Il giornalino di Gian Burrasca/23 dicembre

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23 dicembre

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17 dicembre 24 dicembre


23 dicembre.


È quasi una settimana che non scrivo in questo mio caro giornalino. Sfido! Come avrei potuto farlo con la clavicola spostata e il braccio sinistro ingessato?

Ma oggi finalmente il dottore mi ha tolto l’apparecchio, e alla meglio posso descrivere qui, dove confido tutti i miei pensieri e tutti i casi della mia vita, la tremenda avventura che mi successe il 18 dicembre, data memorabile per me perché fu un vero miracolo che non segnasse l’ultimo giorno della mia vita.

Quella mattina, dunque, appena Cecchino Bellucci venne a sedermi accanto in scuola, lo trattai di vigliacco perché era scappato in automobile per paura della lezione che gli avevo promesso.

Lui allora mi spiegò che in questi giorni essendo i suoi genitori a Napoli per la malattia di suo nonno, che sarebbe il babbo della sua mamma, era stato accolto in casa del suo zio Gaspero il quale lo mandava a prendere a scuola tutti i giorni con l’automobile per lo scioffèr, e che perciò non poteva trovarsi a solo a solo con me, almeno per un certo tempo.

Dietro queste spiegazioni mi calmai, e ci mettemmo a discorrere dell’automobile che è una cosa che mi interessa assai; e il Bellucci mi spiegò tutto il meccanismo, dicendomi che lui lo conosce benissimo e ci sa andare anche solo e ci è andato più d’una volta, perché basta saper girare il manubrio e stare attenti alle voltate, anche un ragazzo lo sa manovrare.

Io veramente ci credevo poco, perché mi pareva impossibile che lasciassero l’automobile nelle mani a un ragazzetto come Cecchino Bellucci. E siccome glielo dissi, lui per punto d’impegno mi propose una scommessa.

- Senti, - mi disse - lo scioffèr oggi deve fermarsi alla Banca d’Italia per sbrigare una commissione che gli ha dato lo zio Gaspero, e io rimarrò solo sull’automobile. Tu cerca il modo di uscir prima dalla scuola, e fatti trovare sul portone della Banca; mentre lo scioffèr si tratterrà dentro tu monterai sull’automobile e io ti farò fare un giretto intorno alla piazza, e così vedrai se son capace o no. Va bene?

- Benone! -

E si scommise dieci pennini nuovi e un lapis rosso e turchino.

Detto fatto, una mezz’oretta prima dell’uscita cominciai a dimenarmi sulla panca, finché il professor Muscolo mi disse:

- Tutti fermi! Che cos’ha lo Stoppani che si divincola come un serpente? Tutti zitti!

- Mi dòle il corpo, - risposi. - Non ne posso più...

- Allora vada a casa... tanto c’è poco all’uscita.

E io, come s’era stabilito con Cecchino, uscii e andai difilato alla Banca d’Italia, dove aspettai fuori del portone.

Poco dopo eccoti l’automobile del Bellucci. Lo scioffèr discese, e quando fu entrato nella Banca, a un cenno di Cecchino, montai su e mi misi a sedere accanto a lui.

- Ora vedrai se so mandarla anche da me, - mi disse. - Tieni intanto la tromba, e suona... -

Sì chinò dicendo:

- Vedi? Per andare, basta girar questo...

E girò il manubrio.

L’automobile fece: putupum! due o tre volte, e via di gran carriera.

Io lì per lì mi divertii molto e mi misi a sonar la tromba a tutt’andare ed era un ridere a veder tutta la gente sgambettar di qua e di là per scansarsi, guardandoci spaventata.

Ma fu un attimo; capii subito che Cecchino non sapeva regolar l’automobile in nessuna maniera, né frenarla, né fermarla.

- Suona, suona! - mi diceva, come se il sonare la tromba potesse influire sul meccanismo.

Si usci dalla città come una palla di schioppo, e via per la campagna con una velocità vertiginosa, tanto che non si respirava.

Cecchino a un tratto lasciò il manubrio e si abbandonò sul sedile, bianco come un cencio lavato.

Dio mio, che momento!

Solamente a ripensarci, mi sento rizzare i capelli sulla testa.

Fortunatamente la strada era larga e diritta, e io vedevo come in sogno sfuggirmi dinanzi agli occhi la campagna intorno. Di questa visione mi è rimasta un’impressione così viva, che posso qui riprodurla come in una istantanea.

Ricordo benissimo che un contadino che badava ai buoi, vedendoci passare come una saetta, urlò con una voce formidabile che arrivò a coprire il rumore dell’automobile:

- L’osso del collo!...

Il mal augurio si avverò anche troppo presto, e se non ci si ruppe proprio l’osso del collo, andaron rotte altre ossa non meno utili. Io ricordo appena che a un certo punto vidi dinanzi a me sorgere a un tratto dalla terra come un grande fantasma bianco che si riversasse sull’automobile... e poi più nulla.

Dopo ho saputo che a una svoltata della strada eravamo andati contro una casa, che la violenza dell’urto era stata tale, che io e Cecchino avevamo fatto un volo per aria di una trentina di metri e che nella disgrazia avevamo avuto la fortuna di cascare dentro una macchia che ci servì come di una molla, attutendo il colpo della caduta, in modo che non fu - come poteva essere - mortale.

Dice che dopo mezz’ora del disastro arrivò lo scioffèr del Bellucci con un’altra automobile, che era corso a prendere a nolo appena si era accorto della nostra fuga, e ci trasportò tutti e due all’ospedale dove a Cecchino ingessarono la gamba destra e a me il braccio sinistro.

Io non mi potevo muovere, e dovettero accompagnarmi a casa in lettiga.

Certo è stato un brutto azzardo, e i miei poveri genitori e Ada hanno provato un gran dispiacere; ma però è stata anche una bella soddisfazione per me il raccontare a tutti quelli che son venuti a farmi visita questa mia avventura: descrivendo la nostra corsa vertiginosa che faceva ripetere a ciascuno:

- È stata una vera e propria corsa alla morte, come quella di Parigi!

E oltre a questo, ho la soddisfazione di aver vinto a quello sballone di Cecchino Bellucci dieci pennini nuovi e un lapis rosso e turchino che, appena saremo guariti, mi dovrà dare, se non vuole che gli dia quella famosa lezione che deve avere per i suoi bum contro mio cognato!