Isaotta Guttadauro/Il libro d'Isaotta/Isaotta nel bosco

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Isaotta nel bosco

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Il libro d'Isaotta - Ballata d'Astioco e di Brisenna Il libro d'Isaotta - Sonetto d'aprile

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III.

ISAOTTA NEL BOSCO

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«Eranmi schiavi li astri in lunghe torme;
e in tal regno le feste ho celebrate
de’ suoni de’ colori e de le forme.»


Ballata, VI.


Disegno di G. A. Sartorio.

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BALLATA I.

Pur jeri (uscian da la recente piova
i cieli, tersi più che vetri schietti)
andavam co’ ginnetti
pe’ boschi de la valle cavalcando.

Ella, dritta in arcioni, agile e franca,
reggea ne ’l pugno i freni
e moveali con varia maestrìa.
Piegava ad arco il ginneto la bianca
chioma e fervea con leni
giochi, sommesso a quella tirannìa;
e la sua leggiadrìa
e la beltà d’Isotta e il bosco intento
e li albori sereni,
che di velari penduli d’argento
adornavano il bosco in tutti i seni,
facean così gentil componimento
ch’io mi chiesi: - Non forse in lor balìa
hannomi i Sogni? - E stetti dubitando.

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BALLATA II.

Non m’avevano i Sogni in lor balìa;
chè mi disse la Bella, ad un radore:
- Senti soave odore
di viole, che giunge a quando a quando! -

Su’ freschi venti odore di viole
giungea, soave e forte;
trepidavano li alberi novelli,
in torno; e aprivan loro gemme a ’l sole
le rame ésili e torte;
e verzicavan fitti li arboscelli,
come verdi capelli
ondeggiando nell’aria ad ogni fiato.
E parevan le morte
ninfe rivivere, e parea rinato
Pane al mondo, ed alfin parean risorte
tutte le deità de ’l tempo andato,
ma quali un dì le vide il Botticelli
in su’ poggi di Fiesole vagando.

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BALLATA III.

Ella disse: - Cerchiamo le viole
tra l’erbe, chè non son lungi nascoste. -
(O fiori, che a me foste
cagion di gaudio, vostro pregio io spando.)

Balzai a terra; ed ella, anche d’un salto,
vennemi sovra il petto,
ridendo. Propagaronsi per l’òra
le freschissime risa, in mezzo a l’alto
silenzio; ed il ginnetto
anitrì ver la dolce sua signora.
Noi ci mettemmo allora
su l’odorosa traccia a ricercare
ne ’l bosco giovinetto.
Chini su ’l suol pratìo, senza parlare,
noi eravamo intesi a quel diletto.
S’udivano i cavalli pascolare
da presso e impazienti ad ora ad ora
scuoter li arcioni, forte respirando.

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BALLATA IV.

Piovea su ’l verde il sol di marzo, infranto,
però ch’avea co’ rami allegra lotta.
E le man d’Isaotta
sparivano in tra ’l verde, a quando a quando.

Oh mani belle, oh mani bianche e pure
come ostie in sacramento,
dolci a li afflitti, prodighe, regali,
meglio che a’ tempi gai de l’avventure!
Oh mani che il cruento
cuor nostro ignavo e le piaghe mortali
e tutti i nostri mali
con infinita carità guariste,
ed a ’l nostro tormento
le porte d’oro de’ bei sogni apriste,
e a ’l nostro ardore cieco e violento
in coppa d’oro un vin sereno offriste!
Oh bianche mani, oh gigli spiritali
tra le viole, ne ’l chiarore blando!

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BALLATA V.

Riprendemmo la via, con i ginnetti
ch’eran più vivi e più giocondi. Al corso
anelavano, e il morso
tingean di calda bava, scalpitando.

Ora la selva, innanzi a li occhi nostri,
misteriosa e grave,
ergeva i tronchi e i rami a ’l ciel maggiori;
e, lunga componendo ala di chiostri,
volgeasi in ampia nave,
qual dòmo, o spaziava in alti fòri.
Avea cupi romori.
Ella disse: - Non dunque tal sentiere
mena a ’l loco soave
u’ la Bella, aspettando il Cavaliere,
dorme sepolta in tra le chiome flave
che crebbero per mille primavere? -
Ond’io sorrisi. Ed ella: - Or quali amori
sogna colei ne l’animo, aspettando? -

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BALLATA VI.

— Non sogna - io dissi. Ed ella: - Io so che un giorno
venne il sire a fugar da que’ cari occhi
l’incanto, ed a ginocchi
baciò la rara mano, supplicando.

Ei parlò di tesori e di castella,
di terre ismisurate,
d’omaggi e di diletti senza nome.
Lucidamente arrisegli la Bella,
dicendo: «Voi mi fate
onor grande, o mio sire. Ma pur, come
sorga l’alba, le some
voi leverete, a ritrovare l’orme.
Altre plaghe ho regnate!
Eranmi schiavi li astri in lunghe torme;
e in tal regno le feste ho celebrate
de’ suoni de’ colori e de le forme.»
Disse; e di nuovo arrise, ne le chiome
ampie, come in un gorgo, profondando. -

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BALLATA VII.

Il mister favoloso in cui la selva
era sommersa, e quella voce umana
che dava ad una vana
ombra la vita, e quel chiarore blando,

il senso mi cingean di tal malìa
ch’io mi credeva udire
suono di corni in lontananza ròco
e veder cervi a mezzo de la via,
grandi e candidi, escire
con in fronte una croce alta di fuoco.
Strano li alberi gioco
facean di luci. L’un parea, tra’ rai,
smeraldi partorire;
l’altro balzar da li orridi prunai
come serpente, in mal attorte spire.
Disse Madonna: - Si convenne Elai
un tempo con Astìoco in questo loco,
il qual re meriggiava poetando.

