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Il vicario di Wakefield/Capitolo ventesimoquarto

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Capitolo ventesimoquarto

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Oliver Goldsmith - Il vicario di Wakefield (1766)
Traduzione dall'inglese di Giovanni Berchet (1856)
Capitolo ventesimoquarto
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CAPITOLO VENTESIMOQUARTO.

Nuove sciagure.

Surse nel vegnente mattino caldo più che alla stagione non si convenisse il sole, talmente che stabilimmo di stare a colazione sul poggiolino della madreselva. E poichè ivi fummo seduti, la minore delle mie figliuole, da me cortesemente richiesta, unì la voce sua al canto degli uccelli che sulle frondi a noi d’intorno vispi ed allegri svolazzavano. Era quello il luogo dove la cara Olivia aveva per la prima volta veduto il malaugurato seduttore, ed ogni cosa le ridestava l’amarezza del cuore. Ma la malinconia eccitata dai piacevoli oggetti od inspirata da soave armonia, anzi che rodere l’anima, in lei versa un balsamo che la lusinga. Anche la madre sentì quella mattina un affanno misto di gioia, e pianse ed amò dell’antico amore la fanciulla. “Mia Olivia,” diss’ella, “or tocca a te la volta; e già la Sofia ha finito di cantare. Fanne sentire tu quell’arietta patetica di cui è sì vago tuo padre. Non negargli no, figliuola mia, questo favore, io te ne priego.” Ella obbedì; e furono di tal maniera malinconiche le cadenze ch’io ne rimasi intenerito.

       Se spietato amante obblia
          La sedotta giovinetta,
          Che rimane alla negletta?
          Chi la sua malinconia,
          Chi di tal crudele inganno
          Può l’affanno — alleggerir?

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       Per coprire il suo rossore,
          Per emenda al suo delitto,
          Perchè l’empio anch’ei trafitto
          Sia dall’onta e dal dolore,
          Altra via non resta ad ella
          Fuor che quella — di morir.

Sul finire dell’ultima stanza un sospiro affannoso, che le interruppe la voce, aggiunse inesprimibile dolcezza alle tristissime note.

Placidi godevamo tutti di quella soavità; quand’ecco apparire da lontano il signor Thornhill, ognuno averne ribrezzo, addolorata più vivamente la Livia bramar di evitare l’aspetto del traditore, e colla sorella in casa ritirarsi. Dopo pochi minuti sceso egli dal suo calesse, s’incamminò diviato vêr dove io sedeva, domandandomi coll’usata familiarità novelle della mia salute. “Signore,” risposi io, “questa vostra temerità a nulla vi giova, fuorchè a sempre più manifestare l’indole vostra vilissima. E oh fosse ancora il tempo di prima! chè certo non andrebbe assoluta l’impudenza che vi mena a me innanzi. Ma gli anni hanno intiepidite le passioni mie, e ’l dovere del mio ministerio tutte le incatena, sicchè a voi non resta di che temere.”

“Per verità,” egli disse, “oppresso io sono dallo stupore, nè so che si voglia questo vostro contegno; perocchè io non credo che voi possiate reputare viziosa o dannabile la passeggiata che vostra figliuola si piacque di fare in compagnia di me.”

“Vanne, per Dio! miserabile creatura, vil mentitore infame, a cui l’istessa viltà è scudo contro dell’ira mia. Eppure da tali avi io discendo che tanto tradimento non avrebbero tollerato. Perfido! perchè avesse pascolo un momento la tua libidine, per tutta sua vita hai fatta infelice una misera donna, hai contaminata una famiglia che aveva per unico retaggio l’onore.”

“Se ella o voi a vostra posta volete essere miseri, [p. 154 modifica]colpa io non ne ho. Ma a voi tanto ancora rimane, da potere esser felici; e qual ch’egli sia il giudicio da voi formato di me, troverete sempre Thornhill disposto a contribuire alla vostra fortuna. Facil cosa è in breve tempo sposarla ad un altro; e quel che più importa, ella potrà conservarsi tuttavia l’amante, chè tale io giuro di rimaner sempre vêr lei.”

A tale vergognosa proposta sentii ribollire in petto tutte le passioni; perchè quantunque spesse volte pazientemente l’animo sopporti altissime ingiurie, basta a trafiggerlo in alcuni istanti una lieve villania, e quella furibondo lorende. E: “Via di qua,” gridai; “fuor de’ miei sguardi tosto, verme abbominevole; nè più insultarmi colla tua presenza. Se meco avessi il mio valoroso Giorgio, certo ch’egli non patirebbe cotanta tua ribalderia. Ma ahi me misero! io son vecchio, stroppiato e per ogni verso abbattuto.”

“Veggo,” diss’egli, “che mi forzate a parlare più duramente ch’io non avrei voluto. Ma poichè vi fu da me dimostrato quanta speranza voi potete riporre nella mia amicizia, parmi di dovervi anche avvertire di quanto vi possa riuscir dannosa la collera mia. Il mio procuratore a cui ho ceduta quella tal carta colla quale vi obbligaste al rendimento delle cento lire, minaccia di volere essere ad ogni modo pagato. Nè io saprei come impedire ch’egli vada a giustizia, se non se sborsando io que’ danari; ma ella è cosa presso che impossibile per le molte spese sponsalizie da me fatte in questi giorni. Inoltre, il mio fattore dice di non volere risparmiare triboli a chicchessia purchè egli riscuota il terratico: ed egli è uomo destro; nè io di tali brighe m’impaccio. Bramerei nondimeno d’esservi utile, sì veramente che voi in segno d’amicizia vogliate intervenire con esso la figliuola alle mie nozze, appagando con tal cortesia anche il desiderio della mia diletta Arabella Wilmot, alla quale spero che non sarà da voi data ruvidamente una repulsa.” [p. 155 modifica]

