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La mammadraga

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Grillino Re tuono


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LA MAMMADRAGA


C’
era una volta una bambina, figlia d’un calzolaio. La madre, cullandola, le cantava sempre:

— Dormi, figlia Regina! —
Dormi, il Reuccio arriva! —

Il marito, battendo le suole le faceva il verso, per ridere:

— Dormi, il Reuccio arriva,
Dormi, figlia Regina! —

La madre, dopo pochi mesi, morì e il calzolaio riprese subito moglie. Da prima, parve che la matrigna volesse bene alla figliastra. Spesso, accarezzandola, le diceva:

— Ora ti faccio un fratellino. [p. 50 modifica]

— Fratellini non ne voglio.

— Perché?

— Perché... —

Passò un anno. Vedendo che non c’era nessuna speranza di avere un figliuolo, la matrigna, indispettita, cominciò a prendersela con la bambina. La maltrattava senza ragione, la picchiava, le faceva patire la fame. Il suo babbo le voleva bene, ma si lasciava menare pel naso da quella donna.

— Babbo, vostra moglie m’ha picchiato!

— Perché non la chiami mamma? Chiamala mamma.

— La mia mamma non è più qui.

— Allora, fa bene a picchiarti, figlia regina! —

Soleva dirle così.

Una volta la poverina era stata lasciata languire di fame un’intera giornata, e la matrigna voleva che le stesse davanti, a guardarla, mentre mangiava a due palmenti.

— Ogni boccone, uno stranguglione! — borbottò la bambina.

— Figlia di tua madre, via di qua! Non ti voglio più tra’ piedi. Via di qua! —

E, a pugni e a pedate, la cacciò fuori di casa.

Il marito era andato a consegnare un paio [p. 51 modifica]di stivali a un avventore. Tornato in bottega, domandò:

— Dov’è la bambina?

— A fare il chiasso, la fannullona! —

Viene la notte, e la bambina non si vede.

— Oh Dio! Le sarà accaduto un malanno! Vado a cercarla.

— A quest’ora? Lasciamo socchiuso l’uscio di casa. Quando torna, se ne va a letto. —

Il calzolaio, che faceva sempre la volontà della moglie, non insistette. La mattina però, levatosi per tempo, il suo primo pensiero fu per la bambina.

Il letto era ancora intatto, e l’uscio socchiuso.

— Ah, figliolina mia! Dove sarà mai? Vado a cercarla.

— Vuoi perdere la giornata? — disse quella donnaccia — Tu resta a lavorare; vado io. Vedi com’è cattiva! Se la trovo, la picchio di santa ragione. —

E uscì fuori.

— Vicine, avete visto quella bambina?

— Ieri andava di corsa laggiù laggiù. Domandatene più in là.

— Comari, avete visto ieri una bambina che correva? [p. 52 modifica]

— Andava di corsa laggiù laggiù. Domandatene più in là.

— Buona nonna, ieri avete visto passare una bambina?

— Che bambina o bambino? Non ho visto anima viva!

— Perché rispondete con quella vociaccia e quel visaccio, brutta strega? Vi ho detto forse qualcosa di male?

— Il male non l’hai detto, ma l’hai fatto. Tieni! —

E le buttò addosso un catino d’acqua.

Di donna che era, la matrigna diventò lupa; ma lei non se n’accorgeva. Credeva di parlare e abbaiava.

La gente fuggiva al solo vederla comparire.

Torna a casa e infila l’uscio. Il marito spaventato, comincia a tirarle addosso forme, gambali, tutto quel che gli capita sotto mano; poi, afferra un bastone, e giù colpi da orbo.

— Sono io, marito mio! Sono io, marito mio! —

Credeva di parlare e abbaiava. Colui, che [p. 53 modifica] la vedeva in forma di lupa con tanto di bocca spalancata, aveva paura d’esser morsicato; e perciò dava botte che rompevano le ossa.

La donna, vista la mala parata, scappò a gambe levate.

Per le vie, la gente le correva appresso con pali, forconi, spiedi e armi d’ogni sorta.

