Il sorbetto della regina/Parte prima/XI

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Parte prima - XI. Tutto per il meglio

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CAPITOLO XI.


Tutto per il meglio.


Non so quanto tempo Bruto rimase in quella posizione. Pregò e pensò. Fino allora aveva tutto al più vaneggiato.

I vicini, affaccendati, pieni di buona volontà, facevano tutto quel che potevano per rendersi utili.

Consolavano Tartaruga, che, al pari di Rachele, non voleva essere consolata; s’impietosivano sopra il dolore muto ed intenso di Bruto, e mentre si raccontavano l’accaduto, la causa, il corso della malattia, ne cavavano fuori un terno al lotto.

Per i Napoletani, tutti i fenomeni della vita cosmica e sociale sono enigmi, che racchiudono dei numeri pel lotto.

Con delle tavole e delle sedie che ognuno s’affrettò d’imprestare, si rizzò una specie di letto mortuario nel mezzo della stanza, sopra il quale fu posto don Noè, lavato e vestito di ciò che aveva di meglio, la testa verso la porta. [p. 98 modifica]

Quattro ceri, su degli alti candelabri da chiesa, ardevano intorno alla bara. Il cadavere era scoperto. Tartaruga fra un’orazione e l’altra dava un ordine o una indicazione. Bruto, nell’altra stanza, solo colla testa appoggiata sulle mani, le mani sopra la spalliera della sedia, non vedeva nè udiva nulla.

Venne la notte. I vicini si ritirarono. Bruto, Tartaruga ed il cadavere restarono soli. Il bidello e l’inserviente della chiesa si unirono per mandar loro due tazze di cioccolata e di quei biscottini spolverizzati di zucchero che si chiamano tarallucci. Poi tutto divenne solitudine nella camera, nella casa, in istrada, nella città. Tartaruga, che pregava appiedi della bara, soccombendo alla fine al sonno, si accasciò su sè stessa. Bruto passeggiò nelle due stanze.

Era il mese di agosto; faceva ancora gran caldo.

La notte era molto avanzata, la finestra aperta e la luna, pura e grave, navigava in un cielo azzurro d’una profondità senza confini. Bruto rifletteva.

Egli si sentiva ormai solo, assolutamente solo. Questo zio, per poca cosa che fosse, per piccolo posto che occupasse nel mondo, benchè brontolone, volgare, ignorante, esigente, era pure un legame che lo attaccava alla società. Questo zio lo riuniva anzi a tutta una classe sociale potentissima e d’una influenza capitale: la gente di chiesa. Morto il sagrestano, tutte le relazioni erano rotte, perchè Bruto, senza odiarla proprio, sentiva una invincibile ripugnanza per quella parte della società che specula sull’a[p. 99 modifica]nima umana e che si chiama chiesa. Questo zio era ancora una bussola. Ora egli era solo. Sua madre era morta, suo padre istupidito.

Oltracciò era povero e la via, che doveva percorrere per guadagnarsi il pane, era irta di spine. Di medicina non sapeva che ciò che gli restava stereotipato nella memoria delle lezioni del suo professore; ma al letto degli ammalati aveva capito che era ancora molto ignorante. Seguendo il dottor Tibia, nel mondo aveva intravisto la società. Il gran mondo gli pareva quella gabbia di leoni, dove entrano solamente i domatori di bestie feroci. Egli comprendeva che bisognava avere una maglia d’acciaio sotto un abito di velluto.

La natura l’aveva già armato per più che tre quarti dotandolo di una intelligenza rara e di simpatico aspetto. Bruto era avvenente. Aveva ventiquattro anni; la statura avvantaggiata e ben proporzionata, la testa alta con bellissimi occhi neri, i capelli nerissimi, le labbra rosee e i denti bianchi s’univano ad un contegno, che sarebbe forse stato volgare, se la modestia e la timidezza non gli avessero dato un’aria riservata e distinta.

Bruto mancava di coraggio fisico quando la riflessione lo padroneggiava. Lo spettro della polizia lo rendeva vile. Sentiva che questa forza misteriosa si volgeva sempre contro tutto ciò che avesse l’impronta d’una individualità. Ma egli aveva il germe del coraggio morale. Era mestieri che la educazione della mente e del cuore sviluppasse questo germe. Egli aveva volontà e costanza. [p. 100 modifica]

La notte che passò dinanzi a quel cadavere in faccia al suo passato e in vista del suo avvenire, fu per Bruto come la veglia dell’armi degli antichi cavalieri.

