Il podere (Tozzi)/XII

Da Wikisource.
XII

../XI ../XIII IncludiIntestazione 1 dicembre 2014 100% Da definire

XI XIII
[p. 81 modifica]

XII.


Il pranzo fu triste: anzi, Remigio non avrebbe voluto nè meno mangiare. Quella minestra e quel lesso, che avrebbe pagato a fin di settimana con i denari della cambiale, non gli andava giù. Per non parlarsi di cose che li avrebbero inquietati, tanto egli che Luigia tacquero sempre e affettarono d’avere fretta.

Il venerdì di quella settimana il Pollastri con il suo scritturale andò alla Casuccia; per fare l’inventario.

Remigio e Luigia lo seguivano, indicando gli oggetti, da una stanza all’altra; suggerendosi tra sè, sottovoce, prima, come dovevano dirgli.

Il Pollastri era di una gentilezza ironica, mentre il Lenzi guardava tutta quella roba con l’aria di aver perso il modo di doventarne il padrone. A mezzogiorno, finirono.

Mangiarono, raccontando parecchie barzellette; senza vincere, però, una specie di pesantezza che pareva sopra a loro.

[p. 82 modifica]Luigia aveva tirato il collo a una gallina, a quella più grassa; che Ilda aveva preso la sera avanti quando s'era appollaiata.

Dopo aver fumato, il notaio si fece accompagnare nel campo; dette ordine che uno degli assalariati contasse le viti, un altro gli olivi, un altro i frutti e i pioppi.

Ciascuno degli assalariati si tagliò una stecca di legno, nella quale faceva con il coltello una tacca tutte le volte che contando era arrivato a cento. Picciòlo, invece, si metteva tanti sassolini in tasca.

La sera, presto, l'inventario era fatto. Il Lenzi disse:

— Come ho mangiato bene, oggi! Peccato che non duri almeno una settimana! Beato lei, signor Remigio, che è padrone di tutta questa grazia di Dio!

Anche il Pollastri era rallegrato dal pranzo; e si scordava perfino di essere insolente.

Quando tornarono a Siena, pareva che avessero fatto tutti e due una scampagnata.

Un lunedì mattina, cominciarono a falciare i fieni. Già, lungo la proda della strada, ne rubavano quanto era possibile: i barrocciai, quando erano arrivati dietro un poggetto che li nascondeva dalla casa, fermavano le bestie; e, lesti lesti, ne facevano più fastelli che potevano. Certe donne, che poi lo vendevano in città ai vetturini, quando era l'ora del caldo, e nei campi non c'era [p. 83 modifica]quasi nessun contadino, pigliavano lungo i fossi; tagliando i greppi. Nessuno, anche a poca distanza, le avrebbe potute sorprendere; perchè, quando sentivano avvicinarsi qualcuno, lasciavano la falce e andavano ad acquattarsi nelle buche dei fossi. La sera tornavano a legare i fastelli; e, di notte, li portavano via su le spalle, fino alla strada; dove qualche uomo li caricava tutti insieme sopra un carretto a mano.

I prati di Remigio erano trifoglio e lupinella. Il trifoglio aveva i fiori a pallottoline rosse e la lupinella a grappoli più rosei. Dove la terra era più buona, il trifoglio era più verde, quasi turchino; e c'erano ciuffi di pallottole che parevano serrate l'una con l'altra.

Tutti gli assalariati falciavano, meno Moscino; perchè c'era caso che gli venisse voglia di ruzzare con la falce e si tagliasse magari una gamba. Ma egli non la intendeva; perchè Remigio passava quasi due litri di vino a testa. Doveva bevere l'acqua! S'accapigliò con suo fratello Lorenzo; e poi pianse. Dinda, per levarlo di torno, prese una frusta e lo mandò, facendolo camminare dinanzi a lei, fino all'orto; dove c'era da annaffiare i cavoli e l'insalata.

— Brava Dinda! — disse, dalla finestra, Luigia. E Ilda si mise a ridere.

Picciòlo, debole com'era, tutte le volte [p. 84 modifica]che metteva un piede dentro una fossetta, andava in terra; ma lavorava più di tutti quantunque il sudore gli infradiciasse la camicia come se avesse preso la pioggia. Falciando, teneva la testa bassa e sorrideva. Lorenzo stava accanto a lui e badava di non restare a dietro. Poi, veniva Tordo; che cercava di fare più lentamente; tanto più che Berto, di quando in quando, si fermava con le mani sui fianchi. Allora anche gli altri, per non fare la fila storta, dovevano fermarsi; e soltanto Picciòlo era il primo a rimettersi a lavorare. Berto diceva:

— A me non va! Accidenti al fieno e a chi lo mangia! Almeno, il grano non è per le bestie!

