Il sorbetto della regina/Parte prima/XII
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CAPITOLO XII.
Ciò che ci cerca e ciò che non si cerca.
Quella istessa mattina verso le dieci, un uomo molto avanzato di età e considerevolmente maltrattato dalla fortuna si presentava al vico Pellari, numero 3.
Aveva una benda di seta verde sull’occhio sinistro; balbettava, zoppicava e sopra una faccia troppo matura, sfoggiava un paio di mustacchi neri, che prendevano a gabbo i suoi capelli grigi. Portava brache di cotone quondam azzurro, una giubbetta di velluto di cotone una volta nero, una cravatta di cuoio a mo’ dei soldati, un panciotto di piqué, una volta giallo, a punte scure e un copricapo che tirava al rossiccio pei lunghi servigi prestati.
Questo personaggio salì la scala mandando una quantità di sospiri e trascinando la sua gamba dritta con visibile stento. Malgrado ciò, arrivò senza accidenti al settimo piano, e si fermò sul pianerottolo per prender fiato. Si trovò di faccia ad un uscio aperto ed in mezzo ad un monte d’immondizie.
Nella stanza una donna scopava e rimoveva le spazzature dalla scala. Era alta, magra come il San Girolamo del Domenichino, coi capelli grigi, sucidi, che s’abbaruffavano sopra una testa, del resto, fina e scoverta. Era vestita alla grazia di Dio, se si può chiamar vestito quel brandello di gonna che le arrivava a mezza gamba. Aveva i piedi senza calze, in una sorta di pantofole; una camiciuola di calicot denunziava l’assenza della camicia, che stava infrattanto asciugando alla finestra.
Quella donna aveva la schiena voltata e brontolava sola sola.
L’uomo gettò un’occhiata nella stanza ed osservò dietro un paravento, tutto stracciato, un giaciglio che faceva le veci di letto; presso alla finestra, due seggiole, di cui una serviva di tavolino da lavoro a qualcuno che attendeva a cucire ed a ricamare e che non era là in quel momento; poi altre due seggiole che davano una smentita a tutte le leggi dell’equilibrio; un vecchio armadio di legno bianco, tutto sucido, sopra il quale v’era una mezza dozzina di tondi rotti o screpolati. In un angolo della stanza, sur un fornellino, un vaso di creta, ove bollivano probabilmente quei cavoli, di cui alcune foglie erano sparse sul pianerottolo. Ed era tutto, se si aggiunga un tavolino di pioppo, lercio come il resto, appoggiato al muro e che non conservava più che tre delle sue gambe. L’uomo tossi, sputò, ma la donna non se ne diede per intesa.
L’uomo incrociò le braccia ed aspettò che l’operazione dello spazzare facesse arrivare la donna verso l’uscio. Ciò, infatti, non tardò guari ed allora l’invalido della malattia potè considerare l’invalida della società.
Non si poteva più dire cosa fosse stata quella donna in tempi remoti.
Non aveva più età: il suo viso non presentava più che degli ossi tappezzati di una pelle simile al cuoio di Cordova, di cui una volta si coprivano i seggioloni, e degli occhi che fiammeggiavano come una bestemmia in mezzo ad un discorso d’archeologia.
Quei residui sembravano orribili!
Diede un’occhiata all’uomo ritto sulla soglia e continuò a spazzare, spingendo il pattume e la polvere fra i piedi dell’importuno.
Quest’ultimo si decise, alla fine, ad aprire il fuoco.
— Zi-zia, chiese egli, sa-a-preste di-dir-mi a che pi-pi-piano di-mo-mo-ra Se-se-se-rafina Mi-Mi-Mi-nu-nu-to-lo?