— Dàgli! Dàgli alla lupa! Dàgli! —

Tornarono addietro soltanto quando la perdettero di vista. S’era rifugiata in una tana.

E la bambina?

Messasi a camminare sempre diritto davanti a sè, giunse all’aperta campagna. Incontrò una vecchietta.

— Bambina, perché piangi? Dove vai?

— La matrigna mi ha scacciata di casa a pugni e a pedate. Vo dove mi portano i piedi; lasciatemi andare.

— Se t’incontrano i lupi, ti sbranano.

— La mia matrigna è assai peggio dei lupi; lasciatemi andare.

— Dormi con me questa notte; domani all’alba andrai via. —

La buona vecchietta la fece entrare in casa, le diè da mangiare e da bere, e la mise a letto.

La mattina, prima che partisse, le regalò un anellino: [p. 54 modifica]

— Tienlo sempre in dito; sarà la tua fortuna. Quando ti trovi in qualche pericolo, di’: «Anellino, aiutami tu!» Ti aiuterà. —

La vecchia era una Fata, e l’anellino era fatato.

Poco dopo sopraggiunse la matrigna. La Fata le buttò addosso il catino d’acqua e la cambiò in lupa. Cammina, cammina, cammina, la povera bambina si smarrì in mezzo a un bosco. Cominciava a farsi buio, e non si vedeva faccia di cristiano.

Dattorno, si sentivano intanto gli urli delle bestie feroci.

— Ora mi mangiano viva! —

La poverina piangeva, col viso tra le mani, seduta per terra.

Tutt’a un tratto, ecco un calpestìo tra le macchie lì accosto, e un fiuto forte forte:

— Uh! Uh! Uh! Oh, che buon odore! Uh! Uh! Uh! Oh, che buon Odore di carne umana!. —

Nel buio s’intravvedeva una forma di persona che andava fiutando forte forte tra le erbe e le macchie:

— Oh, che buon odore! Uh! Uh! —

La poverina, le si accapponava la pelle. Si rannicchiò, dicendo sottovoce:

— Anellino, aiutami tu! — [p. 55 modifica]

E trattenne il fiato. Quella forma nera nera le si aggirava dattorno fiutando:

— La sento e non la trovo! Uh! Uh! —

Frugava rabbiosamente tra le macchie e le erbe, e tornava a fiutare. Una volta la bambina si sentì quel fiato grosso proprio su la faccia, e le si gelò il sangue per la paura.

— Anellino, aiutami tu!

— La sento e non la trovo! È andata via; ha lasciato qui l’odore soltanto. —

E il calpestìo si allontanò tra le macchie e gli alberi folti.

Fatto giorno, la bambina si rimise in cammino.

— Ho fame, anellino; aiutami tu! —

Guarda davanti a sè e scorge su l’erba una fetta di pane e un po’ di cacio. Mangia, beve a una fonte e seguita a camminare. Cammina, cammina, cammina, escì finalmente fuori dal bosco e si sentì allargare il cuore.

La campagna era tutta verde; fiori di qua, fiori di là al due lati della strada, e in fondo una villa in cima a una collinetta, che pareva un giardino.

Fatti pochi passi, vede sopra un albero un grand’uccello con le piume di mille colori. [p. 56 modifica]

— Uccello, è questa la strada che mena lassù?

— Sì, è questa. —

Là finisce ogni dolore,
Chi ci campa non ci muore.

— Che vuol dire?

— Va’ e vedrai. —

Più avanti incontra una scimmia che saltava da un albero all’altro. Un po’ impaurita, domandò:

— È questa la strada che mena lassù?

— Sì, è questa.

Là finisce ogni dolore,
Chi ci campa non ci muore.

— Che vuol dire?

— Va’ e vedrai. —

Davanti il cancello della villa, trovò una bella signora vestita di seta e d’oro con collane, braccialetti, anelli d’oro e di diamanti: un bagliore.

— Ben venuta, bambina! T’aspettavo.

— Mi conoscete?

