Inni omerici/Ad Afrodite/Inno
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O Musa, narra a me d’Afrodite, signora di Cipro,
vaga dell’oro, le gesta. Fra i Numi la brama soave
d’amore suscitò, domò dei mortali le stirpi,
e degli uccelli che in aria si librano, e tutte le fiere,
quante la Terra, quante ne nutre l’Ocèano: a tutti
di Citerèa dalla vaga corona son l’opere grate.
Solo di tre non potè né ingannar né convincere il cuore.
Non della figlia di Giove, d’Atena dagli occhi azzurrini.
L’opere a lei non son grate di Cipride amica dell’oro,
bensí grate le sono di Marte le imprese, le guerre,
le zuffe, le battaglie, le fulgide gesta compiute.
Essa per prima istruì gli artefici industri mortali
a costruire i carri, i cocchi intarsiati di bronzo,
essa nell’opere egregie fe’ sperte le vergini molli,
ché nella casa entrò di ciascuna e ispirarne la mente.
Neppur la Dea ch’à d’oro le frecce, che gode ai clangori,
Artemide, irreti nell’amor la ridente Afrodite:
ché a lei piacciono gli archi, le cacce di fiere pei monti,
piaccion le cetre, le danze, le grida che giungono al cielo,
piacciono le città dei giusti e gli ombriferi boschi.
Né d’Afrodite piacquer le imprese alla vergine Vesta,
pura, che nacque prima figliuola di Crono l’astuto,
Dea veneranda cui sposa bramaron Posídone e Apollo.
Essa non volle, però, duramente i due Numi respinse;
e grande un giuramento formò, che poi sempre mantenne,
del padre Giove, sire dell'ègida, il capo toccando,
che, Diva fra le Dee, resterebbe mai sempre fanciulla.
E, delle nozze in cambio, le die’ questo dono il Croníde;
che in mezzo essa alla casa sedesse, a ricever l’omento.
Ed essa in tutti i templi dei Numi riscuote gli onori,
e più d’ogni altro Nume la invocano tutti i mortali.
Di queste tre non può né ingannar né convincere il cuore;
ma nessun altro può mai sfuggire alla Diva Afrodite,
né fra i Beati, né fra gli uomini nati a morire.
Il senno ella sconvolse perfino di Giove tonante.
È sopra tutti Giove possente, e fra tutti onorato;
eppur, qualora volle, la scaltra sua mente illudendo,
agevolmente mischiare lo fece con donne mortali,
d’Era lo rese oblioso, ch'è pur sua sorella e sua sposa,
ch'è la più bella d’aspetto fra tutte le Dive immortali:
Crono la generò, l’astuto, più bella d’ogni altra,
la madre sua fu Rea: signor di pensieri immortali,
Giove la fece sua sposa diletta, pei tanti suoi pregi.
Eppur, brama soave nel cuore alla stessa Afrodite
infuse Giove, vaga la fe’ d’un amplesso mortale,
ch'essa più a lungo inesperta non fosse del letto d’un uomo,
e non potesse più menar vanto fra tutti i Celesti,
soavemente ridendo, l'amica del riso Afrodite,
ch'essa i Celesti aveva congiunti con donne mortali.
che avean figli mortali concetti agli Dei sempiterni,
che avea le Dee congiunte con gli uomini nati a morire.
Dunque, d’Anchise brama soave le infuse nel cuore,
che allor dell'Ida irrigua di fonti sui vertici eccelsi
i buoi pasceva, e tutto sembrava all'aspetto un Iddio.
Come lo scorse, dunque, l’amica del riso Afrodite,
innamorò, la mente le invase terribile brama.
A Cipro venne, entrò nel suo tempio fragrante d’incensi,
a Pafo: un tempio qui possiede e un altare odoroso.
E poi ch'entrata fu, chiuse ch'ebbe le fulgide porte,
qui la lavarono allora le Càriti, l’unsero d’olio
ambrosio, quale sempre le membra dei Numi cosparge.
E, tutte quante cinta le membra di fulgide vesti,
adorna tutta d’oro, l’amica del riso Afrodite,
lasciò Cipro fragrante, si mosse alla volta di Troia,
alta, alle nuvole in mezzo, compiendo veloce il viaggio.
E giunse all'Ida irrigua di fonti, nutrice di fiere,
ed a la stalla mosse, diritta pel monte; e a lei contro,
scodinzolando, lupi, leoni dagli occhi di fuoco,
orsi, veloci pantere, che mai non si sazian di damme,
mosser. La Diva scòrse le fiere, fu lieto il suo cuore,
e infuse a tutte quante nel petto la brama d’amore;
e giacquer tutte a coppie per entro gli ombrosi covili.