Alla prima parola, la donna aveva levato gli occhi su quell’individuo e di uno sguardo rapido e penetrante, come succhiello, l’aveva trapassato dall’alto in giù. Si fermò appoggiandosi al manico della granata e aspettò la fine della frase, che le parve evidentemente lunga, poichè sclamò:
— Finalmente! andavo a cercare le tanaglie, per farti l’estrazione della tua tartagliata. Monta ancora un piano e troverai la tua Se-Se-ra-fina Mi-Mi-Mi-nu-to-tolo, o zo-zo-zoppo del diavolo, e che il diavolo ti strangoli.
Per non annoiare il lettore, scriveremo correntemente il resto di questa conversazione; tanto più che la donna, per canzonatura, si mise anch’essa a balbettare.
— Un piano più su? sclamò l’uomo; datemi, dunque, una scala per salire in cielo: a meno che non intendiate dirmi che la è morta.
La camera della donna che spazzava era sotto il tetto, o, a meglio dire, sopra quella terrazza che serve di tetto alle case di Napoli e che chiamano astrico.
— E che cosa vuoi dunque farne, quell’uomo, della tua Se-se-ra-rafina?
— È il curato di san Matteo, don Gennaro Tibia, che mi manda.
— Non conosco codesto messere; giù per la tua via, povero di san Gennaro.
— Signora duchessa, sclamò l’uomo adirato, io non sono un povero di san Gennaro; io vivo delle mie entrate.
— L’avevo immaginato, disse la donna d’un tono ironico. E così?
— Il curato m’ha detto che questa Serafina Minutolo, una buona donna di questa parrocchia, faceva il mestiere di cucitrice. Si sarebbe forse ingannato sulla buona donna?
— Si è ingannato, buon uomo; non si cuce più qui.
— No? chiese l’uomo dando un’occhiata scrutatrice per la stanza. Eh! la vecchia, avresti guadagnato un terno al lotto?
— No, ma ne guadagnerò uno giuocando i tuoi numeri, mariuolo, rispose quella megera: l’occhio guercio che ci vede chiaro, 7; i mustacchi di crine da cavallo, 71; la lingua alla salsa piccante, 43. Eh! il terno è fatto: 7, 71, 43.
— Non scherzare sulle mie infermità, pezzentaccia, e rispondimi.
— Le tue infermità? graziosa! No, non lavoro più ora. Sono possidente.
— Me n’accorgo, disse l’uomo grattandosi la gamba. Avete delle minute greggie qui.
— E del bestiame grosso come te, rispose la vecchia rimettendosi a scopare.
— Quando uno nasce sotto una cattiva stella, non ha fortuna in nessuna cosa.
— Avresti vissuto sessant’anni avanti di scoprir questa bella massima?
— Penso al mio povero sergente.
— Ah! abbiamo anche un sergente. È della stessa tua parrocchia, eh?
— No, m’inganno, il mio sergente porta fortuna. M’imbrogliate le idee, vecchia.
— Va a contarlo ai Quattro del Molo (come chi dicesse a Milano: va a dirlo alle statue del Duomo).
— Immaginatevi, vecchia, continuò l’altro senza scomporsi pel brutale congedo, che l’anno passato una buona signora....
— To’! to’! c’è anche una buona signora. Marchese, mi presenterete a lei. Così saremo in numero completo.
— Va al diavolo, pettegola. M’intorbidi le mie memorie ed offuschi le grazie del mio racconto.
— Ti occorre una poltrona? devo farti venire del caffè col rhum? il giornale di Napoli ed una pipa?
— Conchiudo. La mia buona signora manda ogni anno sei camicie al mio sergente.
— Birbo di sergente! Ecco un uomo che deve esser ricco in camicie. E’ non ha altrettante pipe nell’anno! Io, in tre anni, non ho avuto che due camicie.
— Vedo e riconosco che non fai grandi sfoggi di biancheria! Il fatto sta, vecchia, che l’anno scorso ho portato le sei camicie del mio sergente ad una femmina della tua risma. Credo anzi che fosse un po’ meglio di te; aveva delle calze di seta. È vero che le venivano da un canonico, poichè eran rosse; ma aveva anche sul capo un fazzoletto color arancio, che doveva venire dall’istessa fonte. Per finirla, promise di cucire le mie camicie e mi disse d’andar a prenderle otto giorni dopo.