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BALLATA VIII.

Meriggiava quel re, sotto il pomario
che splendeva a’ suoi dì come un tesoro.
Cadeano i frutti d’oro
gravi su ’l suolo in torno, a quando a quando.

Rendean per l’aria in torno una fragranza
di miel, così gioconda
che al cuor giungeva quale un vin di rose.
E il buon Astìoco, in mezzo a l’abondanza
de’ frutti, di profonda
dolcezza pieno l’anima, si pose
a laudare le ascose
virtuti de la terra in un poema.
Giunto era a la seconda
canzone quando, senz’alcuna tema,
ei scorse Elai. Qual re di Trebisonda,
il capo cinto avea d’un diadema
ed il petto di pietre preziose
che vincevano il dì riscintillando.

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BALLATA IX.

Chiesegli Elai: «Vuoi tu, sir di Brolangia,
sopra tutta la terra alzar tuo soglio?»
Ed il sir: «Ben io voglio!
Or tu dammi, che ’l segua, il tuo comando.»

«Sorgi dunque da l’ombra e t’incammina
pe ’l sentier ch’io t’addito,
fin che tu giunga in riva de ’l ruscello,
ove un giorno la fata Vigorina
adagiò ne ’l fiorito
letto de l’erbe il corpo agile e bello;
ed il magico anello
che fiammeggiava più che foco vivo
mise, come in un dito,
ne ’l verde stel d’un giglio ancor captivo;
e sognò, me’ che in letto di sciamito,
a ’l murmure de l’acque fuggitivo.
Or trarre ti convien da ’l gambo snello
il fin tesoro, là dov’io ti mando.»

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BALLATA X.

Surse pronto il re musico; ed il lesto
piè mosse in cerca de ’l beato giglio.
E a l’antico giaciglio
di Vigorina giunse trepidando.

Vide lo stelo e vide anche l’anello;
e lo stel ne ’l cerchietto
pareva il dito fragile e mortale
d’una ninfa cangiata in arboscello.
Ma il sire, a tal conspetto,
non osò porre la sua man regale
su l’anello fatale;
poiché, da quando l’erbe a Vigorina
furon fiorito letto,
il giglio erasi aperto a la divina
luce, non più da ’l calice constretto;
e Astìoco, in tòr la pietra alabandina,
infranto avrebbe il giglio verginale
che a ’l sol ridea, si dolce palpitando. —

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BALLATA XI.

Questo narrò la mia favolatrice.
Ed a me parve che un incantamento
fluisse da quel lento
eloquio, tutti i boschi affascinando.

Com’ella tacque, il fremito de ’l suono
mi tremolò sì viva -
mente a precordi, ch’io rimasi assorto
nel mio diletto ripensando a ’l buono
Astìoco. — E se a la riva
d’oro il giglio d’Elai non anche è morto?
E se ancóra a diporto
la fata Vigorina è pe’ sentieri? -
ella chiese, chè udiva
non lungi mormorii rochi e leggeri
d’acque, correnti giù per la nativa
ombra, e vedeva crescere i misteri
entro i seni de ’l valico ritorto.
Onde spronammo, innanzi trapassando.

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BALLATA XII.

Era la fonte in una lene altura
coronata d’opachi elci e di mirti.
Rompevano li spirti
de la fonte tra’ sassi palpitando.

Non mai dolce sonò bistonia lira
come le fronde a ’l vento
su la natività de le bell’acque;
né fu sì chiaro il talamo d’Argira
e né pur l’ariento
u’ con la ninfa, poi che a Giove piacque,
Ermafrodito giacque.
Partìasi l’onda in rivoli tra’ massi
de ’l clivo, in più di cento
rivoli che brillavano, pe’ sassi
fini e politi, con varïamento
di carbonchi topazi e crisoprassi.
Attoniti mirammo; ed in noi nacque
desìo di bere... - O fonte, io t’inghirlando!

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BALLATA XIII.

Io t’inghirlando, o fonte ove quel giorno
parvemi bere in coppa jacintea
il sangue d’una dea,
che a ’l cuore mi fluì letificando! -

Scendemmo il piano margine; e commise
in sì dolce atto Isotta
il fior della sua bocca ad una vena
e sì fresco e vermiglio e vivo rise
quel fiore in tra la rotta
onda e s’aperse, ch’io ritenni a pena
un grido in su la piena
bocca più baci e più, cupido, impressi.
Ella rideva... Oh lotta
di baci che cadean sonanti e spessi
e mescevansi a l’acque! Oh ne la grotta
ampia e ninfale mormorii sommessi
d’acque e le risa de la mia serèna!
Bevemmo e ci baciammo, ivi indugiando.

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BALLATA XIV.

Or quale io bevvi ignoto filtro, inconscio?
Era ne la sua bocca, era ne l’acque
la virtù cui soggiacque
ogni mio senso, amor rilampeggiando?

Non so. Ma come uscimmo da la chiostra
in su’ paschi feudali
ove il bel fiume suoi tesori aduna,
parvemi cavalcare ad una giostra,
e che da que’ fatali
occhi mi sorridesse la fortuna
e fusser ne la luna
in urna d’adamante custodite
le mie sorti regali.
Onde, felici, a ’l Sol candido e mite
e a l’ardor de’ cavalli ed ai natali
vènti ci abbandonammo; e le due vite
nostre mescemmo e rinnovammo in una
vita più forte, che s’aprì raggiando.