Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Piazzena/I

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Piazzena Piazzena - II
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Sul finir di settembre si recò al suo nuovo posto, a Piazzena, che era uno di quei tanti villaggi di rasa pianura, i quali, veduti una volta, si confondono alla memoria con altri cento, come i campi di grano e di meliga che vi si stendono intorno fin dove arriva la vista. Vi arrivò in piena quiete meridiana, un giorno di sole, e gli parve d’entrare in un villaggio abbandonato. Per le viuzze torte, sparse di paglia e di sterco, fiancheggiate da case con le persiane chiuse e da lunghi muri di cinta, non incontrò quasi anima viva. Dai portoni aperti dei cortili rustici usciva un odore acuto di strame e d’animali bovini, e su certe piazzette erbose pascolavan dei porci. Le chiese eran chiuse. Vide un prete sparire in una porticina, una donna svoltare in un vicolo. Non si sentiva qua e là che il rumor delle fontane e il mormorio dei rigagnoli: da ogni parte verde d’alberi e di campi: sonavano i rintocchi del mezzogiorno, che non finivano mai.


Don Pirotta, al quale il Ratti portò una lettera di presentazione del suo protettore, lo ricevette come un amico. Era un uomo sulla cinquantina, che pareva vecchio, tanto era malandato di salute; ma d’aspetto geniale e di modi signorili, dai quali traspariva il desiderio di parere una persona fina e benevola, ma più per effetto d’una educazione e d’una cultura compita, che per indole. Gli parlò bene del paese: un comune [p. 84 modifica]ottimamente amministrato, benchè come tutti, diviso in due partiti, piuttosto vivi. — Ma lei — gli disse — non se ne occupi; vada franco tra la gente e frequenti chi le piacerà, perchè tanto anche a viver solitario, a far l’amico di tutti, in uno dei due partiti lo tireranno, o sarà malvoluto dall’uno e dall’altro, se le riuscirà di tenersi fuori di tutti e due. Un maestro di villaggio che non si decide per alcuna parte, creda, si fa nemico persin l’inserviente comunale. Veda di adattarsi a certe esigenze del signor parroco, per evitare attriti. Faccia lo stesso col sindaco, che ha certe sue fissazioni (e sorrise) in materia di grammatica, ma che, in fondo, è un uomo eccellente. Troverà un ottimo locale delle scuole. — Poi gli diede dei consigli pratici intorno ai bottegai, dai quali avrebbe dovuto servirsi, se contava di far cucina da sè. C’era un consigliere macellaio, uno droghiere; il soprintendente, marito d’una cugina del sindaco, era il primo pizzicagnolo del paese: sarebbe stato prudente che mandasse a comperar da loro, piuttosto che da altri. — Insomma — concluse — con un poco di tatto, e non dando gran peso alle chiacchiere che sentirà da ogni parte, si troverà bene fra noi. E potrà farsi onore. —


Il maestro pose mente soprattutto al consiglio che rifletteva i partiti; il quale era più assennato che non credesse, perchè già, per il solo fatto ch’ei doveva arrivare a Piazzena con una lettera per don Pirotta, e un mese avanti si sapeva, l’avevano ascritto tutti al partito di lui. Il partito dominante era quello che chiamavano il partito del parroco; fra il quale e il Pirotta, cappellano d’una Confraternita e fondatore d’un asilo infantile, che gli aveva fruttato la croce di cavaliere, correva una viva animosità, nata da una lotta dell’anno avanti. Geloso dei trionfi oratori del Pirotta, che gli vuotava la chiesa parrocchiale, il parroco aveva proibito che s’aprisse di sera la chiesa della Confraternita, durante le funzioni del mese di Maria; ma i confratelli avendo ricorso al vescovo, questi aveva dato alla Confraternita piena libertà di celebrare. Donde le ire del parroco. Il quale, per altro, aveva preso ben presto la sua rivincita, riconquistando il favore del vescovo, [p. 85 modifica]dicevano, col rimettere nelle sue mani una buona somma, ricavata dalla vendita d’una casa, che costituiva la dote d’un legato fiduciario lasciatogli da un parente canonico del paese, con l’obbligo di far celebrare in perpetuo una messa festiva in una borgata vicina. E forte della protezione vescovile e dell’amicizia del sindaco, uomo religioso e cedevole, s’era alzato strapotente nel comune, aveva impedito l’istituzione d’un teatrino di filodrammatici, imposto all’asilo le monache che voleva lui, ottenuto dal municipio una somma annuale per le lampade della chiesa, e, quello che più gli premeva, fatto nominare soprintendente scolastico, in vece di don Pirotta, il pizzicagnolo, devoto al sindaco e alla canonica, per mezzo del quale poteva tener mano in pasta nelle cose dell’istruzione.