— Indovino la tua storia, caporale. Quella mariuola ha mangiate le camicie.
— No, le ha bevute; ma ciò le portò fortuna. Giuocò al lotto la gherminella che aveva fatto al mio sergente: le camicie, 37, il sergente, 61, lo scherzo — derubare un povero invalido lo riteneva uno scherzo — 84. E 84, 37, 61 uscirono tutti e tre. Guadagnò 48 ducati, cambiò casa ed il mio sergente restò l’anno scorso senza le camicie.
— Povero uomo! esclamò la donna.
— Di maniera che la mia buona signora voleva far cucire quelle di quest’anno da una persona sicura e ne ha chiesto al parroco, che le diede l’indirizzo di Serafina Minutolo. Dove sta questa Serafina, zi-zi-a?
— Non la conosco, caporale.
— Il mio povero Sacco-e-Fuoco non ha fortuna.
— Chi è codesto? abbiamo ancora un Sacco-e-Fuoco al presente?
— È il nome del mio sergente.
— Graziosa! caporale. Tu eri, dunque, il cappellano del tuo reggimento, eh?
— È un soprannome. Il suo vero nome è Pietro Colini.
La donna, che continuava a spazzare, si fermò e del suo sguardo avviluppò l’uomo. Fu un lampo. Di gialla la sua pelle divenne grigia. Ma ciò non durò che un secondo. Si rimise a scopare con più furia di prima. L’uomo non fece attenzione a quella nube passeggiera, giacchè sembrava commosso, e disse:
— Zia, dammi una sedia.
— Per far che?
— Per porre a sedere la mia emozione, vedi. Egli è che quando penso a certe cose vecchie....
La donna lo guardò di nuovo con una strana fissazione delle pupille, poi rispose freddamente:
— Ti occorrerebbe, per avventura, ancora un cordiale? Lascia che accenda la tua pipa, almeno; l’hai spenta colle tue lagrime.
— Vi sono delle cose che fan gomitolo sul cuore, vecchia, ed il tuo cuore stesso, che è fatto di vecchia suola, ne sarebbe commosso.
— Lo credi? uomo tenero!
— Ho detto sergente. Ebbene, no! il mio povero Pietro Colini era colonnello, decorato della Legion d’onore, barone, e, se Napoleone non fosse caduto, l’avrebbe nominato conte e generale sul campo di battaglia di Waterloo.
— Sei, dunque, tu che l’hai degradato, e ne hai fatto un sergente all’imboscata di sei camicie, caporale?
— Zitto, strega, sono essi.
— Chi essi? i tuoi padroni? coloro che ti danno le tue rendite?
— I ritornati: i Borboni. Egli aveva lasciato una donna, partendo.
— Che gli cuciva le camicie?
— Ch’egli amava, vecchia, e che voleva menare in moglie al suo ritorno. Voleva pure dare un padre al figliuolo che le aveva lasciato partendo. Capisci ora, strega? Ma nulla. Giuseppina, credo che si chiamasse qualche cosa come così, quella bella giovane, era sparita.
L’uomo fissò gli occhi sulla donna, che scopava sempre, senza saper ciò che si facesse, a scosse, a sbalzi, con mano convulsa. E gli voltava sempre la schiena.
— È, dunque, morta codesta... come la chiami? codesta bella giovane?
— Il mio colonnello l’ha creduto e lo crede ancora. La camera ove egli l’aveva lasciata, vico del Sole, al suo ritorno, era occupata da un cuoco.
— L’è proprio sfortunato codesto tuo colonnello-sergente.
— Se ne tornò al suo paese, dove si diverte a dare la ferula ai ragazzi. Ora, mi dirai dove abita questa Serafina Minutolo?