— Ti conosco, —

E nel baciarla, la tastava tutta. [p. 57 modifica]

— Che carni fresche! Che bel boccone! Vieni, vieni: questa è casa tua. —

E si leccava le labbra con la lingua. La bambina entrò in sospetto:

— Perché dice: Che bel boccone? Anellino, aiutami tu! —

E che si vide dinanzi? Invece della bella signora una brutta megera, con naso ricurvo che toccava il mento e per capelli tanti ser[p. 58 modifica] penti che si agitavano aggrovigliandosi, battendole sulle spalle, avvolgendosele attorno al collo. Serpenti per braccialetti, serpentelli alle dita a mo’ d’anelli: e non più la veste di seta e ricami d’oro, ma di strane pelli di bestie selvagge.

Intanto ella si trovava già dentro, e colei aveva subito chiuso l’uscio a chiavistello.

Era una Mammadraga, che si nutriva di bambini.

Figuriamoci che cuore fece la poverina a quella vista!

— Anellino, aiutami tu!

— Uh! Uh! Che buon odore! —

La Mammadraga la fiutava tutta, ma non poteva toccarla per via dell’anellino e dalla rabbia si mordeva le labbra.

— Che ci hai addosso? Fammi vedere. Perché nascondi le mani? —

La bambina, tremante, le mostrò le mani.

— Oh, che brutto anello! È di rame. Te ne darò uno d’oro.

— Questo mi piace e mi basta. —

La Mammadraga le voltò le spalle e la lasciò sola.

Di fuori, il palazzo della Mammadraga era bellissimo; dentro però una spelonca, con le pareti e le vòlte tutte affumicate, e un puzzo [p. 59 modifica] di carne bruciacchiata che ammorbava. E su per le seggiole gatti neri che facevano le fusa, e per terra rospi che saltellavano; e sui massi sporgenti, gufi appollaiati con gli occhioni luccicanti e il becco insanguinato.

— Anellino, aiutami tu! —

La bambina, rabbrividita, si mise a girare per tutte quelle grotte affumicate, sperando di trovare una buca donde scappare. In fondo c’era un uscio, dietro cui si sentivano voci allegre di bambini che facevano chiasso. Picchiò e l’uscio s’aperse da sè.

Ogni notte la Mammadraga andava a rubar bambini per farsi la provvista, e li teneva chiusi lì a fine d’ingrassarli e averli più saporiti quando doveva mangiarseli.

I bambini che non sapevano nulla, facevano il chiasso.

Ogni giorno ne arrivava uno, due, talvolta tre e ne mancava sempre uno.

Appena videro la bambina, le furono attorno:

— Come ti chiami?

— Caterina.

— Facciamo il chiasso! Fa’ il chiasso con noi!

— Ah, poveretti! La Mammadraga ci mangerà! — [p. 60 modifica]

I bambini si misero a strillare e si attaccarono ai panni di lei.

— Quando viene qui la Mammadraga, teniamoci forte per le mani. L’anellino ci aiuterà. —

Infatti, a mezzogiorno, entrò la Mammadraga per scegliere il bambino da divorarsi a pranzo.

— Bambino, vieni con me; ti porto dalla tua mamma.

— Anellino, aiutaci tu! —

E, presi per mano, si strinsero tutti attorno a Caterina.

La Mammadraga dalla rabbia si mordeva le labbra, si storceva le dita.

— Scellerata, sei tu! Vuoi farmi morire di fame! —

Ma non poteva toccarla, per via dell’anellino. E andò via, con la spuma alla bocca, minacciando. L’anellino faceva miracoli.

— Anellino, abbiamo fame, aiutaci tu! —

E avevano subito da mangiare.

— Anellino, vogliamo dei balocchi! Aiutaci tu! —

E avevano subito dei balocchi. [p. 61 modifica]

— Anellino, vogliamo dei dolci! Aiutaci tu! —

E avevano dolci d’ogni sorta.

Ora che erano avvisati, appena entrava la Mammadraga, si prendevano per la mano e si afferravano ai panni della bambina.