Egli, per durare meno fatica, non mandava la falce rasente la terra; e, dove non era piano, ci lasciava almeno un quattro dita di fieno. Picciòlo guardando quelle strisce più alte, che davano nell'occhio anche di lontano, borbottava; ma il figliolo non voleva che ci mettesse bocca e gli diceva che stesse zitto perchè era cosa che non lo riguardava. Il vecchio rispondeva:

— Ma io lo dico per mio scrupolo di coscienza! Non è grazia di Dio anche il fieno? E, poi, questa lupinella è così tenera che a frullanarla non ci si ammazza come quando si trova il seccume. Basta avere un poco di pratichezza!

[p. 85 modifica]— Se il padrone sta zitto, perchè volete chiacchierare voi?

— Perchè non se ne intende!

Ma anche Remigio s'accorse che Berto tirava via; e glielo disse. Il contadino lo guardò come se avesse voluto tirargli un mozzo di terra, e gli rispose:

— Lei ha da dire soltanto di me!

Allora Remigio stette zitto, ma era così scontento che gli si leggeva anche nel viso.

Quando Gegia portò giù i fiaschi del vino, egli avrebbe voluto sentir dire che era buono; ma bevvero senza dirgli niente. E anche questo non se l'aspettava. Anzi, siccome Berto, dopo aver bevuto una sorsata a garganella, senza accostare le labbra al fiasco, doventò anche più di di cattivo umore, temette che nè meno gli altri fossero contenti. «E pure, pensò, l'acqua non ce l'ho messa, come voleva Luigia e come faceva mio padre, e il vino non ha nessun vizio!»

Arrossì; e se ne tornò via; perchè non ebbe il coraggio di stare lì ancora.

In una settimana, il fieno fu tutto falciato; e, allora, con le forche andavano a rivoltarlo, prima di fare i mucchi; perchè si seccasse bene di sotto e il sole entrasse anche dentro.

La Tressa, splendevole tutto il giorno, era restata con i suoi pioppi magri e storti, fogliuti soltanto in cima. La caldura aveva [p. 86 modifica]bruciato ogni cosa, e anche il grano pigliava un colore bianco che doventava sempre più giallo; e anche di notte si vedeva bene. Il terreno era così arroventito che senza gli zoccoli bruciava i piedi; e le passere, che varcavano le vallate da poggio a poggio, pareva che cadessero giù a strapiombo.

Ma, prima che gli assalariati portassero il fieno in capanna, il tempo si guastò. Poco dopo mezzogiorno, e in quel silenzio della campagna s'era sentito soltanto le campane della chiesa di Colle, il sole cominciò a essere meno limpido. Non c'erano nuvole ancora; ma proprio nel mezzo del cielo, il turchino cominciò a doventare sempre più smorto; finchè all'improvviso, vi nacque una nuvola grigia che si faceva sempre più scura. Poi, altre nuvole, dello stesso colore e più bianche, si accostarono insieme. Pareva che dovessero pigliare fuoco, perchè all'intorno scintillavano tutte e nel mezzo si facevano quasi nere. Quando tutte furono chiuse l'una con l'altra, un lampo abbarbagliò gli occhi e fece luccicare le ruote del carro, gli aratri e tutti gli strumenti di ferro su l'aia. La luce era livida: e a pena ci si vedeva. Allora, i tuoni cominciarono; come se avessero dovuto schiantare anche le case. E le prime gocciole, quasi bollenti, si sentirono picchiettare su [p. 87 modifica]le tegole e su i mattoni. Dopo un poco, l'acqua venne giù sempre più grossa; e il temporale durò quasi tre ore.

La Tressa dette di fuori, allagando tutte le parti più basse dei poderi. Perfino su i poggi, il fieno era stato sparpagliato e interrato. Era impossibile riporlo, perchè nella creta ci s'entrava con tutti i piedi. Il giorno dopo ripiovve, benchè si fosse levato un vento che faceva travolgere la fila dei pioppi; un vento che buttava giù le frutta come se crollasse le piante.

Quando l'aria cominciò a rasciugarsi, il fieno dei piani era marcio e non aveva più colore. Scelsero quello più schietto, perchè a mescolarlo sarebbe andato a male tutto quanto; e avrebbe preso di muffa. Le vacche, benchè fossero allombate bene, ne portavano poco per volta; perchè dovevano tirare le carrate già dai fondi.