— Hai finito, brutto spione, colle tue storie, eh?
— Quali storie, dunque?
— E che sì che il tuo curato e la tua buona signora non si chiamassero ei forse il commissario Campobasso e madama polizia?
— Che diavolo borbotti, dannata megera! Tu mi insulti!
— Io sono Serafina Minutolo. E poi? cosa vuoi adesso?
— Se tu accogli così coloro che ti portano del lavoro, come mai ricevi tu il padron di casa quando viene a riscuotere il fitto?
— Te lo mostro io, come lo ricevo, sclamò Serafina alzando la sua scopa sopra don Gabriele, che il lettore avrà già riconosciuto.
Don Gabriele non attese questa dimostrazione pratica.
Dimenticando che era zoppo, fece un salto dalla camera al pianerottolo, gridando:
— Che il diavolo ti confonda! Se non si trattasse che di te, madrigna di Satana....
Non aggiunse di più, perchè la scopa gli rasentò la faccia come un cervo volante. Mentre si precipitava giù per le scale, rovesciò quasi una ragazza che saliva tutta trafelata.
Questa non si azzardò a guardare, tanto più che la scala era buia. Don Gabriele restò sul pianerottolo del quinto piano sbirciando in su. Scorse Serafina che lo seguiva, poi la vide trascinata dalla giovinetta e l’uscio della stanza si chiuse con fracasso.
Don Gabriele si preparava a rimontare per andare ad ascoltare all’uscio. Uno strepito di passi ed un suono di voci ne lo stornarono. Scese e si trovò nel cortiletto faccia a faccia con una vecchia che anch’essa, ansimante, principiava a salire.
La vecchia era corta e grossa. Aveva in testa un cappello giallo con fiori azzurri; portava un vestito color arancio ed uno sciallo verde, sprizzato di fiori rossi.
Un cespuglio di ricci neri le scendeva sul fronte e si confondeva con le sopracciglia, nere esse pure, ma che, per disgrazia, assalite da grosse goccie di sudore, si stringevano e solcavano la faccia di strisce grigie. La degna matrona aveva dei mustacchi vecchi appena di otto giorni, un parasole viola, un ventaglio ed un barboncello che giuocando le mordeva i polpacci e le gualciva il vestito.
— Giù, Tobia, giù sta quieto; non ho voglia di scherzare, capisci? Badate, signore, diss’ella tirandosi da una parte per lasciar passare il burattinaio, badate di non pigliare le zampe di Tobia.
Don Gabriele si schivò, squadrandola, e togliendosi la benda dall’occhio sinistro.
Erano le undici. Andò da Bruto e gli raccontò ciò che gli era accaduto.
— Per me, soggiunse, non c’è più dubbio; quella donna è la giovane del 1814 del nostro colonnello. Ella fiuta sempre la polizia alle sue calcagna. Le disgrazie l’hanno scaltrita.
Bruto si precipitò alla finestra e restò stupidito. Don Gabriele lo seguì.
— Che cosa c’è? chiese egli.
— Guarda, rispose Bruto.
La vecchia, che don Gabriele aveva incontrata appiè della scala, era seduta in faccia alla finestra. Aveva vicino una serva che, dopo aver spiegato degli involti, sciorinava sulle sue ginocchia due bei vestiti di seta, uno sciallo, due cappellini e dei gioielli. Giuseppina stava accosto alla donna dal cappello giallo; di dietro, Lena. Tutti ammiravano: la donna dal cappello giallo, Giuseppina e la serva, prorompendo in esclamazioni entusiastiche: Lena in silenzio, ma cogli occhi brillanti di desiderio. Bruto si coprì il viso e volgendosi sclamò:
— Ecco, dunque, le donne che dobbiamo annunziare al colonnello.
— Andiamo a pranzo, rispose don Gabriele.
— E sloggiamo presto, soggiunse Bruto. Io soffoco, qui.