— Scellerata, sei tu! Vuoi farmi morire di fame! —

E la Mammadraga andava via, con la spuma alla bocca, minacciando.

Scappare però non potevano. Una mattina, la Mammadraga tornò alla sua spelonca, seguita da una lupa e la mise di guardia all’uscio della grotta dov’erano chiusi i bambini.

Era la matrigna di Caterina. La lupa la riconobbe, e disse alla Mammadraga:

— Volete l’anellino? Lasciate fare a me! —

Caterina, che ignorava quella trasformazione, veniva spesso davanti l’uscio a pregarla:

— Lupa, lupetta, lasciaci scappare!

— Che mi dài?

— Una bella tana e pecore e polli per pasto.

— Me li procuro da me.

— Lupa, lupetta, lasciaci scappare!

— Che mi dà!?

— Quel che tu vuoi. [p. 62 modifica]

— Quell’anellino.

— Questo no.

— Allora restate tutti a morire lì. —

Così passarono molti mesi.

Una notte la bambina si mise a chiamare:

— Vecchina mia, dove tu sei?

— Eccomi.

— La lupa vuole quest’anellino per lasciarci scappare.

— Dalle quest’altro. —

Le spiegò come doveva fare e disparve.

La mattina:

— Lupa, lupetta, lasciaci scappare!

— Che mi dà!?

— Quel che tu vuoi.

— Quell’anellino. —

Gli altri bambini s’erano già presi per la mano e si tenevano attaccati forte ai panni della compagna.

— Tieni qui — disse Caterina.

La lupa stese la zampa e la bambina le infilò l’altro anellino in un dito.

E che accadde?

Caterina diventò lupa lei, e tutti gli altri bambini tanti lupacchiotti, l’uno con la coda dell’altro fra i denti; il primo teneva fra i denti la coda di Caterina. [p. 63 modifica]

La lupa invece ridivenne donna, e la bambina, lupa com’era, riconobbe in lei la matrigna.

— Scellerata, che m’hai fatto! Ora la Mammadraga mi mangerà! —

E andò a rannicchiarsi nell’angolo più oscuro della grotta.

Venne la Mammadraga:

— Lupa, e questi lupacchiotti?

— Sono miei figli; li ho partoriti stanotte.

— E i bambini?

— Se li è divorati quella lì. —

La Mammadraga si slanciò addosso alla donna e ne fece quattro bocconi. Intanto lupa e lupacchiotti stavano per scappar via. Si udì un urlo:

— È carne avvelenata! Muoio! Muoio! —

Si voltarono e videro la Mammadraga che si rotolava per terra e dava gli ultimi tratti.

— Anellino, aiutaci tu! —

Ridiventati bambini, si presero allegramente per le mani e fecero un ballo attorno la Mammadraga morta, saltando e cantando:

Qua finisce ogni dolore!
Chi ci campa non ci muore.
Chi c’è morto, torni in vita.
Mammadraga l’è finita!

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Andarono a guardare nella grotta accanto, dov’erano ammonticchiate tutte le ossa dei bambini che la Mammadraga s’era spolpati e videro un brulichio di ossa che si ricercavano, si riunivano, si vestivano di carne, ridiventavano bambini vivi.

— Chi c’è morto torna in vita,
Mammadraga l’è finita!

— Andate via, io debbo restar qui — disse Caterina. — Quest’anellino vi condurrà fino a casa. Anellino aiutaci tu! E vi aiuterà. —

Si vide uscire dalla spelonca una fila di bambini presi per mano: pareva una processione che non finiva più. I primi erano lontani un miglio, e gli ultimi appena a pochi passi dalla spelonca. E, andavano via cantando:

— Mammadraga l’è finita!
Mammadraga l’è finita! —

Partiti loro, la bambina stette ad aspettare. La Fata le aveva detto quel che sarebbe avvenuto.

A un tratto, gran rumore, quasi la spelonca crollasse. [p. 65 modifica]

Invece la spelonca diventava un palazzo così magnifico, che lo stesso palazzo del Re era niente al paragone.