E poi, mosse alla bene costrutta capanna ella stessa,
e lui trovò, che stava qui solo, lontano dagli altri,
Anchise eroe, che aveva bellezza quanta hanno i Celesti.
Avean gli altri pastori seguíti nei pascoli i bovi,
e nel presepe egli era, lontano dagli altri, rimasto,
e passeggiava qua e là, toccando la cétera acuta.
A lui dinanzi stette la figlia di Giove, Afrodite,
che di statura, di forme, sembrava una vergine intatta,
perché non rimanesse sgomento, vedendola, Anchise.
E come vista l’ebbe, rimase a mirare, stupito,
l’aspetto suo, la sua statura, le fulgide vesti:
ché un peplo ella cingeva più ardente che raggio di fuoco,
e búccole portava fulgenti, e volubili armille,
e s'avvolgean monili bellissimi al morbido collo,
d’oro, di varii colori brillanti: sul tenero seno,
miracolo a vedere, parea che fulgesse la luna.
E preso Anchise fu d’amore, ed a lei si rivolse:
«Salve, o Signora, chiunque tu sii delle Dee che qui giungi,
Artemide, Latona, l’amica dell’oro Afrodite,
o Tèmide bennata, o Atena dal cerulo sguardo;
oppur, se alcuna tu delle Cariti sei, che qui giunge,
che sempre son compagne dei Numi, e son dette immortali,
o delle Ninfe alcuna che vivon pei floridi boschi,
o delle Ninfe che dimorano in questa bell’alpe,
per le sorgenti dei fiumi, fra l’erbe di fonti perenni.
Io sopra un'alta vetta, visibile a tutti gli sguardi,
un'ara leverò, farò sacre offerte, a onorarti,
nelle stagioni tutte: tu poi, con benevoli cure,
fa’ ch'io divenga un uomo distinto fra tutti i Troiani,
fa’ che una florida stirpe succedermi possa; ed io stesso,
fa tu che a lungo veda la luce del sole, e, beato
fra le mie genti, possa toccar di vecchiezza la soglia».
E a lui cosí rispose la figlia di Giove, Afrodite:
«Anchise, o il più famoso fra gli uomini nati a morire,
no, che non sono una Diva: perché mi assomigli alle Dive?
Una mortale sono, mia madre fu donna mortale:
Otrèo, se mai ne udisti parlare, è l’illustre mio padre,
che sovra tutta impera la Frigia dall’alte muraglie.
E so la lingua vostra al par della nostra: ché in casa
una nutrice di Troia mi crebbe da piccola bimba,
e m’educò, poco a poco: ché m’ebbe cosí da mia madre:
ecco perché sí bene conosco la vostra favella.
E adesso mi rapí l’Argicída dall’aurea verga,
mentre danzavo in onore d’Artèmide amica ai clamori,
dagli aurei dardi. Molte danzavano Ninfe e vezzose
vergini, qui: faceva corona una turba infinita.
E quindi mi rapí l’Argicída dall’aurea verga,
e sopra molti campi mi trasse di genti mortali,
su terre molte, senza né campi né rocche, ove fiere
voraci hanno soltanto dimora, in ombrosi covili;
né mi sembrò ch’io mai toccassi la terra ferace.
E disse ch’io giacere dovevo nel letto d’Anchise,
sposa legittima, e a te generare bellissimi figli.
Ora, poi ch’ebbe detto, parlato cosí, nuovamente
partí, fra gl’Immortali tornò l’Argicída gagliardo;
ed io qui venni a te, ché possente destino mi spinse.
Ed ora io ti scongiuro, per Giove e pei tuoi genitori
nobili — ch’essere figlio non puoi tu di gente dappoco —
guidami al padre tuo, che mi scorga, alla saggia tua madre,
ed ai fratelli tuoi, che nati son teco d’un sangue.
Nuora sarò per essi prudente, e non trista; e un araldo,
quanto puoi prima, ai Frigi dai pronti puledri spedisci,
che rechi al padre mio l’annunzio, alla madre dolente.
Ed essi oro a dovizia, di certo, con vesti tessute
mi manderanno: i doni che avrai, saran fulgidi e molti.
Ed offri, dopo ch’abbia ciò fatto, un banchetto di nozze
che agli uomini riesca diletto, ed ai Numi immortali».
Ardore infuse in lui la Diva con queste parole.
