nientemeno che Gemito e Mancini! Il piccolo pescatore di Gemito, un bronzo squisito, modellato con una eleganza e una espressione stupefacente, pieno di vita, palpitante anzi addirittura di un fremito di gioia contenuta, simbolo meraviglioso di sanità d’arte, di efficacia di verità è forse l’ornamento più bello di questa mostra. Il Gemito lo modellò prima che la sventura lo colpisse, e forse non mai egli sintetizzò in un’opera tutte le caratteristiche dell’arte sua, tutta quella sua speciale significazione di vita, che egli vorrebbe impressa in ogni suo lavoro. I quadri del Mancini, qui esposti, risalgono senza dubbio a parecchi anni fa, e appaiono perciò singolarmente interessanti in quanto rivelano i pregi iniziali dell’autore, e a chi rammenta gli ultimi lavori suoi, fanno comprendere l’evoluzione di questo vigoroso ritrattista. Ma troppo del Mancini si è parlato perchè il visitatore, o meglio la visitatrice, possa mettersi, lei alla facile impresa di scoprire i meravigliosi pregi delle suggestive sue opere; e non le resta perciò altro compito che di ammirare commossa, ma silenziosa, per procedere poi nelle attigue sale ove sono altre opere di pittori e scultori meridionali, Casciano, Cifariello, Esposito, Pizzuti, nomi illustri che riflettono nelle opere loro tratti sinceri di genialità. E nella rapida visita la pervabante pellegrina volentieri si indugia a sognare davanti alle marine del Brenda, col dolce trittico assisano di Pio Bottoni, alla figura meravigliosa di vecchio del Simonetti, al commosso lembo del shellevano mare di S. Terenzo di Lenina, Rossi-Scotti, che ha qui esposto anche un interessante quadro militare che rivela una volta di più nel tranquillo pittore umbro l’inclinazione a tratteggiare scene fervide di vita soffuse di sentimento guerresco.
E poi mentre la visita di questa seconda parte della mostra volge alla fine, mentre negli occhi contemplanti le policrome tele si addensa una vaga stanchezza, mentre le sale solitarie vanno più e più addormentandosi sotto le carezze del tramonto che inaura le larghe vetrate portando l’eco rumorosa del corso sottostante, mentre non si ha quasi più voglia di subire la suggestione meravigliosa delle tinte, mentre la solitudine misteriosa di quello strano santuario d’arte è solo interrotta dal passo di un altro visitatore solitario che, cede ancora al dolce richiamo delle immagini silenziose, mentre state per lasciare definitivamente gl’Indipendenti, rimettendo ad altro giorno la visita alla mostra retrospettiva che occupa il terzo piano del Palazzo Theodoli, una leggiadra visione d’arte modesta e superba ad un tempo rattiene è ristora lo sguardo curioso che quasi era stanco.
Il Terzi, l’illustratore geniale, l’animatore del libro moderno, l’interprete rapido e vigoroso di ogni poetica visione di novellatore e di poeta espone qui una collezione di acqueforti molte delle quali sono apparse in uno dei più eleganti e apprezzati periodici di Italia. Le figurine snelle, vibranti di vita come nell’Assolo, in Sconforto, in Passione, tutte rivelano non solo il genio dell’artista, ma a sua facilità di dare in pochi tratti forma plastica al pensiero e al sentimento. E poichè come dicevo poc’anzi, molta gratitudine si deve a quelle forme d’arte che possono entrare facilmente nella nostra vita, che possoao dare soddisfazione ad ogni sguardo avido di cose belle, ad ogni cuore, che vorrebbe far dell’arte una compagna e una consolatrice fedele, la visitatrice indipendente lasciando i non meno indipendenti espositori pensa che l’illustrazione è forse la forma d’arte cui l’avvenire darà l’incremento maggiore. Essa infatti risponde al bisogno di sminuzzare, perchè più facilmente soddisfi all’avidità delle masse, anche la bellezza. Ma per questo appunto è necessario dare a questa fine e difficile estrinsecazione artistica, la massima importanza, perchè non s’involgarisca nei tentativi dei dilettanti. E chi sa? forse le gentili mani famminee son le più atte a difendere e salvaguardare questa divinità fragile e squisita; che nella sua tenuità meravigliosa conduce nel più modesto salotto il puro affiato della bellezza, il soave ristoro della grazia.
Teresita Guazzaroni.
Cuor contento il ciel l’aiuta
«Narrami la tua storia, vecchierello.»
«Dal giovanil lavoro ebbi bei frutti,
E quando dileguò tempo sì bello,
Un po’ di carità mi fecer tutti.
Vo’ ramingando d’uno in altro ostello,
Ma di lagrime gli occhi ho sempre asciutti,
E (grazie al natural ch’è sempre quello)
Mi fanno buona ciera e vecchi e putti.
Le labbra non ho mai di canto mute,
Né invidio all’uccellin l’allegro umore,
Di camicia son privo ed ho salute.»
«To’ un biglietto da Cinque e ti consola!»
«Dio ve ne renda il merito, signore;
Vo’ subito a comprar la camiciola.»
D. A. Corno.
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