“Signor Thornhill, ascoltatemi una volta, e sia l’ultima. Alle vostre nozze con altra donna che la mia figliuola io non acconsentirò giammai. E se la vostra amicizia valesse anche ad innalzarmi al soglio, o la collera a trarmi in tomba, e l’una e l’altra abborrirei sempre. Una fiata voi mi avete iniquamente, irreparabilmente ingannato; e quando sul vostro onore il mio cuore riposava, mi pagaste d’infamia. Nol farete però una seconda; poichè la mia amicizia vi è eternamente negata. Itene pure, e godete dei beni de’ quali la fortuna vi ha adornato, la bellezza, le ricchezze, la salute, i piaceri. Itene, e me lasciate in mezzo allo squallore, all’infamia, alla desolazione ed al lutto. Ma per umiliato ch’io sia, si rivendicherà quest’anima ogni sua dignità, ed avrete da me il perdono, ma la mia stima giammai.”

“Bene sta: e vedrete quanti vi partorirà guai codesta vostra tracotanza; e presto apparirà quale di noi due sia di maggior disprezzo meritevole oggetto.”

Com’ebbe egli ciò detto, di subito partì.

La moglie mia e ’l figliuolo stati presenti a questo dialogo, ne restarono per la gran tema atterriti. E le fanciulle, vedutolo andare, uscirono per saperne i discorsi; ed uditili, non meno di que’ due si rimescolarono tutte, e si fecero bianche in viso. Ma io poco conto teneva dell’estremo maltalento di lui. La percossa più crudele ei me l’aveva già avventata: ed io me ne stava preparato a respingere ogni novello sgarbo dell’iniquo; a guisa d’esperto guerriero che quantunque abbia già scagliato il giavellotto, un altro ne ritiene tuttavia, e la punta ne dirizza sempre all’inimico, e di quello fa scudo al proprio petto.

Non andò guari però che a noi fu manifesto come le sue non erano state vane minacce; e l’altro giorno il fattore venne a chiedermi i fitti che io non era per le sofferte sventure in istato di pagare. Quindi egli quella sera stessa impadronitosi del mio bestiame, vendettelo il [p. 156 modifica]giorno appresso per metà del valore. Allora mia moglie ed i miei figliuoli mi scongiurarono di accettare ogni partito anzi che rovinarli affatto, pregandomi ancora di lasciare che Thornhill di bel nuovo ci visitasse. Per lo che misero in campo tutta quanta la poca eloquenza delle loro parole; e tutti mi ritrassero al vivo i disastri a cui io andava incontro, e i terrori d’una prigionia nel cuor del verno, e la mala fermezza della mia salute per la riportata scottatura. Ma io mi tenni saldo, inconcusso.

“E perchè, miei cari,” diss’io, “tentate voi di persuadermi una ingiusta cosa? Era dover mio il perdonargli, e ’l feci: ma la mia coscienza non vuole che io approvi il delitto di lui. Vorreste voi che in faccia al mondo io commendassi ciò che in segreto io danno? Vorreste voi ch’io mi prostituissi e lisciassi la coda al nostro infame traditore? Vorreste voi che per iscampare dalla prigione sostenessi il martello de’ miei rimorsi incessante, atrocissimo? No, Dio mi guardi; non sarà mai. Che se da questa stanza ci si vuole strappare, manteniamoci giusti; e ovunque ci si gitterà, troveremo ameno ricovero; e ogni volta che i nostri cuori si serberanno nella illibatezza costanti, sarà serena la nostra vita.”

Così passò quella sera; e messasi la notte la più folta neve del mondo, la mattina per tempo il mio figliuolo stava sgombrando innanzi all’uscio il nevaio ed aprendo una via; allorchè, proseguito di poco il lavoro, corse pallido e tutto rabbuffato in casa ad avvisarci venire a quella volta due persone ch’egli sapeva essere bargelli.

Parlava ancora quel meschinello; e coloro entrarono: ed accostatisi al mio letto, dopo di avermi detto chi e’ fossero, mi fecero prigione, comandandomi di seguitarli alla carcere della Contea di lì lontana ben undici miglia.

“Amici miei,” diss’io, “a mal tempo voi veniste a legarmi; e quel che più della rigida stagione mi affanna, si è l’avere io malconcio dal fuoco un braccio, pel qual [p. 157 modifica]malore anche una lenta febbre mi ha colto. Panni per coprirmi non ho: e debole, vecchio, assiderato, come poss’io viaggiar tanto in mezzo a neve sì alta? Ma se così pur deve essere....”

Mi rivolsi poscia alla famiglia, ed a quella diedi ordine di ragunare le poche suppellettili che ci restavano, onde immediatamente quel luogo sgombrare. Pregai di far presto, e che mio figliuolo assistesse la Livia, la quale per la conoscenza d’essere ella cagione d’ogni nostra calamità, tutta misvenuta nè d’angoscia più nè di vita dava segno. Poi rincorai mia moglie che smorta e tremante stringeva gli sbigottiti bambini nelle braccia; e quelli muti muti nascondevano gli occhi nel seno della madre, nè ardivano innalzarli al volto degli stranieri. Intanto la più giovane delle fanciulle, da me affrettata, allestì ogni cosa per la partenza; e in men di un’ora tutto fu in punto.