Prese molte risoluzioni, internamente e giurò di mantenerle. Era un piano di battaglia ch’egli preparava: se ne sentì rialzato. Il figlio del barbiere, il nipote del sagrestano, di sua volontà, si allogava fra gli eletti della società, fra quelli che la illuminano, ne profittano, la servono e la dominano. In uno di questi soffi d’orgoglio, Bruto, passando dinanzi alla bara, rialzò il capo e fissò il suo sguardo sul cadavere.

La luna, che entrava a fiotti dalla finestra aperta, inondava dall’alto al basso il calvo cranio del morto, mentre il lume dei ceri lo rischiarava al basso.

Il contrasto delle due luci produceva un effetto strano. Quella testa sembrava rianimata e un non so che di sardonico spirava da essa. Gli occhi di Bruno caddero su quel viso ironico, che lo agghiacciò di terrore. Andò presso la finestre per chiuderla.

Allora vide rimpetto a sè la finestra di Lena rischiarata. Qualcuno vegliava dietro quei vetri. Se qualcuno vegliava a quell’ora, gli è perchè lavorava; se quel qualcuno lavorava, non poteva essere che Lena. Sua madre doveva russare da lungo tempo. Il pensiero di quella giovane, che passava le notti a cucire o a ricamare per guadagnar il pane, gli fu di sollievo.

Lasciò la finestra aperta e avvicinatosi al cadavere, esclamò:

— Vedrai, zio, se terrò ciò che mi son promesso. [p. 101 modifica]

E continuò a passeggiare.

Spuntò l’alba.

Il panorama cangiò nell’interno di Bruto ed all’esterno. Rassettando la stanza per ricevere i preti, il santese ed i membri della confraternita in cui era ascritto don Noè, Tartaruga smosse il cappello che Bruto aveva gettato sulla tavola, entrando il giorno precedente e trovò la lettera che il parroco inviava al sagrestano. Bruto la prese e l’aprì. Alla prima parola, che lesse, fece un salto come una palla elastica. Lesse in fretta le tre o quattro linee che conteneva e corse alla finestra.

Quella di contro era ancora chiusa.

L’aurora si alzava sul mare ed infiammava il cielo.

Bruto cadde affranto sopra una sedia.

In quel momento don Gabriele entrò.

Era la sola persona, quasi, che Bruto considerasse come un amico. E veniva chiamato da Bruto, per attendere al funerale.

Bruto cacciò la lettera in tasca e disse a don Gabriele che gli parlerebbe più tardi.

Poco dopo vennero i preti e la confraternita e il cadavere fu trasportato alla chiesa di San Matteo per la celebrazione delle esequie.

Tartaruga lo seguì.

Bruto restò solo di nuovo.

Si gettò sul letto e pianse.

Mezzogiorno era passato di molto quando Tartaruga, tutta in lagrime, e don Gabriele, con delle provvigioni nella pezzuola, ritornarono dal cimitero.

Alla vista di quelle stanze, vuote dell’uomo [p. 102 modifica]che era tutto per lei, Tartaruga lasciò erompere la commozione. Don Gabriele, senza aprir bocca, si mise a preparare le costole sulla graticola e la salsa di pomi d’oro per i maccheroni che aveva comperati.

Faceva come se fosse in casa propria.

Bruto lo chiamò, tirò di tasca la lettera del parroco e gliela porse.

Don Gabriele lo guardò in una certa maniera, poi disse con gravità:

— Non ho i miei occhiali; leggete voi, se è per leggerla, e non per accender il fuoco, che mi date questo pezzo di carta.

Bruto lesse:

“Caro don Noè....„

Si fermò un momento per mandar giù un singhiozzo che gli sollevò il petto, poi proseguì:

“In una lettera del segretario dell’arcivescovo che ricevo or ora, c’è questo paragrafo che v’interessa. Non possiamo nulla precisare riguardo a quella Giuseppina Tortora sulla quale ci chiedete informazioni. Troviamo però però alcuni indizii di rassomiglianza con una certa Serafina Minutolo, che abita nella vostra parrocchia, vico Pellari, n. 3, settimo piano. Prendete voi stesso informazioni più complete.„

— Vico Pellari, n. 4, Serafina Minutolo, brontolò don Gabriele; va bene, vedremo.