Il nostro maestro, dunque, apparteneva già, senza saperlo, al partito oppositore, quando incominciò le sue lezioni, ai primi d’ottobre. Egli fu molto contento dell’edifizio delle scuole, essendo persuaso di quello che soleva dire il MegáriFonte/commento: normalizzo, che un bell’edifizio scolastico è il miglior mezzo di propaganda in favore dell’istruzione presso la gente della campagna. Era una casa costrutta apposta, in una piazzetta fuor di mano, accanto a una vecchia cappella: un gran dado bianco, che aveva le classi maschili da un lato e le femminili dall’altro, con due porte d’entrata sulle due opposte facciate, davanti alle quali s’aprivano due cortiletti. Fu poi, più che contento, maravigliato della bianchezza intatta delle pareti e dello stato di conservazione dei banchi. C’era poca cosa: quattro carte geografiche, che dovevano esser state levate da un atlante, una lavagna troppo piccola e un solo cartellone di nomenclatura di piante; ma tutto pulitissimo, come comprato allora. Il ritratto del re, in oleografia, era fiancheggiato da due grandi quadri di soggetto religioso, raccattati forse in qualche rigatteria, ma rinverniciati di fresco. Fu anche stupito della sufficiente pulizia dei suoi trentacinque scolari, e della lindura soldatesca del vecchio inserviente comunale, che portava una giacchetta di velluto nero e un berretto gallonato d’argento, e aveva sempre la barba fatta. E gli andarono a genio pure i suoi colleghi, coi quali si trovava ogni giorno [p. 86 modifica]all’entrata e all’uscita nella piccola sala d’aspetto, bianca e fresca come tutto il resto.


La maestra di 2a, che stava da dodici anni nel paese, era una signorina fra i trentacinque e i quaranta, lunga e pallida, un viso di ragazza patita, coi capelli lisciati sulla fronte, con gli occhi dolci, con una bocca affettuosa e triste; vestita più che modestamente e sempre ad un modo, come se portasse un abito religioso. Il giovane sentì con piacere che la madre di lei, che viveva con la figliuola, era stata molti anni nella sua città natale, e v’aveva conosciuto sua madre. L’altra maestra era una ragazza sulla trentina, vestita bene e formata meglio, di modi cortesi e dignitosi; della quale lo colpirono sul primo momento gli occhi vivissimi, mobilissimi, astutissimi, che facevano dei veri fuochi d’artifizio sotto due grandi sopracciglia raggiunte, e un singolare atteggiamento della bocca grande e sensuale, da cui pareva sempre che dovesse scappare un frizzo, ch’ella poi rattenesse, sorridendone discretamente. Il maestro era un buon vecchio settuagenario, d’aspetto onesto e rassegnato, lentissimo nel muovere e nel parlare, oberato d’una gran pancia, non prodotta sicuramente da esuberanza d’alimentazione; il quale contava poco men d’un mezzo secolo di servizio, prestato quasi tutto, in due riprese, a Piazzena: di modo che c’eran nel Consiglio comunale parecchi dei suoi antichi alunni, e alcuni di questi si vendicavano con piccole sevizie, trent’anni dopo, dei rabbuffi ch’egli aveva fatti loro alla scuola. Mancavano al pover’uomo due dita della mano sinistra, che aveva perdute in un villaggio di Val di Sesia, dov’era stato maestro due anni. Un suo alunno, la cui famiglia teneva a dozzina due minatori, aveva portato in scuola una capsula di dinamite, rubata nel guardaroba dei suoi dozzinanti, e stando solo nel banco della berlina, l’andava rivoltando in tasca per gioco. Non obbedendo egli al comando di buttar via il suo trastullo, il maestro glielo aveva afferrato per levarglielo, e in quel tira tira la capsula era scoppiata, sfracellando la mano a tutti e due. Piccoli incerti della professione.