Picciòlo si batteva le mani su la fronte e si disperava; ma gli altri non dicevano niente. Anzi, Berto, mentre Picciòlo era giù bocconi ad annodare una fune sopra il carro, fece l'atto di ficcargli la forca nella schiena. E Tordo si mise a ridere.

Anche i grani avevano sofferto. Si vedevano tutti arruffati e le spighe ripiegate con il capo in giù, come uncini. E c'erano spiazzate, dove i fili erano restati stesi nel fango.

[p. 88 modifica]— Se continua a piovere, — disse Picciòlo a Remigio, — quest'anno le spighe germogliano nel campo. Vorrei essere cieco, per non vedere uno strazio simile!

Ma il sole era tornato, e i pioppi parevano più belli e più verdi. Avevano sentito quella rinfrescata e ne godevano. Lungo qualche filare, erano nati i girasoli; grandi e gialli; che tentennavano un poco quando passava il vento. Tra i grani, dove era più umido, era nato il ciano con i fiori azzurri; le campanelle bianche, venate di rosso chiaro, che s'attorcigliavano fin su alle spighe; e la borrana con le stelline celesti. I ragni avevano teso tanti fili che, quando brillavano, parevano un'altra messe.

Remigio passava molte ore su l'aia, senza fare niente; ma preoccupato del fieno andato a male. Apriva l'uscio della capanna e sentiva sempre lo stesso odore cattivo; si scoraggiava e non riusciva a pensare ad altre cose.

Picciòlo lo trovò, verso sera, su l'aia. Il vecchio ch'era stato a rincalzare i fagioli, puntò la zappa su i mattoni, s'appoggiò alla cima del manico con tutte e due le braccia; e gli disse:

— Che fa qui, padroncino? Non va ancora a cena?

— No: è presto.

— Oggi è stato un caldo da arrabbiare come cani.

[p. 89 modifica]— L'ho sentito anch'io.

— Bisognerebbe che facesse rompere subito la terra dov'è stato falciato, il sole la incoce e secca l'erbaccia che c'è rimasta.

— Lo dirò domani a Berto.

— Ma non gli dica che gliel'ho suggerito io.

Il giovane lo guardò, e rispose:

— State tranquillo.

Egli sentiva un'inquietudine vaga e piena d'amarezza. Il sole era andato già da una mezz'ora, ma ci si vedeva bene lo stesso; benchè nelle lontananze si fosse levata una nebbiolina azzurrognola, che s'infittiva sempre di più. Lungo la strada di Siena, s'accendevano i lumi dentro le case; e c'erano due o tre stelle che sembravano venute troppo presto. La Torre doventava rossa come il fuoco; e sembrava che tutti quei cocuzzoli tondi si radunassero attorno alla Casuccia. Picciòlo gli disse:

— Non pensa a pigliare moglie?

— Ci ho pensato una volta.

— Sarebbe quel che ci vuole.

Il giovane sorrise; ma l'assalariato gli prese una mano e gli disse:

— Io le voglio bene.

Remigio sorrise un'altra volta.

— Non ha piacere che io glielo dica?

— Sì; ma è troppo presto prima che io prenda moglie da vero. Prima — ed esitò [p. 90 modifica]a continuare — prima bisogna che metta al posto tutto. Poi, c'è la matrigna e Ilda.

Dinda si avvicinò:

— Che gli dici al padroncino?

— Gli dicevo che prenda moglie.

Dinda lo guardò ridendo; poi disse al marito:

— Farà quel che vuole.

— Diamine! Non pretendo mica che dia retta a me!

— Scommetto che a Campiglia l'aveva trovata!

— Non ci pensavo nè meno.

Il vecchio alzò la voce:

— A Siena non ce ne sono adatte per lui?

Dinda scosse la testa e disse al marito:

— Quando vedi che torna Moscino, vieni a mangiare; perchè è già pronto tutto.

E se ne andò. Remigio voleva parlare a Picciòlo di tante cose; ma non riusciva a confidarsi. Aveva sofferto troppo; perchè non sentisse che era inutile; e gli venne una grande volontà di far vedere che anche lui sapeva mandare avanti la Casuccia. Il vecchio capovolse la zappa e cominciò a pulirla con le dita. Poi, gli disse:

— Se fosse vivo ancora suo padre e vedesse come le viti crescono belle! Ma! A questo mondo non deve star bene nessuno!

[p. 91 modifica]E se ne andò, brontolando. Allora, Remigio si sentì pieno d'ombra come la campagna. Guardò il podere, già lungo la Tressa; e dov'era già buio. E gli parve che la morte fosse lì; che poteva venire fino a lui, come il vento che faceva cigolare i cipressi.

Istintivamente, si trasse a dietro.