Anchise vinto fu d’amore, e cosí le rispose:
«Se dunque sei mortale, se donna fu dunque tua madre,
ed è, come tu dici, tuo padre il chiarissimo Otrèo,
e per volere d’Ermète che l’anime guida qui giungi,
per sempre tu chiamata sarai mia legittima sposa.
Nessuno or degli Dei, né degli uomini nati a morire,
frenar qui mi potrà, che d’amore con te non mi stringa,
súbito adesso: neppure se Apollo che lungi saetta
dall’arco suo d’argento scagliasse le frecce dogliose:
bene io consentirei, dopo asceso il tuo talamo, o donna,
che sei pari alle Dee, sprofondare alla casa d’Averno».
Disse, per mano la prese. L’amica del riso Afrodite
mosse, volgendo indietro la testa, avvallando lo sguardo,
verso il giaciglio bene composto, che già pel signore
era apprestato, con morbidi manti; e vi stavano sopra
distese pelli d’orsi, di cuporuggenti leoni,
che uccisi avea lo stesso signor sulle cime dei monti.
Ora, poiché sul letto bellissimo furono ascesi,
pria dalle membra tutti le tolse i fulgenti monili,
e búccole, e collane, e fibbie, e volubili armille:
la zona poi le tolse, le fulgide vesti le sciolse
Anchise, e l’adagiò sopra il trono dai chiodi d’argento.
E qui, come la Sorte voleva e la Forza dei Numi,
giacque il mortale ignaro vicino alla Diva immortale.
Nell’ora che i pastori conducon di nuovo all’ovile
dai pascoli fioriti le pecore pingui e i giovenchi,
su Anchise allor versò la Diva un soave sopore
dolce, e di nuovo cinse le fulgide vesti alle membra.
E poi che tutta fu vestita la Dea fra le Dee,
alla capanna stette dinanzi; e giungeva la testa
al solido architrave: bellezza immortal dalle guance
fulgea: bella com’è Citerèa dalla vaga ghirlanda.
E lo destò dal sonno, gli volse cosí la parola:
«Sorgi, di Dàrdano figlio: ché giaci nel sonno profondo?
Déstati, e vedi se proprio ti sembra che a quella fanciulla
simile io sia, che or ora t’apparve dinanzi allo sguardo».
Disse. Ed Anchise l’udí, balzò dal sopore all’istante.
E appena il collo e gli occhi fulgenti mirò d’Afrodite,
terror l’invase, e altrove le luci rivolse sgomente.
E poscia, il suo mantello distese, a nascondersi il volto,
e a lei volse una prece, parlò queste alate parole:
«A mala pena, o Dea, ti vider questi occhi, e conobbi
sùbito ch'eri una Dea; ma il vero tu a me non dicesti.
Or le ginocchia ti stringo, per Giove l’egíoco ti prego,
non far ch’io d’ora innanzi trascorra una misera vita,
abbi di me pietà: ché florida vita non gode
l’uomo che con le Dee che vivono eterne si giacque».
E a lui cosí rispose la figlia di Giove, Afrodite:
«Anchise, o tu preclaro fra quanti sono uomini al mondo,
fa’ cuor, l’animo tuo non ceda a soverchio sgomento.
Da me temer non devi che mai ti derivi sciagura,
né da verun dei Beati: ché tu sei diletto ai Celesti.
E un caro figlio avrai, che signore sarà dei Troiani;
e nasceranno, senza mai termine, figli da figli.
Enea si chiamerà, perché grave doglia m’invase,
allor ch'io, Diva, scesi nel letto d’un uomo mortale.
Furono molti già, cresciuti di vostra progenie,
simili tutti, d’aspetto, d’ingegno, ai Signori del cielo.
Giove, che tutto sa, Ganimede rapí, chioma bionda,
preso di sua bellezza, perché fra i Celesti vivesse,
e nella casa di Giove il nèttare ai Numi mescesse:
miracolo a vedere, da tutti i Celesti onorato,
quando il purpureo vino mesceva dall'ànfora d’oro.
Ma invase il cuor di Tròo funesto dolor; né sapeva
dove gli avesse il figlio rapito divina procella;
e tuttodí lo andava con gemiti lunghi invocando.
E pietà n’ebbe Giove, gli diede, in compenso del figlio,
gli alivoli corsieri che portano in groppa i Celesti.
Questo presente gli fece. E poi, per comando di Giove,
tutto gli raccontò l'Argicída che l’anime guida:
ch'era per sempre immune suo figlio da morte o vecchiezza.
E poi ch’egli ebbe udito di Giove il messaggio, lamenti
più non mandò, ché anzi di gioia ebbe l’anima colma;
e lieto si lanciò sui corsieri dal piè di procella.