Venne l’uccello dalle piume di mille colori.

— Padrona, comandate. Ora la padrona siete voi. —

Venne la scimmia, saltellando, facendo mosse buffe:

— Padrona, comandate. Ora la padrona siete voi. —

E Caterina veniva servita come una Reginotta.

Passarono parecchi anni. Ella si era già fatta una bella ragazza; ma, sola sola, in quel palazzo cominciava ad annoiarsi.

La Fata le aveva detto:

— Devi attendere il Reuccio di Francia. Se non vien lui, non puoi uscire di qui. —

E attendeva, stando alla finestra, guardando lontano tutti i giorni, se mai il Reuccio arrivasse. Una mattina, ecco un uomo laggiù che prendeva la strada della collina:

— Sarà il Reuccio. —

Indossò i più begli abiti, si ornò delle gioie più brillanti, e gli andò incontro in [p. 66 modifica] cima alla scala. Invece era un povero vecchio.

Saliva gli scalini a stento, appoggiato a un bastone.

— Chi siete? Dove andate?

— Vo pel mondo in cerca della mia figliuola. L’ho perduta da tant’anni! —

Lei finse di non riconoscere suo padre, ma dalla contentezza, aveva le lagrime agli occhi.

— Mangiate, bevete, e riposatevi. La vostra figliuola non è lontana di qui.

— Come lo, sapete, signora mia?

— Lo so. —

Il giorno dopo, il vecchio si apprestava a partire.

— Non vo’ chiudere quest’occhi, prima di ritrovare la mia figliuola.

— È qui vicina. L’ho mandata a chiamare. Mangiate intanto, bevete; vi servo a tavola io stessa. —

Poteva mai immaginare che la sua figliuola avesse quel palazzo e fosse così straricca?

No!

Finalmente, una sera, ecco squilli di trombe e scalpitio di cavalli. Il Reuccio di Francia arrivava col séguito. Si trovava a caccia in quei dintorni, e visto il palazzo in cima alla [p. 67 modifica] collina, aveva pensato di chiedere ospitalità per quella notte. Il Reuccio era di malumore. Una zingara gli aveva predetto:

— Sposerete la figlia d’un calzolaio!

— Ti si secchi la lingua! —

E, per distrarsi del brutto presagio, andava a caccia tutti i giorni. Vedendo quella bella giovane, rimase sbalordito.

— Principessa, vi saluto.

— Non sono principessa, Reuccio.

— Che cosa siete?

— Quel che vuole il Reuccio.

— La mia Reginotta, qua la mano.

— Di là c’è mio padre; chiedete il suo consenso. —

Trovatosi a faccia a faccia con quel misero [p. 68 modifica] vecchio, il Reuccio si credette burlato. Pure, per curiosità, gli domandò:

— Siete voi il padre di Caterina?

— Sono io.

— Io sono il Reuccio di Francia e voglio sposarla.

— Reuccio, non sta bene farsi beffa d’un povero vecchio! Mia figlia è perduta e non so dove sia. La cerco invano da tant’anni.

— Che commedia è questa! — esclamò il Reuccio, sdegnato.

Entrò Caterina:

— Dite, buon vecchio: dopo tant’anni come riconoscereste la figliuola?

— Ha tre nèi sotto la nuca.

— Come questi qui? —

E si chinò per farglieli vedere.

— Ah! Figliuola mia! Figliuola mia! —

Si gettarono, piangendo, l’uno tra le braccia dell’altra. Il Reuccio, tutto contento, disse al vecchio:

— Ora manca soltanto il vostro consenso.

— E sposereste la figliuola d’un calzolaio? —

Il Reuccio stupì! La zingara aveva predetto il vero.

La giovane però era così bella che non c’era Reginotta al mondo da starle a paro. [p. 69 modifica]

Il calzolaio diventò Principe, e sua figlia Reginotta.

— Dormi, figlia Regina!
Dormi, il Reuccio arriva! —

Ed era arrivato davvero!

Fiaba detta, fiaba scritta,
A chi va storta, a chi va diritta.