— È qui in faccia, disse Bruto.

— Lo so!

— Potete vederla da questa finestra.

— L’è buono per gli amanti codesto, ma non si fanno investigazioni da confessore o da com[p. 103 modifica]missario di polizia, in prospettiva. Andiamo a desinare.

— Non ho fame.

— È una frase che non si deve dire che alle frutta, osservò don Gabriele e non mai alla minestra.

Tutto era pronto. Sedettero a tavola.

In quel punto si aprì la porta ed entrò il santese della chiesa.

Tartaruga lo invitò, ma il santese ringraziò con voce commossa.

— Vengo, disse, da parte del nostro parroco.

— Il principio è edificante; cattive notizie allora, esclamò il burattinaio. Ma ciò non impedisce il bere un gotto di gragnano.

Il santese accettò e don Gabriele disse:

— Ora parlate: che vuole il vostro parroco? scommetto che l’indovino.

— Non è cosa difficile, rispose il santese e ve lo spippolo in una parola: ha bisogno di queste stanze fra due giorni, pel successore di quella buona anima di don Noè, che Dio abbia in gloria.

— Proprio questo, disse don Gabriele. E non gli occorre altro?

— Non m’ha detto altro pel momento.

— Bevete un altro bicchiere e andatevene con Dio. Vi porterò la risposta domani, continuò don Gabriele.

— Ve la do io subito, interruppe Bruto. L’alloggio sarà sgombrato domani.

Il santese s’inchinò e uscì.

— Avete tanta premura? chiese don Gabriele a Bruto. [p. 104 modifica]

— Non sarei restato qui un’ora di più se....

E i suoi occhi, che si volsero involontariamente verso la finestra, compirono la frase per don Gabriele. Tartaruga mangiava e pregava senza accorgersi di nulla.

— Io non ho null’altro che la persona a portar via di qui. Tutto quello che si trova è per Tartaruga.

A queste parole, che ben comprese, Tartaruga scoppiò in singhiozzi e la forchetta le cadde di mano.

— Mi scacciate! sclamò; che cosa ho fatto di male, dunque?

— Vi cercherò una stanza, che pagherò io, disse Bruto. Le masserizie, qualche risparmio lasciato dallo zio, vi aiuteranno a vivere per alcune settimane. I primi bezzi, che guadagnerò, li divideremo.

Tartaruga si alzò da tavola, sempre piangendo, prese una forbice e senza pronunziare una parola, si mise a scucire in furia il pagliericcio di don Noè. Cercò con attenzione in mezzo infra le foglie secche di granturco; poi, non trovando nulla, uscì da un altro lato.

Il sudore le gocciava dalla fronte e impallidiva. Niente ancora. Tartaruga allora sventrò tutto il pagliericcio e finalmente trovò un pacchetto di carte, che gettò davanti a Bruto.

— Che roba è codesta? sclamò don Gabriele. Bruto gli porse il pacco.

— Cosa? chiese il burattinaio.

— Guarda.

— Tremila ducati in biglietti di banca!

— Potete prendere una stanza per voi, don [p. 105 modifica]Bruto, disse Tartaruga, e lasciarmi un cantuccio nella cucina. Avete bisogno di qualcuno che vi serva.

Bruto, commosso, non rispose. Don Gabriele, invece, brontolò:

— Lascia che ti abbracci, vecchia mia. Se non mi avessi tanti imbarazzi in casa, ti sposerei.

Tartaruga andò a cercare le scarpe di Bruto e si mise a lustrarle.

— Dove mai il buon Dio va a nascondere dei cuori d’oro! mormorò Bruto fra sè.

— Ma! rispose don Gabriele sorridendo, là dove annicchia le sue perle: in un’ostrica.

— Oh! non sempre, rispose Bruto, guardando di nuovo involontariamente alla finestra.

Don Gabriele si alzò.

— A domani, disse egli.

— A domani, rispose Bruto. Pranzeremo qui avanti di abbandonare questa stanza.

Che sarebbe divenuto Bruto, se avesse continuato a vegetare col dottor Tibia e se suo zio non fosse morto?

Non tutti i mali vengono per nuocere, dice il proverbio.

Il domani, a mezzogiorno, don Gabriele arrivò con una certa aria preoccupata.