Del pari, allor che Aurora, dall'aureo trono, Titóne
rapí, ch'era mortale di stirpe, ma simile ai Numi,
prece rivolse al Croníde, signore dei nuvoli foschi,
che lo rendesse immune da morte, e di vita perenne.
E Giove acconsentí, volle ch'esito avesse la prece.
Poi, quando giú dal capo suo fulgido, giú dalle gote
floride, i primi a lui s’effusero crini canuti,
lungi dal suo giaciglio rimase la Dea veneranda,
e in casa ognor lo tenne, porgendogli cibo ed ambrosia,
quale manducano i Numi, gli diede bellissime vesti.
Ma quando poi lo colse l’estrema vecchiezza odïosa,
né muover piú potea, né pure agitare le membra,
questo le parve il migliore partito: rinchiuso tenerlo
nel talamo, e su lui serrare le fulgide imposte.
Un cianciuglío perenne gli uscía dalle labbra, né ombra
piú della forza avea, ch'ebbe un giorno nell'agili membra
Io non vorrei che cosí, fra i Numi che vivono eterni,
vivessi tu, che mai non dovesse finir la tua vita.
Se tale, quale adesso tu sei di sembianza e di membra,
vivere tu potessi, mio sposo in eterno chiamarti,
non sederebbe allora corruccio d’intorno al mio cuore:
invece, a te vecchiezza sovrasta, che uguale è per tutti,
senza pietà, che incombe, col tempo, su tutti i mortali,
che strugge, che affatica, che in odio è perfino ai Celesti.
Ora, per tua cagione, sarà questa mia gran vergogna,
giorno per giorno, senza mai tregua, fra i Numi del cielo,
che prima i miei disegni temevano e i dolci colloqui,
onde una volta tutti si giunsero a donne mortali
gli eterni Numi, e tutti li seppi domar com’io volli.
Or piú non oserà la mia bocca menar questo vanto
fra gl'Immortali, ché grande, ché orrendo fu troppo il mio fallo,
da non si dire, ché fu sconvolto il mio senno, quand'io
con un mortale giacqui, ne chiudo nel grembo un fanciullo.
Questi, come aprirà le pupille a la luce del Sole,
lo nutriranno le Ninfe montane dal seno ricolmo,
ch'ànno dimora negli ampî valloni di questa montagna
sacra. Non sono Dee, neppure mortali sono esse,
hanno durabile vita, manducano ambrosie vivande,
e intrecciano fra i Numi beati eleganti carole.
Con esse l’Argicída d’acuta pupilla e i Sileni
si mescono d’amore, nel fondo d’amabili spechi.
Nascono, sopra la terra che gli uomini nutre, quand'esse
vengono a luce, querce d’eccelsa cervice, ed abeti
floridi, tutti belli, sovresse le vette dei monti.
Toccano il cielo le vette: li chiamano templi dei Numi
gli uomini; e i tronchi mai col ferro nessun ne recide.
E quando ad una d’esse la Parca di morte s’appressa,
sopra la terra, prima, si essiccano gli alberi belli,
si strugge tutto intorno la scorza, al suol cadono i rami,
e l’alma loro insieme la luce del sole abbandona.
Esse terranno presso di sé, nutriranno il mio figlio.
E come prima avrà raggiunta l’età piú fiorente,
a te lo condurranno, perché tu lo veda, le Dive.
E sappi ancor, ché tutto ti voglio scoprir ciò ch’io penso:
di nuovo a te col figlio verrò, quando compia il quinto anno.
E come gli occhi tuoi contemplino un tale germoglio,
t’allegrerai di vederlo: ché avrà d’un Celeste l’aspetto.
Ed alla rocca teco tu guidalo d’Ilio ventosa;
e quando alcun ti chiegga degli uomini nati a morire
qual madre mai per te nel grembo portò questo figlio,
dire gli devi ciò ch’io ti dico, ricòrdati bene:
dí che rampollo egli è d‘una Ninfa dal viso di fiore,
che dimorava in questa montagna vestita di selve.
Ché poi, se il vero sveli, se per vanità tu racconti
che unita fu con te Citerèa da la bella ghirlanda,
te colpirà sdegnato col fumido folgore Giove.
T’ho detto tutto: tutto serbar ne la mente tu devi:
frénati, motto non dire, rispetta il volere dei Numi».
E, cosí detto, via si perse, fra i venti, nel cielo.
Salute, o Dea che Cipro, la bene costrutta, proteggi:
io, cominciando da te, vo’ tessere un canto novello.